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    enrix 18:22 on 24 April 2011 Permalink | Rispondi
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    BUBBOLE E PUPARI

    Ora si difendono dal naufragio dicendo che c’è un “puparo”. Ma è una solenne sciocchezza. Ecco un capitolo integrale del mio libro “Prego, dottore!”, che ho scritto esattamente un anno fa.  Avevo previsto tutto, ma c’è chi ha voluto proseguire lo stesso con la messinscena.
    E non è un misterioso “puparo”, ma gente con un nome ed un cognome.


     

    C’è in giro un po’ di apprensione, un po’ di agitazione, come il timore di un naufragio, a causa delle ultime vicende in cui è incappato Massimo Ciancimino.

    Travaglio scrive due articoli nel giro di poche ore, (ai quali, a breve, noi replicheremo nei modi dovuti), per organizzare il soccorso.

    Antonio Ingroia, sull’Unità, mette le mani avanti: “Abbiamo sempre tenuto un atteggiamento di grande rigore e prudenza, e perciò ritenevamo (e riteniamo) utilizzabili le dichiarazioni di Ciancimino solo nella parte in cui sono frutto di conoscenza personale e confermate da puntuali riscontri obiettivi.”

    Per capire quanto questa affermazione di Ingroia sia vera, oppure non lo sia per niente, non si ha che da leggere che cosa io scrivevo un anno fa, sul mio libro “Prego, dottore!”, e precisamente nel nono capitolo che ora pubblico di seguito, integralmente.

    Chi avrà la pazienza di seguire i fatti attraverso questa lettura, capirà soprattutto che questa storia del “puparo” che avrebbe manovrato Ciancimino non è altro che una solenne sciocchezza inventata da chi oggi cerca disperatamente un modo per mascherare un macroscopico capitombolo. La realtà è che Ciancimino improvvisava, per cui non aveva “dietro” nessun puparo, per non credergli bastava solo un minimo di attenzione, e questa attenzione non si è voluta mettere.

    E quindi se ci sono responsabilità “esterne” a quelle del protagonista, queste sono solo e soltanto imputabili a chi ha voluto credergli e professare il suo verbo ad ogni costo. Altro che pupari.

    E si tenga presente, per chi non lo sapesse, che il mio libro “Prego, dottore!” è agli atti del processo “Mori”, a Palermo, da ormai 7 mesi, per cui il dr. Ingroia, che in quel processo è Pubblico Ministero, non può dire di non averlo avuto a sua piena disposizione.

    Buona lettura.

     

    9.
    LA TATTICA "CAMPO DI PRUNI" DI FRATEL CONIGLIETTO

     

    Questa sarebbe una lettera commerciale? Ma mi faccia il piacere!
    «Egr. dott.»… questa lettera mi puzza di abbruciaticcio, mi sa di linguaggio
    cifrato. Andiamo avanti nella lettura. «Abbiamo ricevuto la v.s.», che vuol
    dire volantini sovversivi, «spedita il 6 c.m.» che significa cannoni e mitragliette.
    Che credono che siamo rimbambiti? Andiamo avanti… «E inoltre crediamo
    di potervi spedire la merce tra il 18 e il 20 aprile p.p.v.v.» Ed è sul p.p.v.v.
    che cade l'asino, che si sono fregati con le loro mani! sa che cosa vuol dire
    p.p.v.v.? Proiettili e V2. E io censuro. Sono un censore autorizzato."
    (Totò, da "I due marescialli")

     
    Forse qualcuno questa storiella se la ricorderà.
    Compare orso e Comare volpe hanno catturato Fratel coniglietto e stanno studiando come farlo fuori. Impiccarlo? Arrostirlo? Bollirlo? Mah.
    Siccome si trovano dinnanzi ad un vasto ed irto campo di pruni, Fratel coniglietto si dimostra terrorizzato, ed esclama: “fate di me ciò che volete, impiccatemi, arrostitemi, ma vi prego, non uccidetemi per dissanguamento gettandomi in quel mostruoso campo di pruni pieno di spine aguzze come coltelli. Vi supplico, non fatelo. Muoio di paura solo all’idea.” Comare volpe scambia un’occhiata maliziosa con il suo Compare orso, indi afferra Fratel coniglietto e lo fa volare nel campo di pruni. A quel punto Fratel coniglietto, dopo aver fatto un po’ di teatro fingendosi agonizzante, si rialza d’improvviso e mentre se la batte tutto trullo, spiega ai suoi aguzzini: “Ora che ci penso, io ci son nato in un campo di pruni, e non mi fanno un baffo. Beh, me n’ero scordato”.
    E quando la volpe prova a protestare, Fratel coniglietto gli rammenta: “Io te l’avevo detto di farmi arrosto, sei tu che hai voluto gettarmi nel campo di pruni. Io t’avevo supplicato di non farlo. Prenditela con te stessa. Addio.
     
    Ed ecco come la storia di Massimo Ciancimino pare offrire non poche similitudini con quella di Fratel Coniglietto nel “campo di pruni”.
     
    Occorre seguire con attenzione che cosa è accaduto nel corso dell’interrogatorio del 30 giugno 2009, alla procura di Palermo, quando i pubblici ministeri mostrano al testimone il pizzino n.1, quello ritrovato nello scatolone della Chateau d’Ax:
     
    DI MATTEO: Allora signor CIANCIMINO, noi abbiamo da mostrarle un documento
    (…) … è stato rinvenuto l’originale, quello che le mostro è una copia, le mostro e le
    esibisco, le esibiamo la copia e vorremmo sapere se lei intanto aveva contezza di
    questo documento, se sa chi lo ha manoscritto, perché è un documento manoscritto
    e più in generale quello che sa in merito al contenuto di questo scritto.
    CIANCIMINO: Sì questo… questa cosa l’avevo già vista, ovviamente credo che sia
    manoscritto da mio padre perché questo stava negli appunti di mio padre, sapevo
    che…
    INGROIA: E lei riconosce la grafia di suo padre?
    CIANCIMINO: Sì mi sembra la sua però poi sa… sì, sì, è quella di mio padre, cioè
    non è che…
    DI MATTEO: Intanto ci riferisca.
     
    E Massimo Ciancimino, a caldo, senza esitare, spiega sostanzialmente di cosa si tratta, in questo modo:
     
    CIANCIMINO:Sì, sì. E praticamente era la volontà espressa di mio padre di avere
    una diretta televisiva, tra l’altro, a proposito, domani [passano invece 7 mesi – nda]
    vi produco altri documenti che possono anche collegarsi a questo, dove mio padre
    più volte chiedeva una diretta per dire la sua verità e per dire la sua versione di tante
    situazioni facente capo soprattutto a quello che era l’origine delle stragi e l’origine
    di altre situazioni; aveva espresso la volontà di poter avere una diretta, insomma
    un’attenzione televisiva tale da poter dire tranquillamente come stavano certe
    cose, perché mio padre su varie, anche in varie missive che posso anche darvi copia,
    non so se le ho qua, aveva sempre lamentato questo, di non essere stato mai
    ascoltato in Commissione Antimafia e tutte le volte che voleva essere ascoltato, mio
    padre, anche per qualsiasi cosa aveva chiesto sempre la diretta con la Sala Stampa
    e questa non gli era stata mai concessa. Difatti trovava sempre strano ed anomalo
    il fatto che un soggetto come lui non è stato mai ascoltato da nessuna commissione
    parlamentare sul fenomeno della mafia, essendo stato l’unico politico di fatto
    condannato per mafia, riconosciuto, non è stato mai ascoltato, si lamentava, diceva
    sempre che non capiva perché non lo volevano fare parlare. Questo mio padre
    doveva consegnarlo ad un tramite che doveva farlo avere a BERLUSCONI per potere
    avere questa attenzione mediatica. Sapevo dell’esistenza di questo documento.
     
    In sintesi, Ciancimino dice che quello era un documento «collegato» (e per forza che era collegato se, come noi sospettiamo, ne era semplicemente un'infedele scopiazzatura) ad un altro documento (vale a dire la lettera n.2) dove don Vito «aveva espresso la volontà di poter avere una diretta, insomma un’attenzione televisiva tale da poter dire tranquillamente come stavano certe cose». E con “certe cose” Ciancimino si riferiva al boicottaggio che aveva ricevuto suo padre ogni volta (ed erano ben sette, a quanto pare, queste “volte”) che egli aveva richiesto di poter deporre in Commissione antimafia. E oggi noi sappiamo che, in tale contesto, egli aveva scritto di essere in grado di dimostrare “l’inettitudine” da parte di qualcuno, vale a dire l’inerzia che è stata opposta alle sue richieste di collaborare con la giustizia deponendo in commissione (ma probabilmente, anche in altre sedi).
     
    Noi quindi riteniamo, fatto incredibile, che qui Massimo Ciancimino, salvo che sulla grafia del pizzino che egli attribuisce falsamente a suo padre, abbia esordito dicendo verosimilmente, semplicemente e pianamente la verità, o comunque qualcosa di molto vicino al vero.
    E questo noi lo affermiamo sulla base di quanto si può leggere, in lingua italiana e non in codice o in sciarada, nella lettera n.2, perché è esattamente quanto ivi è stato scritto da don Vito.
    Ma dopo qualche minuto, in cui si è parlato sostanzialmente d’altro, il dr. Ingroia, come non avesse neppure udito la spiegazione data dal testimone, improvvisamente va alla carica:
     
    INGROIA: Torniamo a questa cosa [il pizzino n° 1 – nda], due cose volevo farle
    notare, esatto, in primo luogo…
    CIANCIMINO: Non l’ho letto ancora…
    INGROIA: … cioè ci sono dei riferimenti ad un evento, ad un triste evento che
    bisogna scongiurare…
    DI MATTEO: In due occasioni, in due passaggi si parla di questo evento…
    INGROIA: … è un triste evento che sembra, che sembra in qualche modo possa
    riguardare l’Onorevole BERLUSCONI e che l’autore della missiva si impegna per
    cercare di scongiurare e che… si impegna a cercare di scongiurare questo evento
    PURCHÉ l’Onorevole BERLUSCONI gli metta a disposizione una rete televisiva,
    direi che è così ovvio, diciamo, il contenuto è abbastanza chiaro.
     
    A noi invece pare che non sia chiaro proprio per niente.
    La frase era questa: “intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco)… perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento, onorevole Berlusconi, vorrà mettere a disposizione una delle sue reti televisive.
     
    Come diavolo ha potuto Ingroia, leggendo in lingua italiana, vedere in questa frase il cosiddetto “contributo”, condizionato alla concessione di una rete televisiva da parte di Berlusconi? E inoltre: dove sta scritto che il triste evento dovrebbe riguardare in qualche modo Berlusconi? Non è assolutamente così. E comunque tanto meno “così ovvio”.
    In lingua italiana, sgrammaticature a parte, c’è solo scritto che l’autore intende apportare il proprio contribuito affinché un certo evento sia scongiurato.
     
    Per quanto riguarda poi la convinzione dell'autore che Berlusconi vorrà mettere a disposizione una sua televisione, la prima cosa che viene in mente, a leggerela lingua italiana (pur stranamente sgrammaticata) è che tale prospettiva fosseriferita al mero intento di informare o divulgare, cioè quello di poter renderepubbliche le circostanze relative al triste evento. Anzi, viene naturale, nelleggere le parole "evento" e "reti televisive", pensare alla divulgazione televisivadi un evento, punto e basta.
     
    Il “purché”, vale a dire la connessione di natura estorsiva fra la "cacciata" dell'evento e la disponibilità di una TV, nel bigliettino non c'è. Non esiste.
    È invece, purtroppo, un'incredibile forzatura di Ingroia. Non di Ciancimino.
    Di Ingroia.
    E con tutto rispetto per il dr. Ingroia, direi che è appena normale che un uomo scaltro come Massimo Ciancimino abbia percepito in quell’affermazione, in quel “purché”, diciamo, una certa aspettativa da parte del magistrato (magari inconscia, certamente) di potersi sentir dire qualcosa che coinvolgesse Berlusconi, forzosamente o meno, in un accordo preteso dalla mafia. Ecco quindi Fratel coniglietto chiedere tempo per pensarci un po' su, per capire se e come assecondare questa nuova ed inattesa versione dei fatti, con tanto di canale TV chiesto "in baratto":
     
    CIANCIMINO: Sì lo so ma mi posso riservare però mezza giornata per rispondere?
    INGROIA: No…

    Ingroia non gli concede tempo. Anzi, gli mette anche un po’ di sale sulla coda
    e di pepe nel sedere:

    INGROIA: … lei non si può riservare, lei si può avvalere della facoltà di non
    rispondere, con tutto, diciamo, quello che… le…
    CIANCIMINO: Le conseguenze del caso.…
    INGROIA: … con le conseguenze del caso, certo, valutazioni che noi possiamo
    fare di un suo atteggiamento del genere ma è nel suo diritto avvalersi della
    facoltà di non rispondere, per carità.
     
    Il magistrato quindi, dopo aver diffidato, e quindi impaurito, il testimone sulle conseguenze della sua eventuale reticenza (l’avesse fatto anche in certe altre occasioni…), subito incalza:
     
    INGROIA: La domanda è: che lei sappia, suo padre
    CIANCIMINO: La so la domanda.
    INGROIA: E io gliela faccio esplicitamente: che lei sappia suo padre questa richiesta
    la faceva a nome proprio o per conto di, di altri?
    CIANCIMINO: Per nome proprio e per conto di altri…
    INGROIA: E questo…
    CIANCIMINO: … del LO VERDE.
    INGROIA: … per conto di PROVENZANO. E questo lei lo sa… Ha fatto un cenno col
    capo affermativo, ma per la registrazione bisogna dire di sì, anche perché le faccio
    notare un’altra cosa che a lei non sarà sfuggito perché è abbastanza intelligente per
    essersene reso conto e forse lo sapeva già, che benché la grafia sembra, io non faccio
    diciamo il perito grafico, ma insomma si nota…
    CIANCIMINO: Lo sa che non… comunque…
    INGROIA: … benché la grafia, vedremo se è di suo padre o non di suo padre, però è
    la grafia di una persona apparentemente diciamo che sa scrivere, il contenuto però,
    il testo, l’italiano…
    CIANCIMINO: Non è di mio padre.
     
    Attenzione bene ai passaggi che abbiamo appena letto.
    Da essi, nonché dalle circostanze oggettive, si possono tenere i seguenti punti fermi:
    1) Ingroia sa, cioè ha capito benissimo, che il pizzino n.1 non è stato scritto da don Vito. Sa che quella non è la sua grafia.
    2) Ingroia non sa, non lo sa ancora e non lo può neppure immaginare, dell’esistenza della “lettera n.2”, e vale a dire non sa dell’esistenza di una nota di don Vito scritta, sostanzialmente, in nome e per conto di Provenzano, essendo di fatto, come dice oggi Ciancimino, un “aggiustamento”, una rielaborazione del pizzino di Provenzano stilata in carcere da don Vito per conto del boss.
     
    Di conseguenza, allo stato delle conoscenze di Ingroia in quel preciso momento dell’interrogatorio, quello doveva essere semplicemente un pizzino scritto da mano sconosciuta, da parte di qualcuno che affermava di intendere operare per scongiurare un triste evento, evento per il quale l’autore era sicuro che Berlusconi avrebbe reso disponibile una sua rete televisiva, pizzino che Ciancimino Junior aveva attribuito erroneamente, o falsamente, a suo padre.
    Nonostante tutto questo egli, prima diffidandolo, indi sottoponendogli una domanda perentoria e pretendendo una risposta perentoria, pare suggestionare il testimone ipotizzando, in pochi secondi, che quel pizzino potesse riguardare “una richiesta”, atta a condizionare Berlusconi ("purchè"), promossa da don Vito “per conto di Provenzano.
     
    E dico “suggestionare”, perché di fatto, egli pone al testimone una domanda che contiene già la risposta, aspettandosi semplicemente una conferma. E la conferma naturalmente arriva, immediatamente, ed è una conferma che Ingroia si aspettava:
     
    INGROIA: “… per conto di PROVENZANO. E questo lei lo sa… Ha fatto un cenno col capo affermativo, ma per la registrazione bisogna dire di sì, ANCHE PERCHÉ le faccio notare un’altra cosa che a lei non sarà sfuggito perché è abbastanza intelligente per essersene reso conto e forse lo sapeva già, che benché la grafia sembra, io non faccio diciamo il perito grafico, ma insomma si nota…“

     
    … si nota che non è la grafia di don Vito. Benissimo. E quindi?
     
    Anche perché” che cosa? In base a quale logica la circostanza che quel pizzino NON risultava scritto da don Vito, sarebbe dimostrativa del fatto che si trattava di una richiesta di don Vito a Berlusconi fatta per conto di Provenzano?
    A Ingroia pare logico e naturale, a noi assolutamente no; anzi, intravediamo qualcosa di assurdo e grottesco, come in una pièce di Jonesco.
    E a questo punto, Massimo Ciancimino chiede pausa. Bevutina, 5 minuti per una pisciatina, 5 minuti di colloquio a tu per tu con il suo avvocato, e al suo ritorno al tavolo dell'interrogatorio, è pronto a dare conferma a quella versione dei fatti un tantino, diciamo, creativa, che riesce così gradita al dr. Ingroia.
     
    DI MATTEO: … Allora signor CIANCIMINO, intanto ci dica definitivamente e
    chiaramente, la grafia del manoscritto che le abbiamo mostrato è quella di
    suo padre?
    CIANCIMINO: No…
    DI MATTEO: No.
    CIANCIMINO: … escludo che sia quella di mio padre.
    DI MATTEO: Ci dica chiaramente anche quello che poc’anzi…
    CIANCIMINO: Non è neanche la mia, ve lo… prima che mi fate la domanda ve
    lo dico se volete…
    DI MATTEO: … ci dica chiaramente se lo sa, quello che già poc’anzi ha accennato
    nell’ultima parte dell’interrogatorio prima della pausa, questo documento
    è stato predisposto…
    CIANCIMINO: Io non so da chi è stato scritto, so che a mio padre è stato
    consegnato dal LO VERDE.
    DI MATTEO: È stato consegnato da suo padre, a suo padre da LO VERDE…
    CIANCIMINO: Esatto.
    DI MATTEO: … alias PROVENZANO?
    CIANCIMINO: Sì, alias Bernardo PROVENZANO e che lo stesso era indirizzato…
    INGROIA: Aspetti, aspetti un attimo… e che lo stesso era indirizzato…?
    CIANCIMINO: All’Onorevole, al dottore Marcello DELL’UTRI e so che
    sicuramente… la situazione che riguardava, qui mi riservo comunque di leggere
    anche le carte, riguardava… so che mio padre aveva chiesto un attimo, si era…
    faceva un po’ da moderatore non da passacarte, voleva un attimo, come al
    solito, cercare di sedare un po’ di animi e cercare di moderare la situazione.
    (…)
    INGROIA: Quindi lei ha detto poc’anzi che suo padre ha fatto da moderatore
    di questa iniziativa perché evidentemente era un’iniziativa dal contenuto
    minaccioso evidentemente.
    CIANCIMINO: Sì.
    INGROIA: Contenuto minaccioso che aveva destinatario ultimo, come si
    evince dalla parte del documento che noi abbiamo, l’Onorevole BERLUSCONI
    e aveva come tramite l’Onorevole DELL’UTRI e quindi…
    CIANCIMINO: Sì, per un cambio di atteggiamento che avevano avuto loro in
    merito a certe situazioni…
     
    Insomma, mi pare che alla fine non si possa negare che sino a qui, più che un rendiconto dei fatti scaturito dalla diretta conoscenza del testimone, a verbale è stata posta una mera serie di passive conferme (esatto…, sì…, sì…, sì…) del testimone ad una catena di passaggi, con i quali i magistrati hanno ipotizzato una ricostruzione piuttosto suggestiva dei fatti.
     
    Ma una volta assecondati i PM anche se un poco a denti stretti, sulla visione generale degli eventi, Ciancimino Junior ha buon gioco a vestire i panni del Fratel coniglietto terrorizzato dal campo di pruni:
    Cercavo di auto-proteggermi”, essendo “preoccupato perché, preoccupato perché
    giustamente preoccupato, giustamente preoccupato…
    Voglio che sia proprio detto che io ho… se dobbiamo parlare di questo argomento io
    ho tanta paura.”
    È un discorso… l’ho scritto, è un discorso che è cento volte più grande di me.”
    Ho paura” e "Ribadisco che ho un terrore folle e vorrei non affrontare più l'argomento…"
     
    E ancora oggi ci ricorda, nel suo libro (Don Vito): “Non avevo proprio voglia …
    di andarmi a cacciare nel tritacarne delle vicende di dell’Utri e Berlusconi[1].
     
    E naturalmente, più lui dice di aver paura ad affrontare argomenti più grandi di lui e quindi di non volerne parlare, più i magistrati pretendono che parli proprio di questi argomenti, e più afferma di aver tardato nel raccontare un fatto inverosimile a causa della fifa, più ai magistrati quel fatto pare verosimile, e sono pronti a perdonargli i cambi di versione, ed i precedenti strafalcioni.
    Ed è per questa ragione, evidentemente, che se oggi gli stessi pubblici ministeri, di fronte ad alcuni paurosi cedimenti del costrutto logico messo su dal testimone dichiarazione dopo dichiarazione, tentano di chiarire le incongruenze o le reticenze (poiché ad esempio, l’aver fatto attendere i magistrati, per 7 mesi, prima di produrre la lettera n.2, è di fatto una forma di reticenza) con lo stesso teste pretendendo da questi precisazioni che egli non può fornire, se non smentendo se stesso, o comunque non vuole fornire, essi si sentono rispondere, nell’aula di un tribunale: “ma vedete… siete voi che per la prima volta mi mostrate
    qualcosa con scritto il nome di Berlusconi… non avevo mai parlato io di questo, non ne volevo parlare… (…)… è stato non un piacevole interrogatorio… è stato abbastanza contradditorio… ribadisco anche la mia riserva che ho espresso anche negli ultimi interrogatori che abbiamo… nel momento in cui dovevo fare questo tipo di affermazioni pubbliche mi sarei riservato di valutarne l’opportunità. Vista la natura degli argomenti trattati.”.
     
    Come dire: in questo ginepraio, in questo campo di pruni, mi ci avete portato voi. Le mie contraddizioni sino ad oggi saranno state anche parecchie, ma a voi è sempre andata bene così. Ora è tardi per le pignolerie.
    E non gli si può dare certo tutti i torti.
    Lui una versione verosimile, probabilmente vera, l'aveva data, e subito.
    Ma qualcuno non ha voluto prenderla neppure in considerazione, ed ha messo mano al timone, virando di bordo verso Berlusconiland. E lui gli è andato appresso.
     
    Se ora qualcosa non funziona, non è mica un problema soltanto suo, no davvero, pare volerci dire il testimone.
    Lui poi, quella verità, l’aveva di nuovo ricordata l’8 febbraio 2010, al processo Mori:
     
    INGROIA: L’ultima frase: “sono convinto che questo evento on. Berlusconi
    vorrà mettere a disposizioni [sic] una delle sue reti televisive.”
    CIANCIMINO: Sì, ho fatto la domanda specifica a mio padre, in quanto
    pensavo di collegare la stessa a quella che era stata sempre avanzata da mio
    padre come richiesta primaria, in quello che doveva essere un’eventuale sua
    audizione all’i… innanzi alla commissione antimafia, in quanto lo stesso mio
    padre, nonostante essendo stato l’unico di fatto politico, almeno allora,
    condannato per mafia, e nonostante lo stesso mio padre, ogni commissione
    antimafia che veniva insediata aveva avanzato direttamente richiesta di essere
    ascoltato, io consideravo che la messa a disposizione della televisione, era
    da collegarsi a questo tipo di situazione
     
    Ma poi ritorna nei ranghi:
     
    … Ebbe mio padre invece a spiegarsi che, appunto, non era collegata al fatto
    che la televisione doveva essere messa a disposizione durante la sua audizione,
    ma era qualcosa di più ampio. Lui aveva usato questa frase, riferibile a quella
    che era stata appunto l’interv…
    INGROIA: Lui chi?
    CIANCIMINO: Il… il… mio padre, aveva usato, anche il Provenzano sotto
    consiglio di mio padre , ha usato quella che era la frase da lui detta anzitempo
    quando aveva comprato la sua rete TV, per riportarla ai nostri giorni.
    Ovviamente si riferiva non più solo a una televisione, ma si riferiva a tutto
    quello che in quel momento il Berlusconi, la sua forza politica, rappresentavano.
    Per cui non era solo limitato all’uso di una televisione. Mio padre riportava
    per far ricordare quelle che erano le sue parole dette all’intervista di… fatta
    a Repubblica. Oggi ovviamente, nel 94, diceva mio padre, nel 94, ovviamente,
    questo contributo doveva essere molto più ampio in quanto lo stesso non
    era più proprietario solo di una televisione privata, bensì di un gruppo editoriale
    ben più ampio, e di una posizione politica di fatto che rappresentava il partito
    di maggioranza. Per cui non era… era un messaggio cifrato, non era diretto
    che mio padre aveva bisogno di una diretta TV… o di chiunque…
     
    Ora, si rifletta bene su questa frase: “io consideravo che la messa a disposizione della televisione, era da collegarsi a questo tipo di situazione.” (e cioè quella di denunciare e dimostrare ai mass-mediache le sue richieste di deporre dinnanzi alla Commissione antimafiae quindi di collaborare erano rimaste per anni lettera morta – nda)
     
    Ma come? Ma non lesse lui stesso ad alta voce, in carcere, la lettera dove Provenzano chiedeva a Berlusconi di utilizzare le televisioni, asuo padre che poi la “rielaborò”?
     
    Sì che la lesse.
    Lo fece dopo averla ritirata da soggetti vicini agli ambienti del Lo Verde, così come l'altra, ed una delle due viaggiava insieme a 500 bigliettoni. Così ci ha raccontato.
     
    Ed in quelle due occasioni, tutte e due, il padre diede al figlio "dei fogli suoi scrittida riconsegnare al Lo verde"[2]. Le rielaborazioni.
    E dunque, quale attinenza possono avere Bernardo Provenzano e la sua estorsione televisiva a Berlusconi, con l’inettitudine delle persone preposte ad accogliere le istanze di Ciancimino, da quando lui aveva richiesto di essere ascoltato in Commissione antimafia?
     
    Come ha stigmatizzato Travaglio, oggi noi "sappiamo anche che cosa voleva la mafia da lui: una televisione". Ma Massimo Ciancimino questo doveva saperlogià allora, quando lesse il pizzino ad alta voce in galera a suo padre che prendevaappunti, e leggendolo "nella sua interezza", con le minacce di morte a PiersilvioBerlusconi, così come sapeva che la lettera che suo padre gli ritornò era solouna "rielaborazione" dove egli "aggiustava" e "perfezionava" i contenuti dellaprecedente, quella dove la mafia voleva una televisione.
     
    COME POTEVA dunque, Ciancimino Junior, aver considerato salvo diversa spiegazione che gli diede poi suo padre – che la richiesta di un canale televisivonella lettera “figlia”, soltanto rielaborata da don Vito, fosse da collegarsi “aquesto tipo di situazione”, vale a dire alle mancate audizioni di don Vito incommissione antimafia in veste di collaboratore, quand’era invece a perfettaconoscenza che la “madre” (nata prima della figlia) era stata scritta daProvenzano e che pertanto, come aveva potuto leggere egli stesso ad alta voce
    nel carcere di Rebibbia e come oggi rileva l'infallibile Travaglio, era lo stesso Provenzano, cioè la mafia, a volere una televisione, anzichè suo padre quale potenziale collaboratore di giustizia?
     
    Questo quesito deve esserselo posto anche il dr. Ingroia, quando domanda:
    Lui chi?
     
    Ed allo stesso modo, in altro momento dell’udienza:
     
    INGROIA: Aspetti un attimo.
    CIANCIMINO: Prego!
    INGROIA: Ma, andiamo per ordine. Chi è l’autore di questa lettera?
    CIANCIMINO: Prego?
    INGROIA: L’autore della lettera chi è?
    CIANCIMINO: L’autore della lettera, mi arriva da ambienti vicini al Lo Verde… ora io
    non so, realmente, chi l’ha scritta.
    INGROIA: No, siccome lei dice: “fu un’idea di mio padre”, volevo capire qual era la
    connessione tra l’autore della lettera e questa stessa considerazione che sta facendo
    lei…
    [1] Dal verbale d'interrogatorio di M.Ciancimino del 01/07/2009 della Procura di Palermo – si veda da pag. 121
     
    Come sarà già arrivato a percepire chi ha saputo seguire il mio sottile ragionamento, la lettera “madre” di Provenzano e le ragioni stesse della sua esistenza così come le ha esposte Massimo Ciancimino, cozzano frontalmente con la logica. E con la sua stessa logica, per giunta, quando considerava che la messa a disposizione della televisione, era da collegarsi a questo tipo di situazione (cioè al desiderio di don Vito di denunciare il rifiuto opposto alla sua volontà di parlare e collaborare).
    Più volte il testimone ha cercato di arrampicarsi sui vetri cercando di convincere noi, ma soprattutto i magistrati, che il pensiero espresso nella lettera n.2, era in realtà il pensiero di Bernardo Provenzano già espresso, pur a seguito dei suggerimenti dati in tempi pregressi dallo stesso don Vito in veste di consigliori, nella lettera n.1, soltanto rielaborato.
    Ma un castello di carte al confronto è cemento armato: è una storia che non regge. Ciò che si vede benissimo, è che il pensiero della lettera di don Vito appartiene solo a don Vito, e a nessun altro. Tanto meno al boss Bernardo Provenzano, con cui i rimpianti e la rabbia di don Vito per l’inettitudine di chi non ha voluto udirlo in veste di collaboratore, non c’entrano evidentemente nulla.
    Ma adesso, che si fa?
    È stato forse Massimo Ciancimino a far sì che Repubblica, il 3 luglio 2009, poche ore dopo le sue dichiarazioni, titolasse: “Cosa Nostra minacciò Berlusconi: Ci metta a disposizione una tv[3]?
    È stato forse lui a far sì che sempre Repubblica, nonostante il verbale della sua testimonianza fosse stato secretato, scrivesse: “Cosa nostra voleva a sua «disposizione» una delle reti televisive di Mediaset. La singolare richiesta emerge da una mezza lettera il cui mittente sarebbe Totò Riina, sequestrata nel 2005 nel garage di Massimo Ciancimino“?[1] (Già, una bella sciocchezza, quella di Riina “mittente”).
    Ed il quotidiano poi continua: “Da indiscrezioni si è comunque appreso che Ciancimino avrebbe riconosciuto la lettera che, attraverso Bernardo Provenzano, sarebbe stata inviata da Totò Riina [! – nda] a Vito Ciancimino. Non è noto se sia stata mai spedita o ricevuta da Silvio Berlusconi che, prima di entrare in politica, avrebbe ricevuto minacce di morte tanto da assumere come «stalliere», su segnalazione di Marcello Dell'Utri, il defunto boss Vittorio Mangano.”
    E figuriamoci se poteva mancare Mangano.
     
    E l’11 luglio 2010, a firma di Alessandra Ziniti, col già citato articolo “Dell'Utri doveva consegnare le lettere della mafia a Berlusconi”, il quotidiano torna alla carica:
     
     
    Dal gran calderone dell'inchiesta sul tesoro di don Vito Ciancimino, a distanza di quattro anni, vengono fuori ben tre lettere che, negli anni a cavallo delle stragi, fra il 91 e il 94, l'allora capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano avrebbe indirizzato a Silvio Berlusconi, alla vigilia e subito dopo la sua discesa in politica. Grandi mediatori della trattativa Vito Ciancimino e Marcello Dell'Utri. Questa almeno la verità di Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco, da qualche mese diventato collaboratore di giustizia […] «Una cosa cento volte più grande di me», ha fatto mettere a verbale ora Ciancimino jr, ai pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo ai quali ha ribadito che quel "pizzino"
    strappato ritrovato adesso era in realtà una lettera di due pagine.”
     
    E poi c'è nientedimeno che Marco Travaglio, caspita, che ha già preso atto che la mafia voleva una televisione da Berlusconi, e che quindi si domanda "come mai la Procura di Grasso, quando interrogò Ciancimino junior per giorni e giorni, non gli pose neppure una domanda su quella lettera autografa di Riina [sic, bella minchiata - nda] diretta a Berlusconi?[4]"
    Beh, insomma, quando certi soloni hanno già dato fiato a certe trombe, dopo chi glielo va a spiegare ai lettori, nel caso quella di Ciancimino Junior, quella “cosa cento volte più grande” di lui, fosse invece una patacca?
    Chi avrebbe il coraggio, se tutta questa faccenda delle lettere della mafia a Berlusconi fosse una sola stratosferica, di spiegarglielo a Salvatore Borsellino, ora che lui ha scritto sul suo sito web 19 luglio 1992: «Perchè non dovrei sedermi accanto a Massimo Ciancimino?… a me interessa quello che sta dicendo perchè può essere utile per l'accertamento della verità»… «Quando lo dicevo io che mio fratello venne ucciso per la trattativa tra lo Stato e Cosa nostra, mi prendevano tutti per pazzo, adesso finalmente c'è anche un'altra persona che lo dice e che potrebbe arrivare in
    questo in modo alla verità»[5]?
    E a Benny Calasanzio, che utilizzò Ciancimino come supporter della sua campagna elettorale? A Giorgio Bongiovanni, l’ufologo-mafiologo di Antimafia 2000 che ospita un alieno luminoso dentro di sé, e che scrisse: “Le sue [di Ciancimino – nda] dichiarazioni vengono sottovalutate, invece sono importantissime. I magistrati che lo stanno interrogando sono l’eredità di Falcone e Borsellino ma c’è una stampa che sta remando contro questa collaborazione, perché un potere non vuole che Ciancimino parli[6], tutti costoro insomma, ove la lettera a Dell’Utri di Provenzano fosse il parto della fantasia di un bufalaro, chi avrebbe il coraggio
    di metterli al corrente?
    Un bel dilemma.
    Ma il nostro testimone, pare tranquillo: Oh, ragazzi, nel ginepraio, nel campo di pruni, forse la verità scricchiola, ma guardate che mica l'ho voluto io, di entrarci in questa maniera…

     
    [1] Questo dice e scrive oggi. Invece il 9 luglio 2008, durante un interrogatorio, sempre in procura a Palermo, quando Ingroia, a proposito dello "scavalcamento" di don Vito nella trattativa, gli domandò: "Non fece mai ipotesi su chi potesse essere stato a scavalcarlo?", egli rispose con un netto: "Mi disse il nome di DELL'UTRI.". Ciancimino quindi non ha voglia di andarsi a cacciare nel tritacarne delle vicende di Dell'Utri, salvo tranquillamente, in altra occasione, additarlo niente niente come il sostituto di suo padre nella trattativa fra mafia e Stato, un "cavallo vincente", "che poteva essere l'unico che poteva gestire una situazione simile".
     [2] Dal verbale d'interrogatorio di M.Ciancimino del 01/07/2009 della Procura di Palermo
     [3] "Cosa Nostra minacciò Berlusconi: Ci metta a disposizione una tv" di F. Viviano – Repubblica – 3 luglio 2009
    [4] "Amnesy International" di Marco Travaglio – l'Antefatto – 3 luglio 2009
    [5] "Salvatore Borsellino: ''Ciancimino può aiutare per l'accertamento della verità''" ADNKRONOS – 20 maggio 2010
    [6] "I Servizi non sono affatto ”deviati”, servono logiche di potere occulto ed economico''" Antimafia2000 – 30 aprile 2010

     
    • anonimo 22:32 on 24 April 2011 Permalink | Rispondi

      Sempre bravissimo Enrico !
      Segnalo di nuovo ad alcuni amici questo tuo interessantissimo scritto
      Maria

    • anonimo 09:53 on 26 April 2011 Permalink | Rispondi

      Le segnalo un altro articolo di Bordin:

      http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/387687/

      anche se immagino lo sappia già.
      Buona giornata e buona Pasqua in ritardo

      Luigi

    • anonimo 19:00 on 13 October 2011 Permalink | Rispondi

      Ciao

      Scrivo per lamentare l'impossibilità di acquistare il libro "Prego, dottore!"; volendolo aggiungere al carrello mi vengono negate entrambe le combinazioni di acquisto; sono andato direttamente sul sito, effettuando la ricerca per titolo e autore, ma non risulta nulla.

      Come si può rimediare? Grazie
      Riccardo

    • enrix007 11:00 on 22 October 2011 Permalink | Rispondi

      Caro Riccardo, il libro è esaurito ma ne ho ancora qualche copia che volevo conservare. Se mi dai un indirizzo e-mail, ti contatterò.

    • anonimo 00:09 on 24 October 2011 Permalink | Rispondi

      Non sono iscritto e quindi dovrei darti la mail qui pubblicamente.
      Se per te non è un problema ti prego di scrivermi qui
      http://www.hw2sw.com/contact-us/.

      Grazie
      Riccardo

      P.S.: a me va bene anche il pdf :)

  • Avatar di enrix

    enrix 15:00 on 23 April 2011 Permalink | Rispondi
    Tags: , frqancesco messineo, , , , nino di matteo,   

    ECCO I DUE PESI E LE DUE MISURE DELLA PROCURA DI PALERMO 

    UNO PER DE GENNARO, ED UNO PER BERLUSCONI: ECCO I DUE PESI (E LE DUE MISURE) DELLA PROCURA DI PALERMO
     
    cianciallegro

    Mentre scriviamo, Massimo Ciancimino è in galera.
     
    Ce lo hanno mandato i PM di Palermo. 
     
    Per quale ragione?
     
    Piuttosto semplice.
     
    Lo scorso mese di luglio, messo sotto pressione dalla procure per la questione del  fantasma, pardon, del Sig. Franco/Carlo, (Procure scottate dalla vicenda carnascialesca del dirigente della BMW fotografato ai Parioli, che minacciava querele per essere stato indicato come il presunto fantasma) Massimo Ciancimino prese il coraggio a 4 zampe, e consegnò questa cosa ai pubblici ministeri:

    Contemporaneamente, il 18 luglio, l’editore Aliberti annunciava sul suo sito e sul quotidiano “Il Fatto”  la pubblicazione del clamoroso documento sul libro fresco di stampa “I misteri dell’agenda rossa” (di Viviano e Ziniti), con queste parole:
    «In questo manoscritto inedito di Vito Ciancimino viene rivelata per la prima volta l’identità del signor Franco (o ‘Carlo‘, ndr), alias Keller Gross. Il nome di quest’uomo, probabilmente appartenente ai servizi segreti, appare in un lista insieme a personaggi dell’ex Alto Commissariato dell’epoca per la lotta alla mafia».(Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2010).
    Fonte: «I MISTERI DELL’AGENDA ROSSA» (Aliberti editore)
    di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti.
     
    Secondo la testimonianza di Ciancimino junior, quel documento risaliva  ai primi anni ’90:  in esso comparivano 12 nomi di investigatori e politici, come l’ex ministro Franco Restivo, l’ex questore Arnaldo La Barbera, il funzionario del Sisde Bruno Contrada, il generale dell’Arma Delfino e il funzionario dell’Aisi Lorenzo Narracci. Nella lista c’era anche un tale Gross e, accanto, le iniziali “F/C”, che, a dire del figlio dell’ex sindaco, avrebbero indicato i due nomi con cui lo 007 era noto: Franco e Carlo. Una freccia collegava poi Gross a un altro cognome: “De Gennaro”.

    “Quando gli chiesero spiegazioni sul perché, tra i tanti nomi citati in un pizzino del padre, ci fosse anche quello di Gianni De Gennaro, Massimo Ciancimino disse di non averne parlato subito per paura di venire considerato un mitomane. (…)  E’ vero come è vero, però, che ai pubblici ministeri che indagano sulla presunta trattativa fra la Mafia e lo Stato, Ciancimino jr disse di avere visto il padre scrivere di suo pugno quel pizzino. Ed invece la polizia scientifica, a cui si sono rivolti il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Antonino Di Matteo e Paolo Guido, ha accertato che il nome di De Gennaro è stato preso da un altro documento e piazzato, ad arte, sul pizzino. Non uno qualunque, ma scelto da don Vito Ciancimino per denunciare l’esistenza del “Quarto livello”, un’accozzaglia di infedeli servitori dello Stato, così li bollava l’ex sindaco, responsabili di molti dei mali della storia d’Italia.  (da “Livesicilia”

    Ed oggi RIFERISCE  Il Procuratore di Palermo, Francesco  Messineo “La scientifica ha stabilito con certezza assoluta – spiega Messineo – che il nome di De Gennaro é stato estrapolato da un altro documento presentato da Massimo Ciancimino e posto in quel foglio. In questo momento non ci risulta che ci siano altri documenti ‘falsificati’ ma non lo possiamo escludere, visto che la scientifica analizza i fogli che Ciancimino ci ha dato in vari periodi”.
     
    Fra poco lo vedremo, se è vero che non risulta.
     
    Ad ogni modo le descrizioni date dai giornali, per la maggior parte, restano fumose.
     
    Ecco in realtà ciò che è accaduto:

    L’elenco di nomi illustri, lo ha scritto Massimo Ciancimino di suo pugno. Ce lo ha rilevato per primo Marco Travaglio, con nonchalance, in un suo passaparola dello scorso dicembre, di cui io parlai nel mio articolo “la patacca rossa” (vedi QUI ).  Consapevole che uno scritto non riconducibile al padre, sarebbe stato di scarso valore, ha tirato una riga, avrebbe appiccicato col Photoshop una selezione “copia-incolla” del nome “De Gennaro” scritto da suo padre in un altro documento che non c’entrava nulla, avrebbe stampato, e quindi consegnato il tutto ai magistrati.
     
    Il ragionamento che sta alla base di questo falso, è piuttosto ovvio: se don Vito ha tirato una riga di suo pugno ed accostato un nome a quella lista, vuol dire che quella lista quanto meno non era stata scritta al bar durante l’aperitivo, senza che don Vito ne sapesse nulla,  da qualche furbacchione, ma che invece, in qualche modo, era stata “avvallata” dall’ex sindaco di Palermo.
     
    Un deja-vu, nel malloppo di documenti Cianciminiani. E vediamo un po’ perché.
     
    Il “papello”, scritto da mano sconosciuta, non varrebbe nulla, se non ci fosse appiccicato il post-it scritto da don Vito, con la dicitura “consegnato SPONTANEAMENTE al colonnello Mori” (post-it che invece è pesantemente indiziato di appartenere a tutt’altro documento, come vi spiegherò più tardi in un articolo dedicato all’argomento).
     
    La “lettera di don Vito a Berlusconi per chiedere le televisioni”, non potrebbe avere il significato che gli assegna il testimone, se non ci fosse un bigliettino che ne riporta uno stralcio con calligrafia diversa (e con sintassi un po’ più sgrammaticata), casualmente sequestrato dalla procura in uno scatolone depositato nei magazzini di Massimo Ciancimino, e che lo stesso testimone ha avuto buon gioco nel descrivere come lo stralcio di una bozza di lettera scritta “in ambienti vicini a Bernardo Provenzano”, sulla base del quale don Vito avrebbe realizzato la sua “rielaborazione” da spedire al cavaliere.
     
    La fotocopia della lettera dattiloscritta da don Vito e (mai) inviata al governatore della Banca d’Italia Fazio, dove si legge che Paolo Borsellino si sarebbe opposto alla cd. “trattativa”, sarebbe un documento ben povero di importanza se sotto al testo non ci fosse (sempre fotocopiata) la firma autografa di don Vito e la stessa lettera non fosse stata consegnata, anziché da Massimo, questa volta, dalla sig.ra Epifanìa, vedova Ciancimino, che dice di averla trovata in una carpetta.
     
    E il documento “X”, di cui parleremo fra poco, varrebbe ben poco se non spuntasse nello stesso, il nome del Presidente del Consiglio manoscritto da don Vito, sempre grazie al solito metodo.
     
    Insomma, ci siamo capiti. 
     
    Qui, a dare tono al bigliettino, c’era quella scrittina “De Gennaro”, che qualche mese fa Massimo affermava “di avere visto il padre scrivere di suo pugno”, mentre oggi, dalla galera, ci fa sapere attraverso gli stessi PM di non essere a conoscenza di chi sia stata ad appiccicarla sul suo manoscritto, per poi realizzare la fotocopia che lui ha consegnato in procura.
     
    “Ciancimino jr, in lacrime, nega di avere falsificato il documento. La sovrapposizione del nome dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, non è opera sua. Si è limitato a consegnare il documento così come lo ha ritrovato fra le tante, troppe carte dello sterminato archivio del padre.”
    (da Livesicilia ) 
     
    Forse sarà opera del sig. Franco, a sua insaputa, mentre lui in cucina gli preparava il caffè.
     
    Ma veniamo al sodo.
     
    Abbiamo visto che il dott. Messineo della procura di Palermo, ha dichiarato: “In questo momento non ci risulta che ci siano altri documenti ‘falsificati’
     
    Ma sarà proprio vero?

    Perchè a me invece risulta che ce ne sia uno agli atti bello grosso, anzi, due. Esattamente identici a quello attualmente contestato.
     
    Soltanto che in quei casi, al posto di “De Gennaro”, c’è “Berlusconi”, e ciò evidentemente causa una certa, pur involontaria, distrazione nei nostri inquirenti.
     
    Per capirlo, bisogna esaminare due documenti.  Lo faremo attraverso le classificazioni date agli stessi dai periti della Polizia Scientifica che li hanno analizzati.
     
    Uno è questo:

    fotomontaggio ciancimino 
    E l’altro è questo:

    DOC 3 compPA
     
    Sono due fotocopie.
     
    La prima, è simile in tutto e per tutto alla fotocopia che è costata la gattabuia al nostro testimone.
     
    C’è un elenchino di scritte inquietanti (persino “Rasini Bank” e “Gladio”) prodotte dalla mano di Massimo Ciancimino, (come l’elenchino di nomi, con tanto di sig. Franco, del documento galeotto) con a fianco alcune altre parole scritte, questa volta, per mano di don Vito, fra cui campeggia in prima fila il nome “Berlusconi” accanto a “Ciancimino”. (come già per il nome “De Gennaro” sul documento galeotto).
     
    Ma, come già per “De Gennaro”,  non sono scritte originali, ma bensì frutto di copia-incolla di sezioni di testo di un altro originale, scritto da Vito Ciancimino, e lì riportate grazie alle forbici o a qualche diavoleria tipo “Photoshop”.
     
    Infatti ci sono persino due di queste frasi scritte, e vale a dire “Berlusconi-Ciancimino”, e “Milano truffa e bancarotta” che compaiono nell’altro collage che ho richiamato, come si vede da questo confronto:
     
    fotomontaggio ciancimino2
    DOCUMENTO “X”

    DOC 3 compPA2
    DOCUMENTO “Y”
     
    Il  documento “Y”, non è un documento qualsiasi. Vediamo come ce lo descrisse, all’epoca, Repubblica, sulla sua PAGINA REGIONALE  del 13 febbraio 2010
     
    Ciancimino, rivelazioni su Moro
    nuovo pizzino con nome Berlusconi
     
    Palermo- Nuove rivelazioni sul rapimento di Aldo Moro e nuovi verbali sugli investimenti mafiosi in Milano 2 con la mediazione eccellente di Roberto Calvi. Il tutto corredato da nuovi verbali di interrogatorio e da due nuovi pizzini in uno dei quali, oltre a quello di Marcello Dell’Utri, compare anche il nome di Berlusconi. "Berlusconi-Ciancimino – Marcello Dell’Utri Milano truffa e bancarotta.  Ciancimino-Alamia – Dell’Utri Alberto".
     Eccolo uno dei nuovi "pizzini" consegnati da Massimo Ciancimino ai pm della Dda di Palermo Antonio Ingroia e Nino Di Matteo e depositati oggi al processo d’appello contro Marcello Dell’Utri…”
     

    Ora, è assolutamente acclarato che in questo inquietante pizzino , il documento “Y”, così come nell’altro altrettanto inquietante, il documento “X”,  il nome “Berlusconi” compare grazie ad un lavoro di collage, di copia-incolla fatto col riporto.
     
    Esattamente come il nome “De Gennaro” che è costato tanto caro alla nostra icòna dell’antimafia.
     
    Invece, come è chiaro, fotomontare il nome “Berlusconi”, non costa nulla, è assolutamente gratis.
     
    Eppure che sia un’estrapolazione in stile Photoshop, non lo dico soltanto io, ma lo hanno detto proprio i periti nella loro relazione, che è a mani dei pubblici ministeri ormai da mesi.
     
    Ecco qua:

    COMPARAZIONE

    E allora: che significa la frase:le coincidenze strutturali/proporzionali dei predetti tracciati grafici, entrambi esaminati in fotocopia, consentono di esprimere un giudizio di riconducibilità degli stessi da un unico originale” ?
     
    Molto semplice. Significa che c’era un originale, dal contesto ovviamente diverso,  e che qualcuno ha trasferito da quello le scritte“Berlusconi-Ciancimino”, e “Milano truffa e bancarotta”, col copia-incolla,  su quei due nuovi documenti ricomposti, fotocopiati, e consegnati da Massimo Ciancimino nei palazzi di Giustizia.
     
    Esattamente come è accaduto con il documento dove era presente la parola “De Gennaro” e con la sua “ricomposizione” considerata una calunnia aggravata.
     
    Invece, evidentemente, il nome “Berlusconi” fa si che non si possa parlare di calunnia, ma solo di lavoretto ben fatto.
     
    E c’è ancora un ultimo fatto,  che rende il quadro ancora più interessante.
     
    Nel documento “x” compare una scritta più completa, diciamo così, meno “ritagliata”, e vale a dire: “Berlusconi-Ciancimino (l’Espresso del 2-1-1989”, rispetto al documento “Y” dove la stessa scritta compare monca della parte (l’Espresso del 2-1-1989”.
     
    Ora, la cosa strana è che la fotocopia meno ritagliata risulta, nella perizia, prodotta con carta recente (2004-2009), mentre quella più ritagliata, è prodotta su carta molto vecchia (1987-1992).
     
    Il che significa che se il documento Y fosse stato realizzato estrapolando il contenuto dal documento X (che sia avvenuto il contrario, è impossibile, in quanto sul documento X il testo, come abbiamo visto,  è più esteso), allora saremmo di nuovo di fronte, come è già accaduto, ad una fotocopia realizzata da non più di 5-6 anni, ma su carta di vent’anni fa.
     
    E tutto questo, mentre al Procuratore di Palermo, non  risultano altri documenti “falsificati”.
     
    enrix

     
    • anonimo 22:47 on 23 April 2011 Permalink | Rispondi

      Se volessero l'avrebbero già smascherato da quel dì, ma il loro teorema rimane quello di "mascariare" Berlusconi e quindi non si fanno perizie sui "pizzini" malamente fotocopiati.
      Ciancimino ha commesso "un terribile errore": talmente si riteneva intoccabile che ha pensato bene di inserire l'amico di Violante e Caselli non ricordando che "chi tocca i fili muore"
      Maria

    • anonimo 12:35 on 15 May 2011 Permalink | Rispondi

      SEMPLICEMENTE   E S E M P L A R E !!

  • Avatar di enrix

    enrix 18:57 on 27 March 2010 Permalink | Rispondi
    Tags: , , , , , , , nino di matteo, ,   

    Perché considero inattendibile Massimo Ciancimino 

    Perchè considero inattendibile Massimo Ciancimino

    di Sebastiano Gulisano

    Mi sarebbe piaciuto assistere alle udienze del processo Mori-Obinu, all’inizio di febbraio, per osservare le facce dei protagonisti, scrutarne le espressioni mano a mano che procedeva il racconto del «teste assistito» Massimo Ciancimino sulla trattativa Stato-mafia dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992 e prima della strage di via d’Amelio. Avrei voluto scrutarne gli sguardi, le espressioni, le smorfie, i gesti e, attraverso essi, tentare di interpretare i pensieri di ciascuno di loro. A pensarci bene,  non mi sarebbe nemmeno bastato esserci: mi ci sarebbero volute un bel po’ di telecamere, almeno una per ogni protagonista e una sala di regia da dove osservare. In quell’aula di Tribunale, però, non c’ero, né ho visto filmati di quel dibattimento, di quelle udienze; ho solo ascoltato le registrazioni di Radio Radicale delle tre giornate in cui Ciancimino ha raccontato la sua verità. In precedenza, avevo letto tutti i verbali depositati dai pm agli atti del processo Mori-Obinu, scaricati dalla rete tramite il sito Censurati.it. Sulla vicenda, inoltre, conoscevo la progressione delle dichiarazioni di Giovanni Brusca dal 1996 in poi, le testimonianze degli ex ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno al processo di Firenze sulle stragi del 1993, la versione ufficiale di don Vito Ciancimino che sostanzialmente coincide con quella dei carabinieri: la trattativa sarebbe iniziata dopo le stragi siciliane, alla fine di agosto. Senza contare le innumerevoli cronache giornalistiche che, negli anni, hanno trattato l’argomento. Insomma: pensavo di saperne qualcosa e mi ero anche formato qualche idea.
    Dopo le dichiarazioni di Ciancimino jr, specie dopo la sua testimonianza in Tribunale nei giorni 1, 2 e 8 febbraio 2010, non so più nulla. O quasi.

    Nelle ultime settimane ho riletto tutti i verbali del figlio di don Vito e ascoltato più volte attentamente le sue parole al processo Mori-Obinu: l’unica cosa che mi è chiara è che Massimo Ciancimino ha studiato male, talmente male da riuscire a contraddirsi persino sulle vicende di cui è stato protagonista diretto. Figurarsi su ciò che gli avrebbe raccontato il defunto don Vito.
    Complessivamente, il racconto del «testimone assistito» è verosimile. Verosimile non vuol dire vero, ma raccontato in maniera tale che possa sembrarlo. Specie se non si hanno elementi di paragone. Il fatto è che se si mettono a confronto le cose che Ciancimino racconta ai pm in due anni di collaborazione (già in parte contraddittorie, ma in qualche modo giustificabili) con quelle che racconta nell’aula del processo Mori-Obinu la sua attendibilità va a farsi friggere. Non perché dica cose false (non sono in condizione di saperlo), ma perché in più occasioni afferma cose radicalmente diverse rispetto a quelle dichiarate ai pm: nella migliore delle ipotesi, ha problemi di memoria. Problemi seri. So che un Tribunale, in relazione a determinati fatti palermitani degli anni Ottanta, lo ha ritenuto attendibile, ma so anche che quella patente di attendibilità non rende né vero né attendibile tutto ciò che dice Massimo Ciancimino.
    Faccio qualche esempio così risulta chiaro ciò che intendo.

    Dall’interrogatorio del 7 aprile 2008 davanti ai pm palermitani Nino Di Matteo (PM) e Antonio Ingroia (PM1):

    «CIANCIMINO: De Donno (…) L’ho incontrato subito dopo l’omicidio del dottor Giovanni FALCONE in una… sul volo Palermo – Roma. In quell’occasione siamo riusciti, parlando con la hostess, a farci assegnare un posto accanto… (…) …mi ricordo proprio il periodo, è stato una settimana dopo, 10 giorni dopo (la strage di Capaci, ndr). (…) l’incontro con DE DONNO è avvenuto circa 10 – 15 giorni dopo… (…)
    CIANCIMINO: Ci siamo messi accanto e lui mi ha detto: ma secondo lei… inizialmente mi chiese soltanto se…
    P.M.1: Volo Palermo – Roma, giusto?
    CIANCIMINO: Palermo – Roma… se mio padre avesse avuto mai intenzione di farsi una chiacchierata con lui. Il primo contatto tra me e DE DONNO dice: ma secondo me tuo papà mi ricever… sarebbe disposto a ricevere me e casomai qualche altro per farsi una chiacchierata? (…) non mi ricordo ovviamente se mi parlò di collega o superiore. Ho parlato con mio padre di questo, più di una volta… premesso, il dottor DE DONNOmi lasciò un recapito telefonico dove trovarlo ed era un numero di una utenza telefonica mobile.
    P.M.1: Quindi lei riferendo a suo padre…
    CIANCIMINO: Esatto, mio papà disse di chiamarlo, mi disse: vabbè chiamalo e chiedi al Capitano DE DONNO quale dovrebbe essere l’argomento della discussione. Chiamai il Capitano DE DONNO e mi ricordo che in quell’occasione lo incontrai a Palermo, ci incontrammo di fuori della Caserma quella diciamo che purtroppo ho conosciuto pure io, Caserma Carini, quella che c’è qua dietro al Politeama…»

    Al processo Mori-Obinu, l’1 febbraio 2010, l’incontro con De Donno non avviene più a Punta Raisi ma a Fiumicino, il volo è Roma-Palermo e il primo appuntamento con De Donno non è più a Palermo, vicino alla caserma Carini, ma a Roma, ai Parioli.

    Che la cosiddetta trattativa cominci con un incontro più o meno casuale in aeroporto, fine maggio-primi di giugno, è un fatto noto da 15 anni, raccontato dallo stesso De Donno, che lo ha sempre collocato sul Palermo-Roma, come il primo Ciancimino. Da dove salti fuori la seconda versione non è dato sapere: il pm Di Matteo non ha fatto nulla per indurlo a ricordare meglio; la difesa di Mori non glielo ha stranamente contestato.

    Durante l’interrogatorio del 20 novembre del 2009 (condotto da ben 6 pm di Palermo e Caltanissetta) a Ciancimino viene chiesto di spiegare il contenuto di un “pizzino” che lo stesso ha consegnato ai magistrati, una lettera dattiloscritta indirizzata da Provenzano a don Vito, ritirata personalmente da Massimo:

    «P.M.: Carissimo ingegnere, ho ricevuto la notizia che ha ritirato la ricetta dal caro dottore… ascolti bene, non…
    CIANCIMINO: Sì, sì.
    P.M.: credo che è il momento che tutti facciamo uno sforzo, come già ci eravamo parlati al nostro ultimo incontro, il nostro amico è molto pressato, speriamo che la risposta ci arrivi per tempo, se ci fosse il tempo per parlarne noi due insieme. Io so che è buona usanza in lei andare al Cimitero per il compleanno del padre suo, si ricorda, me ne parlò… me ne parlo lei, potremo vederrci con due erre… per rivolgere insieme una preghiera a Dio o come l’altra volta, per comodità sua, da nostro amico OMISSIS. Bisogna saperlo, perché a noi ci vuole tempo per organizzarci».

    Dunque: nel racconto di Massimo Ciancimino il «Carissimo ingegnere» è il padre, la «ricetta» è il papello, il «caro dottore» è Antonino Cinà (che avrebbe consegnato il papello a Massimo il 29 giugno 1992, giorno di S. Pietro – a Roma è festa e lui aveva programmato una gita a Panarea ma ha dovuto rinunciare); «la risposta» che aspettano «per tempo» sarebbe quella delle istituzioni alle richieste contenute nel papello; il «nostro amico» è Totò Riina, «molto pressato» da un soggetto esterno a Cosa Nostra («il grande architetto» lo chiama Ciancimino padre) che vuole continuare la strategia stragista; il «Cimitero» è quello dei Cappuccini, a Palermo; il «compleanno del padre suo» ricorreva il 12 luglio.
    Secondo il racconto che Ciancimino jr fa ai magistrati il 20 novembre – lo sintetizzo perché è lungo una decina di pagine –, il pizzino, in busta chiusa, gli sarebbe stato consegnato da persone vicine a Provenzano «alla fine di giugno del 1992» e da lui portato al padre, senza leggerlo; il contenuto gli sarebbe stato riferito successivamente dallo stesso don Vito. Massimo è certo del periodo perché ricorda che il «padre era venuto a Palermo per incontrare il Lo Verde», alias Provenzano, e che l’incontro «è avvenuto in una giornata di mercoledì (…) di fine giugno 1992».
    Al processo, il 2 febbraio, il ritiro della busta, spostato da «fine giugno» ai «primi di luglio» del ’92, avviene in seguito alla consegna a Provenzano, la mattina dello stesso giorno, di un’altra busta «proveniente da Roma» (da don Vito) di cui prima sostiene di non conoscere il contenuto ma, poco dopo, per spiegare in cosa consistesse lo «sforzo» da fare, cambia idea e dichiara che «mio padre mi dice che nella lettera che aveva mandato a Provenzano lamenta come queste situazioni, queste richieste del Riina erano inattuabili, quindi viene chiesto a mio padre di fare quell’ulteriore sforzo che viene identificato da mio padre, me lo dice lui, in quella specie di contropapello: cercare dei punti di convergenza per andare avanti nella trattativa, in quanto lo stesso mio padre aveva definito non attuabile il tutto».
    Nell’analisi del passaggio successivo la divaricazione con le dichiarazioni rese ai pm di Palermo e Caltanissetta si fa evidente, ché quando c’è da interpretare la speranza «che la risposta ci arrivi per tempo se ci fosse il tempo di parlarne noi due insieme», succede il patatrac:

    Pm Ingroia: «A che risposta si riferisce Provenzano?»
    Ciancimino: «Alla possibilità di avanzare il contropapello di mio padre come condizione su cui continuare questa trattativa».
    Ingroia: «Non ho capito. La risposta di chi a chi. Provenzano di quale risposta parla?»
    Ciancimino: «La risposta di mio padre. Mio padre doveva fornire un tipo di documentazione su cui aprire questa eventuale altra possibilità di trattare con questi soggetti e sollecita un incontro a tal proposito fra i due che poi di fatto avviene».
    Ingroia: «Cioè una risposta che doveva dare suo padre?»
    Ciancimino: «In merito a quella che era la sottoposizione di questo elenco di…»
    Siccome la cosa sembra volgere al peggio, il pm Ingroia, come si dice dalle mie parti,  c’a cala cca cucchiaredda, cioè lo imbocca:
    Ingroia: «Sebbene sia un italiano approssimativo, però la frase dice: “speriamo che la risposta CI arrivi per tempo”, cioè “ci” significa “a noi”, “noi” sono i due interlocutori del colloquio, cioè Provenzano e Ciancimino. Quindi, dalla lettura di questa frase, sembra che ci sia una terza persona, diversa da Provenzano e Ciancimino…»
    Ciancimino: «Sono i carabinieri, ovviamente».
    Ingroia: «Non lo so».
    Ciancimino: «Sono i carabinieri e il signor Franco che devono…»
    Ingroia: «Non lo so… Una persona diversa deve dare una risposta».
    Ciancimino: «…una risposta ad andare avanti in un minimo di trattativa».
    La strategia ha funzionato e, dunque, il pm Ingroia continua: «Questo bigliettino consegnato a suo padre è successivo alla consegna del cosiddetto papello?»
    Ciancimino: «Si. Il papello è stato ritirato, la ricetta…».
    Ingroia: «E quindi, la domanda è… Presidente, richiamo la sua attenzione per evitare che poi mi si dica che faccio domande suggestive, quindi valuterà lei se è tale. La domanda è: la risposta contenuta nel pizzino è la risposta che ci si aspettava dal papello che era stato inoltrato?»
    Ciancimino: «Sì, la risposta in merito se c’erano margini di discussioni in merito al papello, ché Provenzano non aveva accesso diretto coi carabinieri, ché mio padre…»
    Ingroia: «Benissimo. E allora: quando Provenzano dice a Ciancimino “la risposta ci arrivi per tempo”, “per tempo” rispetto a cosa o a quale eventuale evento si riferisce Provenzano in questo pizzino?»
    Ciancimino: «Eventuale…»
    Non lo lascia finire e lo incalza: Ingroia: «C’è un riferimento alla pressione cui era sottoposto Riina?»
    Ciancimino: «Sì, il riferimento è chiaro. Mi dice mio padre “Ci arrivi per tempo” perché Riina aveva indicato uno spazio temporale entro il quale si doveva rispondere o sì o no a quelle che erano le sue richieste avanzate in quel documento perché sennò sarebbe dovuto andare avanti in quello che era il suo piano iniziale, di proseguire con le stragi».
    Potrebbe fermarsi qui, Ingroia, ché la situazione l’ha recuperata brillantemente, ma non gli basta, vuole chiudere il cerchio e rendere plausibili le prime strampalate risposte di Ciancimino.
    Ingroia: «E questo perché – lo ha già detto nella prima parte dell’esame condotto dal collega – Provenzano era andato da Riina per cercare di convincerlo a frenare, ad abbassare le richieste, no?»
    Ciancimino: «Sì. Analizzare una controproposta che avrebbe avanzato mio padre, che di fatto non si distaccava molto da quelle che erano le sue 12 richieste ma le rendeva presentabili a quelli che dovevano essere i possibili interlocutori».

    Un capolavoro, quello di Ingroia: riesce a recuperare una situazione disperata inserendo nell’ultima domanda un elemento di cui non ho trovato traccia nella prima parte dell’esame condotto dal pm Di Matteo (spero che altri la trovino e mi smentiscano): se non sono diventato sordo selettivo, Ciancimino non aveva mai detto (nemmeno negli interrogatori depositati dai ai pubblici ministeri di Palermo e Caltanissetta) che dopo la consegna del papello «Provenzano era andato da Riina per cercare di convincerlo a frenare, ad abbassare le richieste». Ritengo che quello del pm sia un errore riconducibile all’estenuante lunghezza e alla complessità degli interrogatori. Solo in due occasioni, le risposte di Ciancimino alle domande dei pm si erano vagamente avvicinate a quella affermazione: nell’interrogatorio del 19 ottobre 2009, il figlio di don Vito aveva riferito che, dopo avere ricevuto il papello, il padre aveva insistito con Provenzano e con il signor Franco per cercare una mediazione e Provenzano gli aveva risposto che «se si fosse presentato qualcosa di attuabile lui si sarebbe adoperato» per convincere Riina ad accettare; mentre il successivo 20 novembre, commentando il pizzino della “ricetta”, al pm che gli chiedeva se sapesse se Provenzano avesse già parlato del papello con suo padre e con Riina, Ciancimino aveva risposto: «Con tutti e due, io credo che mio padre… cioè io credo… mio padre mi dice che è Provenzanoche deve convincere Riina a discutere e a capire… perché mio padre non parla con Riina».
    Nemmeno stavolta la difesa del generale Mori si avvede dell’errore. Anche per loro, vale la stessa attenuante di Ingroia. D’altronde, non se ne sono accorti nemmeno i giudici.
    È decisamente più facile starsene seduto davanti a un computer e scovare questi dettagli avendo quasi due mesi a disposizione, con verbali da leggere e rileggere fino allo sfinimento e file mp3 da ascoltare e riascoltare a piacimento.
    Al di là di chi se n’è accorto e chi no, a prescindere dal possibile errore commesso da Ingroia, risulta evidente come Ciancimino non ricordi assolutamente l’originaria interpretazione da lui data di quel pizzino. E siccome ciò che sa glielo ha detto suo padre, in assenza di don Vito e di qualsivoglia elemento di riscontro, non possiamo sapere ciò che il padre gli ha detto.
    Visto che ci siamo, voglio precisare che dell’inversione della rotta aerea e del cambio di città del primo incontro fra Massimo Ciancimino e De Donno mi sono accorto al primo ascolto, ché la mia memoria non è ancora da buttare. È plausibile che i giudici non abbiano rilevato la discrepanza, ché non sono tenuti a conoscere tutti i verbali di Ciancimino; è sorprendente che non se ne siano accorti Mori e i suoi legali; ritengo che il pm De Matteo, che conduceva l’esame, se ne sia accorto e abbia sorvolato.

    I due episodi narrati non intendono sindacare la buona fede di Massimo Ciancimino e la genuinità della sua collaborazione con la giustizia, ma – lo ribadisco – rilevano come la sua memoria sia un colabrodo e, dunque, la sua attendibilità prossima allo zero.

    C’è da precisare come in due anni di interrogatori – quantomeno in quelli pubblici – Ciancimino non avesse mai riferito ai magistrati che «Riina aveva indicato uno spazio temporale entro il quale si doveva rispondere o sì o no a quelle che erano le sue richieste». Ma, di fronte a tale novità, non gli viene chiesto a quanto ammontasse tale «spazio temporale», sebbene i tempi, le date in questa vicenda siano importanti tanto quanto i contenuti (a prescindere dalle numerose contraddizioni) della narrazione.  Un particolare, questo dello «spazio temporale» tutt’altro che secondario: l’assunto di tutta questa storia è che la trattativa avrebbe convinto Totò Riina che «lo stragismo paga» e, di conseguenza, avrebbe accelerato l’attuazione della strage di via D’Amelio. In tale contesto, dunque, sapere se lo «spazio temporale» si fosse o meno esaurito ci consentirebbe di sapere se l’assunto è reale oppure se la strage di via D’Amelio è avvenuta dopo la fine dello «spazio temporale» e, quindi, la trattativa non avrebbe accelerato un bel niente ma, al contrario, avrebbe attenuato le «pressioni» esterne procrastinando l’attuazione della strage. Di conseguenza, la trattativa non potrebbe rientrare manco di striscio fra i possibili moventi dell’eliminazione del procuratore Paolo Borsellino.

    Una ulteriore precisazione: il signor Franco, detto anche signor Carlo, secondo il racconto di Massimo Ciancimino sarebbe un personaggio delle istituzioni, legato ad ambienti dei servizi segreti, tuttora non identificato. Di lui sappiamo che è in relazione con don Vito fin dal tempo in cui il ministro dell’Interno era Restivo (1968-1972) e che nella trattativa è consigliere dell’ex sindaco fin dal primissimo momento. Anzi: don Vito accetta di incontrare i carabinieri solo dopo che Provenzano e il signor Franco gli hanno consigliato di farlo. È il signor Franco, secondo Ciancimino jr, a rivelare a don Vito che dietro i carabinieri c’erano «il ministro Rognoni e il ministro Mancino».

    Vediamole, dunque, queste date, così come emergono dalle dichiarazioni dibattimentali.

    Il 27-29 giugno del 1992 Massimo riceve la busta contenente il papello dal dottor Cinà, a Palermo, «e la porto subito a mio padre a Roma». Dopo la consegna, il padre lo esorta a telefonare a De Donno per fissare un appuntamento con lui e Mori e, dopo, di fare lo stesso col signor Franco. Inoltre, il padre «informa subito Provenzano» delle richieste «inaccettabili e impresentabili» fattegli recapitare da Riina «e viene invitato a cercare punti di mediazione», a elaborare una proposta «credibile e presentabile». Non è chiaro quando avvengano gli incontri coi carabinieri e col signor Franco, né cosa intenda Ciancimino quando dice che suo padre informa «subito» Provenzano. Non facciamo ipotesi e facciamo finta che lui, in precedenza, su questa punto non abbia detto nulla (ché in realtà ha cambiato versione svariate volte) e, dunque, nulla sappiamo.
    Tra la fine di giugno e i primi di luglio Massimo è di nuovo a Palermo per consegnare una busta con un messaggio del padre a Provenzano e, nel pomeriggio dello stesso giorno, ritira da emissari del boss latitante una busta contenente il pizzino in cui si parla della «ricetta». Di tale collocazione temporale Ciancimino, nell’interrogatorio del 20 novembre 2009, si dichiara certo perché ricorda che il «padre era venuto a Palermo per incontrare il Lo Verde», alias Provenzano, e che l’incontro «è avvenuto in una giornata di mercoledì di fine giugno 1992». Il 30 giugno era martedì, dunque il padre e Provenzano si sarebbero visti il 24 giugno (ultimo mercoledì del mese) o il primo luglio. Se l’incontro fosse avvenuto il primo luglio non avrebbe senso che contestualmente i due usassero Massimo come postino per scambiarsi pizzini in cui si parla di «ricetta» – ne avrebbero discusso di persona –, collochiamo perciò l’appuntamento alla data del 24 giugno. Ma non è importante, ché nel processo tale dettaglio non è entrato.
    L’altra data certa è quella del 12 luglio, compleanno del defunto padre di don Vito e occasione (vedi pizzino) per incontrare Provenzano e parlare di papelli e contropapelli. Sempre il 12 luglio, inoltre, don Vito incontra nella sua casa dell’Addaura il signor Franco e gli mostra il papello (o gli viene restituito, avendoglielo egli dato in precedenza). Alla fine dell’incontro, don Vito conserva il foglio nella tasca della giacca e commenta che Riina è «il solito testa di minchia» e che le sue richieste sono «inaccettabili e irricevibili». Massimo ha assistito alla scena e ha sentito con le proprie orecchie il padre pronunciare quelle parole, quindi non c’è da dubitare che ciò sia avvenuto.
    Non sappiamo quanto tempo abbia concesso Riina, ma sappiamo che due settimane dopo la consegna del papello Vito Ciancimino incontra, nel corso della stessa giornata, Provenzano e il signor Franco: col primo parla del contropapello; col secondo del papello e s’inalbera per il contenuto. Sappiamo anche che, stando all’interpretazione dibattimentale del testo del pizzino, ai «primi di luglio» Provenzano e don Vito erano in attesa della «risposta» dei carabinieri e del signor Franco. Non è chiaro come mai, se all’inizio del mese aspettavano la risposta dell’uomo dei Servizi, il 12 luglio li troviamo a Mondello ancora col papello in mano. Anche perché – altra cosa che sappiamo – Provenzano aveva cortesemente pregato don Vito di fare un piccolo sforzo e di elaborare un «contropapello» che «non si distaccava molto dalle richieste di Riina, ma le rendeva accettabili». Dunque, alla data del 12 luglio abbiamo don Vito che parla ancora di papello col signor Franco e di contropapello con Provenzano; non sappiamo se è arrivata la risposta dei carabinieri e dei loro politici di riferimento. Intanto Riina aspetta una qualche risposta, mentre «il grande architetto» continua a esercitare pressioni su di lui, «riempiendogli la testa di minchiate» per fargli continuare la strategia stragista.
    Per inciso: che il papello sia stato consegnato ai carabinieri lo sappiamo anche dal fatto che agli atti del processo, fra i documenti depositati, provenienti dall’archivio dell’ex sindaco e consegnati dal figlio ai magistrati di Palermo, c’è una fotocopia delle 12 richieste di Riina in cui c’è scritto – dalla mano di don Vito, ha giurato Massimo – che è stato «consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori del Ros». La scritta è stata vergata su un post-it e incollato al papello, ma siccome agli atti del dibattimento c’è una fotocopia bisogna specificarlo.

    Domande.
    Se Vito Ciancimino considerava le 12 richieste contenute nel papello «irricevibili e impresentabili» e si è dato così tanto da fare per convincere Provenzano e il signor Franco a dargli il tempo di elaborare un «contropapello», perché ha consegnato a Mori il foglio ricevuto da Riina tramite Cinà?
    Lo ha forse fatto all’insaputa di Provenzano e del signor Franco?
    Se a Mori è stato consegnato il papello con le proposte «irricevibili e impresentabili», a cosa serviva il «contropapello» di don Vito che «non si distaccava molto dalle richieste di Riina, ma le rendeva accettabili»?
    Non sarebbe stato più sensato attendere la definizione delle richieste da includere nel «contropapello» e consegnare quest’ultimo ai carabinieri?
    È mai possibile che né Ciancimino, né il signor Franco, né Provenzano abbiano pensato a tale eventualità?
    E se qualcuno di loro ci ha pensato, lo ha esternato agli altri?
    E se lo ha fatto, come mai la proposta è stata bocciata?

    In chiusura, diamo una sbirciata alle presunte proposte «accettabili» (anch’esse agli atti del processo): fra l’altro, don Vito aveva sostituito l’assurda pretesa di revocare il 41 bis (il carcere duro per i mafiosi) con la più sensata richiesta di abolire il 416 bis (il reato di associazione mafiosa); mentre al posto dell’improponibile soppressione della tassa sui carburanti, in modo che i siciliani potessero spendere quanto quelli della Val d’Aosta, era stato introdotta la più ragionevole pretesa di abolizione del monopolio di Stato sui tabacchi, per le felicità di tutte le organizzazioni criminali – Cosa Nostra inclusa – che da circa mezzo secolo prosperavano sul traffico illegale di tabacchi possibile grazie all’esistenza del monopolio.
    Ignoro cosa pensassero il signor Franco e il ragionier Lo Verde (alias Provenzano) di cotanto geniale «contropapello», ma non dispero che prima o poi possa saltare fuori qualche pizzino a colmare la mia lacuna.

    estratto dal blog "Il vizio della memoria":
    http://ilviziodellamemoria.splinder.com/post/22453125/Perch%C3%A9+considero+inattendibil

     
    • anonimo 13:57 on 6 April 2010 Permalink | Rispondi

      Perche' assomiglia a Bugs Bunny?Maury

    • Sympatros 22:55 on 10 April 2010 Permalink | Rispondi

      E' da tempo che non seguo il Segugio, come vanno le cose… i vari scoop hanno inciso nelle tormentate vicende…. intervista Borsellino…. processo dell'Utri… processo Mori? Hanno avuto il meritato successo? Sono state prese in considerazione dalla difesa di Mori e Dell'Utri? Certo se non l'hanno fatto sono dei veri tonti… ma come si può..come si può…. una difesa geniale servita su un piatto d'argento? Insomma come stanno le cose, ragguagliatemi!Una lettura di Segugio al mese e non al giorno leva il medico di torno!Ciao, Enrix, hai finito di scoopare?

    • anonimo 15:10 on 11 April 2010 Permalink | Rispondi

      Oltre a un'intervista di Facci a Ciuro oggi in prima pagina su Libero, segnalo un servizio del Giornale nelle pagine interne sull'articolo di Paradisi di Liberoreporter dello scorso bimestre.Cordialita'Luigi

    • anonimo 09:43 on 12 April 2010 Permalink | Rispondi

    • anonimo 02:16 on 11 May 2010 Permalink | Rispondi

      Egr. Enrix,mi perdoni il mezzo OT, ma volevo segnalarti il passaparola di oggi, a mio modesto parere è imperdibile.Ormai ha troppo da fare (promozione=vendere) e prende per oro colato le mirabolanti inchieste di Bolzoni, sì quello delle 3 cassaforti :D SalutiRenzo C

    • anonimo 15:43 on 20 May 2010 Permalink | Rispondi

      non postate più news??

    • anonimo 21:46 on 18 June 2010 Permalink | Rispondi

      complimenti!!!! non ti fermare. so che hai ragione perche'vivo il contesto in"prossimita'" . avrai successo perche' ti muovi con logica ed onesta'.ad maiora!!!   Drago

    • enrix007 00:28 on 19 June 2010 Permalink | Rispondi

      Grazie, Drago.

  • Avatar di enrix

    enrix 16:14 on 2 March 2010 Permalink | Rispondi
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    NUOVO CINEMA CIANCIMINO 

    Nuovo cinema Ciancimino

    Non solo la fantomatica trattativa tra Stato e mafia, il figlio di don Vito dice la sua anche su Ustica, Gladio e caso Moro. Ecco il diario del nuovo vate d’Italia

    di Chiara Rizzo

    Il titolo è prosopopeico: Nel nome del padre. Il sottotitolo non da meno: “Sono ventitrè gli interrogatori di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. E una valanga i pizzini che riscrivono la storia dei misteri d’Italia, da Gladio alle stragi del ’92, sino ai politici di oggi. Citati con nome e cognome. Eccoli”. Massimo Ciancimino detto Junior, il figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito, il testimone chiave al processo di Palermo contro il generale Mario Mori per la mancata cattura del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, oggi è diventato il vate dei misteri d’Italia. Non bastavano la riduzione della condanna per riciclaggio e la ribalta televisiva.
    Nel nome del padre è già alla seconda edizione. La prima, tremila copie, è andata esaurita in una sola settimana. Il libro è pubblicato dall’editrice siciliana Novantacento, che edita anche un mensile di cronaca che ha tra i suoi collaboratori fissi il sostituto procuratore Antonio Ingroia, titolare dell’accusa al processo Mori. Il coordinatore editoriale della rivista Claudio Reale spiega a Tempi che la pubblicazione dei verbali di Ciancimino è stata possibile perché gli atti non sono stati segretati. Purtroppo per Junior, verrebbe da aggiungere. Più che una raccolta di verbali, è un divertissement da spiaggia, non fosse che le deposizioni di Junior infiammano da mesi la pletora di cronisti giustizieri e infangano il lavoro di due ufficiali che hanno combattuto la mafia rischiando la vita.
    Secondo Massimo Ciancimino, infatti, il padre don Vito fu contattato nel 1992 da Mori e dall’allora capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno per intavolare una trattativa con Totò Riina e indurlo alla resa. Ma papà Ciancimino sarebbe stato protagonista anche di una seconda trattativa, con i carabinieri da una parte e Provenzano dall’altra, finalizzata alla cattura di Riina, in cambio dell’immunità a Provenzano. Le parole di Massimo smentiscono lo stesso don Vito, che ha sempre raccontato di aver tentato una collaborazione con Mori e De Donno per arrivare alla cattura di Riina, sì, ma di non esservi riuscito. Non vi fu, secondo don Vito, alcuna trattativa: si era tentato di far arrendere Riina, ma le richieste presentate da questi non vennero mai prese in considerazione da Mori che voleva la resa immediata o la cattura; inoltre successivi tentativi di don Vito di collaborare alla cattura di Riina si bloccarono col suo arresto. Poi arriva Massimo e riscrive la storia con i fuochi d’artificio. Il 6 giugno 2008, Massimo rivela ai pubblici ministeri Ingroia, Di Matteo e Gozzo il vero motivo per cui sarebbe finita la latitanza record (43 anni) di Bernardo Provenzano. Racconta che il boss, ricercato dalle polizie di mezzo mondo, visitava regolarmente don Vito, mentre questi era agli arresti domiciliari nella sua casa romana nei pressi di piazza di Spagna a Roma. I pm palermitani per poco non cadono dalle sedie: «Ah, lei lo ha visto… lei disse a suo padre “ma come questo super latitante viene a casa di uno agli arresti domiciliari”?». Risponde Massimo: «Secondo mio padre doveva essere un accordo a monte che garantiva il tutto, perché mio padre mi disse: “Non ti scordare che nel momento in cui vorrà, si consegnerà lui”». Junior si sente incoraggiato e prosegue: «Mio padre mi disse poi una frase che era importante: “Perché un uomo quando non riesce ad andare al bagno… non ha più senso niente”. Era quello che capitava a mio padre, perché non era autonomo. Mio padre, come Provenzano, aveva avuto problemi di prostata e avevano parlato di queste cose, che la vita quando non hai questo tipo di autonomia…». Dunque Binnu, la primula rossa di Cosa Nostra, non finì in galera per la bravura delle forze dell’ordine. No, fu solo questione di pipì.
    La scena madre di Junior, invece, ha al centro il fantomatico papello. Ai pm Massimo lo indica come la prova regina della trattativa Stato-mafia, ma per mesi rinvia la consegna, sostenendo che si trova in un caveau all’estero. Stremati dal tira e molla durato più di un anno, il 23 gennaio 2009 i pm Di Matteo e Ingroia, alla presenza del procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, mettono Junior alle strette. Ingroia: «Noi riteniamo che lei oggi debba indicarci quanto meno il paese, la banca, dove si trova questa cassetta di sicurezza, noi attiveremo tutte le rogatorie…». Nell’austero ufficio della procura accade l’imprevedibile: “Ciancimino singhiozza” riporta il brogliaccio dell’interrogatorio. L’avvocato di Junior, stralunato, interviene: «Perché piangi?». Ingroia incalza: «Se c’è necessità di fare una selezione di documenti privati che non hanno rilievo investigativo, avrà la possibilità di non consegnare queste cose però noi la preghiamo, la invitiamo caldamente, oggi di concludere l’interrogatorio dandoci queste indicazioni…». L’avvocato di Ciancimino: «Scusa ma perché piangi?». E Junior, tra le lacrime: «No, non ve lo indico». Ingroia: «Non ce lo indica…». Junior riprende: «Vi avevo chiesto un minimo di segnali da dire: ne vale la pena…». Passerano altri nove mesi prima che in procura vedano il famoso papello. Veniamo infine alla benedetta trattativa, cuore pulsante delle dichiarazioni di Junior. Massimo ne parla fin dal 7 aprile 2008. Però le versioni che riporta, con il tempo, si arricchiscono di nuovi particolari. All’inizio si limita ad anticipare le date degli incontri tra il padre e i carabinieri al giugno del 1992. Assicura che don Vito si fida di loro. Sostiene che il padre tenta di collaborare con i carabinieri per fare catturare Riina e contatta Provenzano per scoprire dove si nasconda. «Sembra fantapolitica» dice Junior ai pm il 7 aprile 2008. Parole sante. Nelle puntate successive degli interrogatori la vicenda si complica.

    «Un nome l’aveva, mi creda»
    Nel racconto appare anche un misterioso agente dei servizi segreti, che per anni sarebbe stato in contatto con don Vito e che nella trattativa avrebbe detto al sindaco che dietro i carabinieri c’erano due politici, gli allora ministri Nicola Mancino e Virginio Rognoni: «Non lo so se si chiamava Carlo, Franco… un nome l’aveva, mi creda» dice Junior. Davanti al racconto i dubbi non mancano. Ad esempio: dal negoziato Provenzano avrebbe guadagnato l’incolumità, ma cosa ci guadagnava don Vito? Arrestato, rimasto in carcere fino al 1999 e ai domiciliari fino alla morte, Ciancimino senior ha sempre sostenuto la versione di Mori. «Era una versione di comodo» dice Junior, e cerca di tappare le falle della ricostruzione con suggestioni di peso: «Mio padre pensava di essere stato scavalcato nella trattativa. Da Dell’Utri». Insomma. Alla fine nella ricostruzione di Massimo ci sono almeno tre trattative. Una tra i carabinieri, don Vito e Riina. Un’altra tra i carabinieri, il signor Franco, Rognoni e Mancino, don Vito e Provenzano. Un’ultima tra Dell’Utri e Provenzano e non si sa più chi altro. Dopo tutto questo, la domanda sorge spontanea anche nei pm. Chiede Ingroia il 12 dicembre 2008: «Ma allora, se c’era bisogno delle garanzie del signor Franco, che bisogno c’era di fare la trattativa tramite Mori e De Donno, perché suo padre non la faceva direttamente col signor Franco?». Junior ci pensa su: «Perché il signor Franco non l’aveva mai proposto a mio padre… non si è mai fatto portatore dell’arresto di Provenzano e Riina… Lui per mio padre era un trait d’union…». Ma con chi e perché ancora non si è capito. Arrivederci alla prossima puntata di questa tragicommedia.

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     
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    enrix 23:00 on 13 January 2010 Permalink | Rispondi
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    LA VERA STORIA DEL GENERALE MORI 

    © 2009 – FOGLIO QUOTIDIANO

    La vera storia di un grande carabiniere sotto processo, Mario Mori

    di Claudio Cerasa

     

    Se Leonardo Sciascia avesse conosciuto il generale Mario Mori prima di scrivere “Il giorno della civetta” il suo capitan Bellodi non sarebbe stato un giovane poliziotto con gli occhi chiari, i capelli scuri, il viso tirato e l’accento emiliano, ma sarebbe stato piuttosto un piccolo brigadiere triestino con i capelli bianchi, i baffi corti, la voce bassa, gli occhi azzurri, un curriculum da sballo, il vaffanculo facile facile e sei numeri che hanno cambiato la sua vita: 2789/90. Quelle del generale Mori e del capitan Bellodi sono due storie che viaggiano su binari paralleli: un uomo sceso dal nord per andare in Sicilia disposto a rompersi la testa per combattere la mafia, e che dopo essere riuscito ad arrestare il più temuto dei capi-cosca improvvisamente si ritrova contro ora i politici, ora gli avvocati, ora i magistrati, ora i giudici, ora le procure e ora naturalmente i giornali. E i giornali ne riparleranno presto del generale, e c’è da scommettere che non ne parleranno bene. Il 16 giugno del 2008 la procura di Palermo ha aperto un’indagine contro Mori per “favoreggiamento aggravato” a Cosa Nostra, e gran parte delle prossime settimane il generale le dedicherà a quel processo. Sarà in aula alla fine di gennaio, quando i giudici dovranno valutare se rinviarlo a giudizio oppure no.

    Di che cosa è accusato il capitan Bellodi? La procura di Palermo ha indagato Mori come responsabile della mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, ma il processo per favoreggiamento nasconde una storia molto particolare. A Mori è successa la stessa cosa capitata all’eroe di Sciascia: si è ritrovato di fronte a qualcuno che vuole riscrivere la storia di un periodo cruciale per l’Italia e che vuole offrire a uno dei protagonisti di quei giorni la parte dell’antagonista brutto, sporco, cattivo e, perché no?, pure compromesso. Il processo a Mori è un modo come un altro per tentare di dimostrare che una parte della stagione delle stragi, nel 1992, in particolare quella che coinvolse il giudice Paolo Borsellino, fu causata dallo stesso generale che “voleva a tutti i costi trattare con la mafia”. Ma molti non conoscono un particolare. In quegli anni Mori iniziò a raccogliere i suoi giorni in 29 agende a righe con la copertina rigida: dagli anni 80 a oggi non c’è appuntamento che Mori non abbia segnato su questi fogli, e dalla lettura di quelle pagine, tenute segrete per molto tempo, emergono delle verità molto interessanti.

    Roma, due dicembre 2009. Mario Mori siede dietro la scrivania al terzo piano di un ufficio che si affaccia a strapiombo su Piazza Venezia: ha lo sguardo vispo, gli occhi un po’ scavati, i capelli tagliati corti, le mani distese poggiate sulle cosce e un libricino aperto a pagina 37 con una “x” segnata a matita accanto a un aforisma di uno degli scrittori più amati dal generale, Giacomo Leopardi. Il dettato piace molto a Mori: “La schiettezza allora può giovare, quando è usata ad arte, o quando, per la sua rarità, non l’è data fede”.
    Il generale accetta di riceverci nel suo piccolo studio privato e inizia a raccontare come è cambiata la sua vita. Sono tante le ragioni per cui la carriera di Mori risulta affascinante ma vi è un aspetto che rende la sua storia molto significativa. Ed è la prima cosa che ti colpisce quando ti ritrovi di fronte a lui: ma come è possibile che un super sbirro, un grande carabiniere che ha acciuffato i capi di Cosa Nostra, che ha messo in galera tipacci come Toto Riina e che ha contribuito a smantellare numerose cupole mafiose sia, e sia stato, processato con le stesse accuse degli stessi criminali che per anni ha perseguito e arrestato? Vuoi vedere che forse c’è qualcosa, qualcosa della sua vita, qualcosa dei suoi anni a Palermo, qualcosa della sua esperienza al Sisde, che sfugge ai grandi accusatori di Mario Mori? Mori si è chiesto più volte le ragioni per cui la magistratura siciliana gli si è accanita contro, il perché di quelle pesantissime inchieste costruite con le parole di pentiti non proprio affidabili, i motivi per cui, dovendo scegliere se credere alle sue parole o a quelle di un pentito, i pm tendano a dare retta al secondo anziché al primo. E quando glielo chiedi il generale Mori che fa? Alza un po’ lo sguardo, gioca con i polsini della camicia, si dà un colpetto all’indietro sulla poltrona, allarga le braccia e poi sussurra: “Non so. Davvero. Proprio non so”.

    A Roma il generale c’è tornato da qualche mese: alla fine del 2008 il sindaco Gianni Alemanno gli ha offerto la direzione delle Politiche della sicurezza della Capitale e Mori ha accettato di tornare in quella città dove ha studiato per cinque anni al liceo classico (era al Virgilio nella sezione C negli stessi anni in cui Adriano Sofri era nella sezione D), dove ha seguito le lezioni dell’accademia delle Armi, dove ha lavorato con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e da dove ha iniziato a costruire la sua carriera, diventando nel corso degli anni prima comandante del gruppo carabinieri di Palermo (dal 1986 al 1990), poi comandante dei Ros (dal ’96 al 2000) e infine numero uno del Sisde (fino al 2006). Sono proprio questi – gli anni del Sisde, gli anni dei servizi segreti, gli anni in cui condusse le indagini sulla morte di Massimo D’Antona, sull’omicidio di Marco Biagi, sulle conseguenze italiane dell’undici settembre – i tempi in cui Mori rimase affascinato da alcune sottili ma importanti differenze tra il combattere la mafia e combattere il terrorismo. Mori era sorpreso dalla capacità di fare gruppo dei brigatisti, e da quel loro cerchio chiuso, quasi impenetrabile. Nei brigatisti – racconta Mori – vi era un livello culturale superiore alla media della criminalità e il loro era un legame ideologico non un legame familistico, di cosca o di sangue.

    Era proprio per questo che Mori riteneva fosse più semplice combattere il terrorismo piuttosto che Cosa nostra. “La mafia è come un tumore che si autoriproduce: è un mondo che resiste da molto tempo non tanto per la sua forza ma perché è una forma di costume che è legata a certe forme di cultura. I poliziotti e i magistrati potevano e possono arrestare tutti i mafiosi del mondo ma l’unico modo per distruggere alle radici la mafia – come già scritto anche da Marcelle Padovani in Cose di Cosa Nostra – è il tempo, la trasformazione dei costumi, la rivoluzione della cultura”.
    “Le Brigate rosse e tutte le forme di terrorismo italiane sono state invece una cosa diversa: una malattia circoscritta difficile sì da individuare ma per cui una cura esisteva: bastava solo trovarla”. Quando nella primavera del 2001 Claudio Scajola, ministro dell’Interno per un anno, chiamò Mario Mori per comunicargli che Silvio Berlusconi lo aveva appena nominato a capo dei servizi segreti, il generale pensava fosse uno scherzo. E lo credeva per due ragioni.

    La prima è che il presidente del Consiglio che l’aveva appena scelto Mori non lo aveva mai visto prima, se non una sera alla fine di una cena a Monza. La seconda era invece una ragione caratteriale. Il generale sostiene che le tecniche strategiche di chi lavora nell’arma e di chi lavora nell’intelligence presentano pochi punti di contatto, e offrire dunque a uno sbirro la gestione dell’intelligence nazionale, in teoria, potrebbe nascondere alcune difficoltà non solo metodologiche. “Siete pazzi! – disse senza neanche scherzare troppo Mori a Scajola – io di intelligence non ne so nulla, al massimo, se volete, potrei guidare il Sismi”.
    Racconta chi con Mori al Sisde ha lavorato a lungo che “il modo più semplice per spiegare i due diversi approcci alla criminalità che hanno forze dell’ordine e intelligence è che il poliziotto spera di catturare Osama bin Laden mentre l’uomo di intelligence, semplicemente, spera di acquisirlo come fonte. Sono due piani paralleli che non si vanno mai a incontrare. Perché l’immagine del James Bond che si arrampica sulle gru per sconfiggere le forze del male non esiste. Semmai, il rischio maggiore per un uomo di intelligence che passa le giornate a colazione, a pranzo e a cena per coltivare le fonti è quello di prendersi una cirrosi epatica”.
    Mori ha sempre sostenuto che individuare un grosso criminale, pedinarlo, poterne seguire le tracce e circoscriverne il raggio d’azione nasconde un problema non da poco. Che si fa? Si arresta subito il bandito o lo si segue per un po’ usandolo come esca per intrappolare nella rete della giustizia tutto ciò che lo circonda? Mori non lo confesserà mai, ma tra la prima e la seconda opzione lui sotto sotto ha sempre preferito la seconda.

    Chi ha vissuto a lungo a fianco di Mario Mori racconta che quando il generale arrivò al Sisde fu rivoluzionata l’intera impostazione del lavoro. Prima di Mori, i servizi segreti tendevano a lavorare con quella che in gergo è definita “pesca a strascico”: una gigantesca rete che intrappola tutti i pesci, grandi e piccoli, che nuotano nel raggio d’azione dell’intelligence. Quando Mori arrivò al Sisde spiegò che la pesca doveva diventare subacquea. Perché la tecnica a strascico – era questa l’idea del generale – funziona quando un servizio segreto dispone di centinaia di migliaia di uomini, ma quando il numero delle truppe è parecchio inferiore la raccolta di informazioni deve essere più precisa, più mirata. E così, non appena arrivato, Mori scrisse un libriccino di cento pagine di procedura investigativa, lo fece pubblicare e lo inviò ai dirigenti dei servizi. A poco a poco, i risultati iniziarono ad arrivare.

    Negli anni passati al Sisde c’è un arresto particolare che il generale ricorda più degli altri. Il 13 luglio 1979 una scarica di pallettoni sparati da un’auto in corsa ferì a morte il comandante del Nucleo carabinieri del tribunale di Roma Antonio Varisco; e quel comandante Mori lo conosceva molto bene. Per anni e anni, i servizi segreti italiani hanno tentato di arrestare il killer, e il 15 gennaio del 2004 il Sisde diede istruzione a venti poliziotti egiziani di fermare due persone all’aeroporto del Cairo: i nomi erano quelli di Rita Algranati e Maurizio Falessi, ricercati, tra le altre cose, per l’omicidio di Varisco. Fu uno dei giorni più gratificanti della carriera del generale. Il perché lo spiega lui stesso: “Non dobbiamo essere sciocchi. Chi dice che la pretesa punitiva dello stato non esiste non capisce nulla. Quel giorno passò un messaggio molto importante. Fu un arresto chiave per disgregare la rete terroristica ma fu un anche un segnale chiaro: ci sono alcuni reati che più degli altri non possono essere impuniti. E uccidere un carabiniere è esattamente uno di quelli”.

    Gli anni che però formarono davvero il generale Mori furono altri. Furono quelli che trascorse in Sicilia: prima nel nucleo provinciale dei carabinieri e poi nei Ros. Non appena arrivato a Palermo, il generale comprese subito quanto fosse importante riuscire a creare una sorta di sintonia linguistica tra sbirri e mafiosi. Mori ci riuscì, ma solo dopo aver preso una piccola batosta. La prima lezione per Mori arrivò da un piccolo appartamento sulla costa occidente della Sicilia: ad Altavilla. Dopo aver ricevuto la notizia della morte di un carabiniere, i suoi uomini andarono sul posto, entrarono con i guanti di paraffina dentro una vecchia casa colonica, perquisirono le stanze, fecero perizie, raccolsero più notizie possibili e interrogarono molti testimoni: la maggior parte dei quali diceva di non aver visto nulla. Alla fine della giornata, Mori si ritrovò a parlare con un vecchio abitante del paese che al termine del colloquio – a lui che era un triestino con mamma casalinga emiliana, padre ufficiale dei carabinieri a La Spezia, bisnonni inglesi e, come ama ripetere il generale, una formazione culturale sfacciatamente mitteleuropea – gli disse: “Piemontese, chi minchia voi da noi?”. Quelle parole Mori se le ricorderà a lungo e il significato profondo dell’essersi sentito dare del piemontese lo comprese poco più avanti quando fu nominato comandante del primo comando territoriale di Palermo.

    Mori ricorda infatti che in quegli anni capitava spesso che la notte le pareti della caserma non trattenessero le parole degli sbirri che interrogavano i mafiosi, e ascoltando quei dialoghi, dagli accenti così marcatamente differenti, si rese improvvisamente conto che in quel nucleo operativo che lavorava nella Sicilia occidentale, beh, il più meridionale tra i suoi colleghi era un campano. Non parlare il linguaggio della Sicilia, e più in particolare non entrare a fondo nel lessico dei mafiosi, secondo il generale era il modo migliore per non capire come portare avanti un’indagine, e questo Mori se lo mise bene in testa: lavorò molto sulla sua pronuncia, iniziò a studiare il siciliano e alla fine ottenne buoni risultati, riuscendo a poco a poco a entrare sempre di più a contatto anche con la grammatica della mafia.
    “In quegli anni – racconta un uomo che ha lavorato a lungo a fianco di Mori nei Ros – il generale diceva che far proprio il linguaggio dei mafiosi significava non solo avere le carte in regola per lavorare con maggiore efficienza ma anche avere la possibilità concreta di salvare con un certo successo il culo.

    Le lezioni di Mori erano due. Lui, che aveva imparato a non fidarsi eccessivamente dei collaboratori di giustizia, diceva che per definizione il pentito mafioso va preso con le pinze perché un pentito resta sempre un mafioso, e alla fine – qualsiasi cosa ti dirà e qualsiasi verità racconterà – in un modo o in un altro tenterà sempre di compiere un atto utilitaristico per la sua famiglia. La seconda cosa che ripeteva era che il mafioso ti faceva ammazzare solo quando il, chiamiamolo così, rapporto tra sbirri e criminale diventava un rapporto personale: tra me e te. Per questo, Mori ci diceva che tu puoi umiliare un mafioso magari ammanettandolo davanti a una moglie ma non era il caso di farlo quando veniva acciuffato nel cuore della sua vera intimità: per esempio davanti alla sua amante”.
    Il più grande successo ottenuto da Mori arrivò il 15 gennaio 1993 di fronte al numero 54 di via Bernini, a Palermo, quando il generale fece arrestare lui, il capo dei capi: Totò Riina. Paradossalmente, però, accadde che l’arresto del mafioso più ricercato al mondo coincise con la proiezione delle prime ombre attorno alla carriera del generale. Tutto cominciò poco dopo l’arresto. Per quindici giorni, l’abitazione del boss corleonese non fu perquisita e in molti sostennero che la mancata perlustrazione di quelle stanze fosse un modo come un altro per dare la possibilità ai mafiosi di ripulire l’abitazione e cancellare le proprie tracce. Mori – ricordando che le indagini vengono sempre coordinate dalla procura e che qualsiasi imput, prima ancora che dai capi dell’arma, deve arrivare da lì – sostiene che fu la procura a non dare l’ordine di perquisire, ma nonostante ciò nel 1997 la procura di Palermo aprì un’inchiesta sulla vicenda a carico di ignoti, “per sottrazione di documenti e favoreggiamento”.

    L’indagine andò fino in fondo: nel 2002 i magistrati chiesero l’archiviazione ma il gip dispose nuove indagini. Due anni dopo stessa storia: i pm chiesero ancora una volta l’archiviazione ma questa volta lo fecero in un modo originale: poche paginette per chiedere di archiviare e cento pagine per picchiare duro sull’indagato. A firmare quella richiesta furono i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Michele Prestipino, che chiesero di chiudere il caso con queste concilianti parole: gli indagati, non perquisendo per diversi giorni il covo, “fornirono ai magistrati indicazioni non veritiere o comunque fuorvianti”. Inoltre, la sospensione dell’attività di osservazione del covo “determinerà un’obiettiva agevolazione di Cosa nostra”. Il nome di Mario Mori entra così nel registro degli indagati il 18 marzo 2004: pochi mesi più tardi – era il 18 febbraio 2005 – Mori e il suo braccio destro Sergio De Caprio (l’ufficiale dei carabinieri che ha lavorato a lungo a fianco del generale e che il 15 gennaio 1993 ammanettò Totò Riina) vengono rinviati a giudizio e un anno dopo il processo si conclude con un’assoluzione.
    Tutto finito? Macché.

    Dopo essere stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato per non aver perquisito l’abitazione – e non il covo, che è cosa diversa – in cui è stato arrestato Salvatore Riina, Mori si trova costretto a difendersi da altre accuse. E da una in particolare. Perché il generale non ci gira attorno, e quando ha saputo di essere indagato ancora una volta per favoreggiamento dice che è stato certamente quello il giorno più brutto della sua vita: perché è come se la procura lo avesse sostanzialmente accusato di essere stato la causa scatenante della strage di via D’Amelio.
    Nel processo in cui Mori dovrà difendersi in aula il 29 e il 30 gennaio, il principale testimone dell’accusa è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio. L’eroe della procura di Palermo, nonché principale testimone del processo contro il generale Mori, è però un personaggio dal passato molto controverso. Controverso perché il grande accusatore di Mori è uno degli uomini che fu denunciato dallo stesso generale. La storia è nota ma può essere utile ricordarla. Il generale Mori contribuì all’arresto di Riccio e fu uno dei primi a denunciare i reati commessi dal colonnello a metà degli anni 90. All’origine dei guai di Riccio vi fu la famosa Operazione Pantera. In quell’occasione – erano gli anni 90 – fu sequestrata una partita di pesce congelato da 33 tonnellate. Nascosto tra il pesce vi erano 288 chili di cocaina proveniente dalla Colombia.

    Tre mesi dopo il pesce fu venduto sottobanco dai carabinieri per 54 milioni. L’operazione Pantera costò a Riccio due reati. Non soltanto contrabbando aggravato ma anche detenzione e cessione di stupefacenti: perché nel corso dell’operazione, secondo l’accusa, il colonnello occultò cinque chili di cocaina sottratti alla distruzione del reperto da uno dei suoi uomini (si chiamava Giuseppe Del Vecchio).
    Così, dopo essere stato condannato in primo grado a 9 anni e mezzo e poi, in secondo grado, a 4 anni e 10 mesi, nel 2001 Riccio chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano e la morte di Luigi Ilardo”. E’ una storia complicata quella di Riccio: l’ex colonnello sostiene che nel 1995 il suo confidente Ilardo (trovato morto pochi mesi dopo) offrì la possibilità di catturare Bernardo Provenzano; racconta che i suoi uomini avrebbero seguito Ilardo fino al bivio di Mezzojuso – un piccolo comune di 3.711 abitanti a 34 chilometri da Palermo – che si sarebbero appostati in attesa del via libera e che Mori disse di non voler agire. Mentre – dice Riccio – noi “eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire”. Le deposizioni di Riccio sono però contestate. Uno dei testimoni dell’accusa, l’ufficiale dei carabinieri Antonio Damiano che nel ’95 prestava servizio al Ros di Caltanissetta, lo scorso 10 novembre ha raccontato una versione diversa.

    Damiano sostiene infatti di essere stato incaricato da Riccio di effettuare “un’osservazione con rilievi fotografici” al bivio di Mezzojuso ma il punto è che in quello che Riccio considera il mancato arresto di Provenzano non solo era già stato concordato preventivamente che l’operazione avrebbe avuto la finalità di studiare il territorio ma il grande accusatore di Mori, nonostante la relazione di servizio di quel giorno riportasse la sua presenza, in realtà – lo ammette Damiano – non era affatto presente: era rimasto in ufficio.
    A ogni modo, le parole di Riccio hanno offerto alla procura la possibilità di fare due calcoli rapidi rapidi: la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 più la mancata cattura di Provenzano nel 1995 sarebbero “strettamente connesse” alla presunta trattativa tra apparati dello stato e Cosa nostra. E’ proprio questa la tesi di uno degli uomini che alla fine di gennaio verrà ascoltato come teste dell’accusa nell’aula bunker del carcere Ucciardone: Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. Tesi che in sostanza si potrebbe riassumere così: Borsellino sarebbe stato ucciso dopo che il giudice venne a conoscenza della trattativa portata avanti tra la mafia e lo stato condotta in prima persona da suo padre e dal generale Mori. Borsellino era contrario alla trattativa e per questo, per evitare problemi, la mafia lo fece saltare in aria.

    La cronaca di quei mesi offre però una storia un po’ diversa e gran parte della verità di tutta la vicenda sembrerebbe proprio girare attorno a quel codice lì: 2789/90. Il codice fa riferimento a una delle inchieste più delicate che le forze dell’ordine portarono avanti durante gli anni 90 in Sicilia. Tutto nacque nel corso del 1989: in quegli anni Mori era già a capo del gruppo dei carabinieri di Palermo e sotto la direzione di Giovanni Falcone avviò l’inchiesta sul sistema di condizionamento degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra. Il primo plico contenente le informative sull’indagine fu consegnato il 20 febbraio del 1991 da Mori al procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. Ancora oggi Mori ricorda che “Giovanni sollecitò insistentemente il deposito dell’informativa rispetto ai tempi che ci eravamo prefissati per una ragione semplice: perché – diceva Falcone – non tutti vedevano di buon occhio l’indagine, e alcuni sicuramente la temevano”. In quei giorni, il giudice stava però per essere trasferito alla direzione degli affari penali del ministero della giustizia, e da Palermo dunque si stava spostando a Roma. Ma quell’inchiesta – ricorda il generale – lui voleva seguirla lo stesso e per questo Mori continuò a mantenere i contatti con Falcone. E fu proprio il giudice a riferire al generale che l’inchiesta “Mafia e appalti” non interessava più di tanto al nuovo procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco. Era davvero così?

    Fatto sta che al termine dell’inchiesta “Mafia e appalti” i Ros di Mori avevano evidenziato 44 posizioni da prendere in esame per un provvedimento restrittivo ma il 7 luglio del 1991 la procura ottenne soltanto cinque provvedimenti di custodia cautelare. Mori si arrabbiò e chiamò subito Falcone. La reazione del giudice è riportata dai diari consegnati alla giornalista di Repubblica Liana Milella, e fu questa: “Sono state scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”.
    Non solo. Pochi giorni dopo che Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno consegnarono il rapporto alla procura di Palermo vi fu una fuga di notizie. De Donno ne venne a conoscenza attraverso il suo informatore Angelo Siino (il così detto ex ministro dei Trasporti pubblici di Cosa nostra) che raccontò ai Ros di aver saputo dell’inchiesta da fonti vicine alla procura. “Mai come in quei mesi – racconta Mori – ebbi la sensazione di agire da solo e senza referenti certi a livello giudiziario”. Successivamente, ci furono altre due valutazioni che fecero infuriare il capitano dei Ros. La prima fu quando il Tribunale del riesame consegnò agli avvocati difensori degli indagati e degli arrestati non uno stralcio dell’informativa relativa ai singoli indagati, come da prassi, ma qualcosa di più: ovvero tutte le 890 pagine di testo. “In quel modo – ricorda Mori – furono svelati i dati investigativi fino a quel momento posseduti dall’inquirente e furono chiare le direzioni che le indagini stavano prendendo”.

    La seconda fu quando la procura di Palermo – ravvisando la competenza sul caso di più procure – inviò i fascicoli in mezza Sicilia ottenendo il risultato di moltiplicare il numero di occhi che osservavano da vicino quell’inchiesta. Ecco: secondo Mori il filo che lega le stragi di quell’anno – l’anno in cui furono uccisi nel giro di poche settimane prima Falcone e poi Borsellino e poi ancora un comandante della sezione di Perugia che insieme con i Ros aveva iniziato a lavorare su “Mafia e appalti”: Giuliano Guazzelli – sarebbe legato all’attenzione che Mori e Borsellino credevano fosse opportuno dare a quell’inchiesta, a quel codice maledetto. Poco prima di essere ucciso, infine, Borsellino partecipò a un incontro molto importante. Era il 25 giugno 1992 e il magistrato convocò in gran segreto nella caserma di Palermo – dunque negli uffici dei Ros – Mario Mori e il capitano De Donno. Borsellino confessò ai due che riteneva fondamentale riprendere l’inchiesta “Mafia e appalti”. Perché – sosteneva Borsellino – quello “era uno strumento per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra e gli ambienti esterni con cui essa si relazionava”. Qualche anno più tardi, nel novembre 1997, nel corso di un’audizione alla Corte d’assise di Caltanissetta, a confermare che Paolo Borsellino credeva che studiando il filone “Mafia e appalti” si poteva giungere “all’individuazione dei moventi della strage di Capaci” fu uno dei pm che oggi indaga su Mori: il dottor Antonio Ingroia.

    Le ragioni per cui l’incontro nella caserma dei carabinieri di Palermo fu mantenuto segreto vennero ammesse in quelle ore dallo stesso Borsellino. Ricorda Mori che Borsellino “non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell’incontro”. “E nel salutarci – prosegue Mori – il dottor Borsellino ci raccomandò la massima riservatezza sull’incontro e sui suoi contenuti, in particolare nei confronti dei colleghi della procura della Repubblica di Palermo”. Secondo il generale, in quei giorni Borsellino era molto preoccupato per una serie di fatti accaduti. Uno in particolare era legato a una data precisa. Il 13 giugno 1992 uno dei mafiosi arrestati dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta “Mafia e appalti” – il geometra Giuseppe Li Pera – si mise a disposizione degli inquirenti dicendo di essere disposto a svelare “gli illeciti meccanismi di manipolazione dei pubblici appalti”, ma i magistrati di Palermo risposero dicendo di non essere interessati. “Sì, è vero: i fatti di quei tempi – ricorda Mori – mi portarono a ritenere che anche una parte di quella magistratura temesse la prosecuzione dell’indagine che stavamo conducendo”.

    Pochi giorni dopo l’attentato in cui rimase ucciso Paolo Borsellino, Mori iniziò a stabilire contatti con l’uomo che all’epoca impersonificava meglio di tutti la sintesi perfetta dei legami collusivi tra mafia, politica e imprenditoria: l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Tra il 5 agosto e il 18 ottobre 1992, Ciancimino e Mori si incontrarono quattro volte (prima di quella data con Ciancimino vi furono dei contatti preliminari del braccio destro di Mori, De Donno) e iniziarono così a costruire un rapporto confidenziale senza renderlo però noto alla procura di Palermo. Mori non comunicò subito i contatti che aveva stabilito con Ciancimino per tre ragioni. Primo perché – e lo dice la legge – i confidenti delle forze dell’ordine non devono essere necessariamente rivelati alla procura. In secondo luogo – e queste sono parole di Mori – fu fatto “per evitare premature e indesiderate attenzioni sulla persona e per tentare di acquisire elementi informativi sicuramente nella disponibilità del Ciancinimo e cercare di giungere a una piena e formale collaborazione”. Infine, è ovvio: se ci fosse stato Borsellino, dice Mori, “glielo avrei detto subito”. Ma quando Mori parlò con Ciancimino, Borsellino era già stato ammazzato.

    Nonostante in molti sostengano che Mori avesse mantenuto a lungo segreti quei colloqui, in realtà gli incontri tra Mori e Ciancimino non sono una novità di oggi. Nell’autunno 1993 fu lo stesso Mori a raccontare all’allora presidente della Commissione antimafia Luciano Violante non soltanto dei suoi incontri con Ciancimino ma anche della volontà di quest’ultimo di essere ascoltato dalla commissione. Mori lo disse più volte a Violante e ogni volta che Violante se lo sentiva ripetere gli rispondeva più o meno allo stesso modo. Ponendo una condizione: “L’interessato – disse Violante il 20 ottobre 1992 nel corso di un incontro riservato con Mori – deve presentare un’istanza formale a riguardo”. Il 29 ottobre 1992, quindi, Violante convocò la commissione per spiegare qual era il suo programma di lavoro sulla materia che riguardava le inchieste sulla mafia e la politica. Nel verbale di quella seduta, tra le altre cose, si legge quanto segue: “E’ necessario sentire quei collaboratori che possono essere particolarmente utili”.

    Violante fece un lungo elenco di “collaboratori”, e tra questi c’era anche Vito Ciancimino. Ecco però il giallo: giusto tre giorni prima che Violante riunisse la commissione, Ciancimino si decise a scrivere una lettera. Una lettera datata 26 ottobre 1992 indirizzata a Roma, alla sede della commissione antimafia di Palazzo San Macuto. In calce alla lettera – che negli archivi della commissione sarà registrata solo diversi anni dopo con il numero di protocollo 0356 – c’è la firma di Vito Ciancimino. Il quale sostiene di essersi messo a disposizione della commissione già dal 27 luglio 1990, e di aver ormai accettato le condizioni che aveva posto per l’audizione il predecessore di Violante (Gerardo Chiaromonte): audizione sì ma senza quella diretta televisiva che secondo Ciancimino era necessaria per essere “giudicato direttamente e non per interposta persona”. Scrive l’ex sindaco di Palermo: “Sono convinto che questo delitto (quello di Lima, ex sindaco di Palermo ed ex eurodeputato della Democrazia cristiana che il 12 marzo 1992 fu ucciso a colpi di pistola di fronte la sua villa di Mondello) faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta commissione antimafia, se vorrà ascoltarmi”. Nonostante Violante avesse detto che avrebbe ascoltato Ciancimino solo se questi avesse fatto una richiesta formale alla Commissione, la commissione antimafia ricevette la lettera ma decise di non ascoltarlo.

    C’è poi un altro aspetto che della storia di Mori non può essere trascurato. Perché la storia di Mori è l’esempio di come una visione burocratica della lotta alla mafia non contempli la possibilità che un super sbirro possa imparare a combattere il nemico studiandolo, osservandolo da vicino, tentando persino di parlare con il suo stesso linguaggio. E con ogni probabilità il grande peccato originale di Mori è stato quello di essere diventato un simbolo della lotta alla mafia senza aver avuto bisogno di indossare l’abito del professionista dell’antimafia. Anzi, quell’antimafia con cui Mori ha lavorato fianco a fianco per anni è stata spesso ferocemente criticata dallo stesso generale. E sulla testa di Mori la scomunica dell’antimafia palermitana arrivò quando il generale testimoniò nel processo Contrada: l’ex agente del Sisde è stato arrestato il 24 dicembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quando Mori fu sentito come teste non si scompose affatto e, dopo aver detto che Contrada era il “miglior poliziotto antimafia che abbia mai avuto a Palermo”, il generale disse quello che la procura di Palermo non voleva sentire. Gli chiesero se Giovanni Falcone avesse mai sospettato di Contrada e lui rispose secco così: no. La procura aveva un’altra idea e indagò persino Mori per falsa testimonianza.

    Ma dietro alle accuse di connivenza fatte nei confronti del lavoro siciliano di Mori esiste anche un filone di critica culturale di cui ultimamente si è fatto portavoce lo scrittore Andrea Camilleri. La visione burocratica della lotta alla mafia ti trascina spesso anche verso conclusioni molto avventate e ti porta a credere che stabilire contatti con il nemico, studiare da dentro il suo mondo, arrivando persino a parlare il suo lessico, significhi sostanzialmente diventare suo complice. In una recente intervista, Camilleri sostiene che Leonardo Sciascia era molto affascinato da quella mafia che sembrava invece combattere. La dimostrazione pratica è nascosta dietro alcune parole del protagonista del Giorno della civetta. Sempre lui: il capitano Bellodi. “Sciascia – dice Camilleri – non avrebbe mai dovuto scrivere ‘Il giorno della civetta’: non si può fare di un mafioso un protagonista perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del romanzo, invece giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – ‘omini, sott’omini, ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce coll’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue.

    E il fatto che Sciascia faccia dire dal capitano Bellodi a don Mariano mentre lo va ad arrestare ‘Anche lei è un uomo’ è la dimostrazione che in fondo Sciascia la mafia l’ammira e la stima”.
    La mafia sembra invece che non apprezzò le inchieste portate avanti da Borsellino e da Mori. Pochi giorni dopo aver tentato di accelerare le indagini sull’inchiesta “Mafia e appalti”, in una 126 rossa parcheggiata in via d’Amelio, nel cuore ovest di Palermo, esplosero cento chili di tritolo e uccisero il giudice Borsellino e i suoi cinque agenti della scorta. Era il 19 luglio 1992. Solo un giorno dopo, quando ancora la camera ardente di Paolo Borsellino non era stata neppure aperta, la procura di Palermo depositò un fascicolo con una richiesta di archiviazione. Sopra quel fascicolo c’era un codice fatto di sei numeri: 2789/90.
    Era l’inchiesta “Mafia e appalti”.

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    • anonimo 13:29 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      Grazie paolo della precisazione che non conoscevo, sul resto delle mie domande sai qualcosa?

      Gianluca

    • anonimo 15:34 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      PER COMMENTO 3

      Grazie dell’interessantissimo articolo che mi hai postato, nello stesso Mori intervistato dice:

      "Non perquisimmo subito l’ appartamento di Riina perche’ , e me ne assumo tutta la responsabilita’ , il capitano Ultimo pensava che potesse essere ancora "caldo". Quel che resta sono stupidi sospetti all’ italiana"

      Che significa ancora caldo? E poi nell’immediato subito dopo l’arresto si conosceva o no con precisione qual’era l’appartamento?

      Riguardo Canale è stato assolto in appello con motivazioni mandate dopo 13 mesi … ed è news di novembre ricorso in cassazione, che schifo!

      ASSOLUZIONE IN APPELLO

      http://www.siciliainformazioni.com/giornale/cronaca/italia/23841/assolto-tenente-canale-braccio-destro-borsellino-appello-stato-accusato-concorso-esterno-associazione-mafiosa.htm

      RICORSO IN CASSAZIONE
      http://www.antimafiaduemila.com/content/view/21520/48/

      Gianluca

      P.S. La news del ricorso in cassazione è così allucinante che è anche complicata da trovare in rete ed a riguardo ci sono pochi link .

    • anonimo 17:59 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ciao Gianluca,
      Vado di fretta e mi sembra mancanza di rispetto per il titolare del blog postare " amemoria", come fatto per la risposta precedente,

      ad ogni modo.
      1, corretto, quando fu arrestato riina si conosceva il- grande-  complesso immobiliare ma non l’esatta ubicazione dell’appartamento.
      2. scrivi bene, caselli si era insediato il giorno stesso: ha avallato il parere anzitutto di Ultimo. Al processo ha confermato il tutto.
      La perquisizione era tecnicamente impossibile anche per il fatto che quasi subito l’ingresso del complesso immobiliare era pieno di giornalisti, informati da Ripollino, malgrado la cattura fosse avvenuta in altro luogo.
      3. non ricordo bene il particolare. Posso solo dire che è coerente con una assoluzione con formula piena sulla quanle uno a caso, travaglio, spende parole durissime dopo averci dilettato di lampioni e cassaforti.

      Mi scuso nuovamente se per fretta vado un po’ a memoria e non indico fonti specifiche.
      Posso dire con certezza che buona parte se non gran parte delle informazioni derivano dalla lettura delle analisi di enrix :)
      Ciao. Paolo

    • anonimo 19:20 on 17 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ciao Enrix, sono Moritz, una segnalazione.
      Un tale avvocato Fabio Repici dice, ripreso anche dal sito di Borsellino (ammazza che dichiarazioni!):
       
      “Del ROS dopo la guida del generale Subranni è arrivato il momento del Generale Mario Mori. Il Generale Mario Mori è il responsabile della mancata perquisizione al covo di Riina. Tanti blaterano di una sentenza di assoluzione che gli ha restituito l’onore. Allora, per chiarire, il Generale Mori e il colonnello Sergio De Caprio dalla sentenza di assoluzione sono rimasti definitivamente svergognati perché, con quella sentenza di assoluzione, si è sancito che essi hanno omesso di perquisire il covo di Riina, sono assolti non per non aver commesso il fatto, ma solo perché il tribunale ha ritenuto che non era stato provato il dolo. L’hanno fatto, ma solo per colpa, inavvertitamente.”
      "Altro personaggio – qui rasentiamo il cabaret – che ha contraddistinto il ROS nella seconda Repubblica, è un personaggio che avrebbe un nome e un cognome, che però, come nei fumetti, si fa chiamare per pseudonimo. Ora, ci sono stati esimi esempi di ufficiali nobili ed integerrimi nella storia dell’arma dei carabinieri: Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Capitano D’Aleo, il Capitano Basile. Ma voi ve lo immaginereste uno di questi personaggi che si fosse fatto chiamare con uno pseudonimo? Gli avrebbero riso in faccia. Non lo fecero. C’è invece un personaggio, che in teoria all’anagrafe si chiama Sergio De Caprio, che però è conosciuto con lo pseudonimo di Capitano Ultimo perché si sente evidentemente un personaggio dei fumetti. E’ un altro dei responsabili della mancata perquisizione al covo di Riina ed è uno dei personaggi – è un poveretto da come si propone – sui quali è però più difficile parlare, perché appena si cerca di mettere il dito sulle gravissime pecche di quell’ufficiale, ci sono personaggi, anche dell’antimafia ufficiale, che subito saltano in piedi e gridano allo scandalo. Perdonatemi, ma, con i personaggi da fumetti, investigazioni serie non se ne fanno e la storia del ROS è la prova di questo. Non è un caso, per altro, che i supporter di quegli ufficiali del ROS, di questi tempi, sono gli stessi supporter di Bruno Contrada, o gli stessi supporter dei servizi deviati."
       
      http://www.antimafiaduemila.com/content/view/23762/48/

    • anonimo 00:16 on 18 January 2010 Permalink | Rispondi

      Per Moritz

      Penso che basta leggere quello che scrive per capire il livello di questo avvocato. Tra l’altro sulla sentenza conclude con il comunicare che i giudici hanno confermato che il covo non è stato perquisito (cosa vera) ma non c’era dolo COME DIRE CHE E’ UNA STUPIDAGGINE IL MANCATO DOLO, peccato non ci racconti pure che Caselli diede l’ok e sapeva tutto, peccato non ci racconti che la presunta cassaforte rimase intatta, peccato non ci racconti che al momento dell’arresto non si sapeva con precisione quale era l’appartamento dove stava Riina, peccato non ci dice che causa soffiate alcuni giornalisti erano nella zona con il rischio di bruciare futuri indagini … ma per l’avvocato queste sono piccolezze da cartone animato …

      Gianluca

    • enrix007 12:41 on 18 January 2010 Permalink | Rispondi

      E’ incredibile la mobilitazione generale contro questi carabinieri che hanno catturato Riina.  Molto utile soprattutto per dare una buona immagine della lotta contro il crimine della loro città ai giovani palermitani.

      Questa serà probabilmente posterò un articolo, per rispondere a tutte queste bassezze, questo pattume.

    • anonimo 21:49 on 24 January 2010 Permalink | Rispondi

      Post di Angelo Jannone che parla dell’avvocato Repici.

      http://ilblogdiangelojannone.blogspot.com/2010/01/nel-nome-dellantimafia.html

    • anonimo 21:51 on 24 January 2010 Permalink | Rispondi

      Scusate, dimentico sempre la firma, chiamiamola così.
      Allora aggiungo un documento un po’ datato, la lettera di Olindo Canali, magistrato, in cui si parla anche dell’avvocato Repici.

      http://blog.libero.it/lavocedimegaride/6781985.html

      bart_simpson

    • anonimo 00:16 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ho letto sul libro di Montolli "il caso Genchi" alcune dichiarazioni fatte da Jannone ai magistrati che sono delle auto accuse, sempre però nascoste ai media.

      Viene anche descritto come persona molto abile a gestire le news on line (riportando notizie non vere a suo riguardo su Wikipedia) e sullo stesso ancora non mi sono dilettato a cercare in rete. Tu lo hai fatto? Sai qualcosa relativi i processi che aveva in corso?

      Gianluca

    • enrix007 09:26 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi

      Guardate, a me non frega niente chi sia ‘sto Repici. E semplicenente uno che ha scritto che i cc che arrestarono il capo dei capi della mafia latitante da decenni, sarebbero stati "svergognati" dal fatto che nella sentenza c’è scritto che non hanno comunque rispettato il regolamento di polizia, anche se tale infrazione è stata commessa senza dolo e non ha avuto, nè poteva avere, alcuna conseguenza sulle indagini.

      Quindi è semplicemente n’ommem-bip-.

    • anonimo 14:07 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi

      Su Repici sono assolutamente d’accordo con te Enrix. Sarebbe interessante capire qualcosa anche su Jannone visto che da ex ROS viene utilizzato per attaccare gli stessi accostandolo  a Mori ad Ultimo ed ai tanti che NON DEVONO VERGOGNARSI DI NULLA (almeno fino a prova contraria e nonostante gli stiano facendo le pulci, queste prove contrarie ancora non sono uscite fuori).

      Gianluca

    • anonimo 18:15 on 14 January 2010 Permalink | Rispondi

      Articolo molto interessante.  Vorrei chiederti caro Enrix alcune precisazioni.

      1- L’articolo quando introduce per la prima volta l ‘argomento mancata perquisizione del covo o appartamento, fa passare un piccolo particolare che E’ ERRATO SE MI RICORDO BENE. All’inizio nell’immediato post arresto di Riina, arresto avvenuto per strada (nella zona presidiata) e dentro NESSUN APPARTAMENTO, non si sapeva neanche con precisione quale fosse l’appartamento in questione. Si sapeva che era in quella zona, basta. Mi ricordo bene Enrix ho in testa i miei ricordi sono sbagliati?

      2- Ho letto sempre nello stesso paragrafo che Mori afferma che avrebbe avuto l’input dalla procura di non fare la perquisizione, mentre i ricordo tutt’altra cosa e precisamente che ritenevano (Mori ed Ultimo) più corretto agire così ed informarono del loro piano Caselli (appena insediatosi) che diede l’ok, visto che la parola finale spettava a Caselli.  E’ un imprecisazione del giornalista che ha scritto il pezzo o ricordo male io?

      3- A seguire trovo scritto che Ingroia e Prestipino  in una prima inchiesta scagionarono Mori chiedendo l’archivazione ma cmq scrissero 100 pagine di motivazioni per picchiare duro, sostenendo che le news date alla procura erano non veritieri e fuorvianti. Immaggino avranno scritto a quale dichiarazioni si riferivano, quali sono?

      4- Infine si parla che vengono di nuovo messi sotto inchiesta e che questa volta il processo viene fatto E VENGONO DEFINITIVAMENTE ASSOLTI, ti chiedo Enrix, su cosa si basò la richiesta di una nuova indagine dopo che nel primo caso sullo stesso argomento Ingroia e Prestipino chiesero l’archivazione? Anche perchè, se non sbaglio, saranno proprio Prestipino ed Ingroia i PM dell’accusa.

      Gianluca

    • anonimo 03:09 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      @Gianluca.
      Richiesta di archiviazione dei Pm ma la Gip (non ricordo il nome) ha rinvato a giudizio ugualmente.
      Paolo

    • anonimo 10:43 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      http://archiviostorico.corriere.it/1999/gennaio/03/miei_uomini_prenderanno_Provenzano__co_0_9901031113.shtml

      Tutto e’ cominciato il 13 ottobre 1997 quando Caselli e il suo aggiunto Guido Lo Forte vanno a Torino a interrogare Mori: la Procura vuole capire quale crepa si fosse aperta nel sistema di vigilanza sull’ ex pentito Balduccio Di Maggio, tornato in Sicilia per ricostituire la cosca e compiere omicidi. L’ indagine si addentrava su presunte "distrazioni" del Ros.

      IL CASO SIINO – DE DONNO Alcuni giorni dopo il maggiore Giuseppe De Donno si presenta ai magistrati di Caltanissetta per accusare Lo Forte: il magistrato sarebbe stato una talpa delle cosche e avrebbe passato nel 1991 un rapporto Ros su mafia e appalti. La fonte era il "ministro dei Lavori pubblici" di Cosa nostra, Angelo Siino, che avrebbe fatto quelle rivelazioni a De Donno e al colonnello Giancarlo Meli. Sia lo Lo Forte che Siino smentiscono i due ufficiali.

      IL CASO CANALE Lo Forte denuncia De Donno per calunnia, sostenendo, tra l’ altro, che nei colloqui registrati a sua insaputa Siino non ha mai sollevato ombre sul procuratore aggiunto. Il pentito ha anzi accusato di collusioni mafiose il tenente Carmelo Canale e il maresciallo suo cognato, Antonino Lombardo, suicida nel 1995.

      Poi però Canale per quelle accuse è stato assolto, sbaglio?

      http://cronachedallimbecillario.splinder.com/archive/2009-08

    • anonimo 10:54 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      L’articolo finiva così

      LA RAPPACIFICAZIONE Nell’ aprile 1998 il nome di Mori finisce nel registro degli indagati a Palermo: con altri ufficiali e funzionari di polizia avrebbe reso una falsa testimonianza nel processo all’ ex funzionario del Sisde Bruno Contrada. Ma proprio in quel momento la guerra tra Ros e Procura e’ entrata in una fase di rapido raffreddamento fino a una cena "pacificatrice" svolta a Palermo tra Caselli, Mori e altri ufficiali 

      L’ INCHIESTA Intanto la Procura di Caltanissetta chiede l’ archiviazione sia per Lo Forte che per De Donno. Solo per Canale richiesta di rinvio a giudizio.
      R. R., D’ Avanzo Giuseppe
      Pagina 13
      (3 gennaio 1999) – Corriere della Sera

      bart_simpson

  • Avatar di enrix

    enrix 00:04 on 3 November 2009 Permalink | Rispondi
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    LA SCOMPARSA DEI FATTI 

    Antimafia Fiction

    Rivelazioni schock, accordi tra boss e politici, “sbirri” collusi, omicidi eccellenti. Nel perfetto film di Palermo sulla trattativa tra Cosa nostra e lo Stato c’è proprio tutto. Tranne i fatti

    Leggi l’intervista a Giuseppe del Vecchio

    Leggi: L’inchiesta bomba archiviata

    di Chiara Rizzo

    Palermo, aula della IV sezione penale del tribunale, 20 ottobre 2009. Sguardi compunti e grandi inchini davanti ai pm antimafia e ai lacunosi ricordi di Luciano Violante. Risolini scettici e qualche plateale sbuffo di noia nei riguardi delle dichiarazioni spontanee del generale Mario Mori. Nell’aula al secondo piano del tribunale di Palermo c’è un clima di tifo effervescente per i teoremi dei pm Antonino Ingroia e Nino Di Matteo. Tanto che ad un certo punto il generale richiama stizzito all’ordine l’appuntato di AnnoZero, Sandro Ruotolo. Cosa succede a Palermo? La copertina dell’ultimo numero dell’Espresso, viene in soccorso: “Esclusivo: Tra mafia e Stato. I verbali inediti dei pentiti Brusca e Spatuzza. Così andò la trattativa tra Cosa nostra e i politici. Da Mancino a Berlusconi”. Tempi vorrebbe rovesciare la prospettiva, sulla base delle carte e di un quesito apparentemente stravagante: dove nascondereste voi una foglia? Forse in un bosco, no? E dove nascondereste il mistero di un’inchiesta scottante archiviata frettolosamente? Forse in mezzo a tante altre inchieste?
    Sostiene Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, che «siamo all’anticamera della verità». Una verità che ne ospiterebbe al suo interno molte altre, come un gioco di scatole cinesi. Una verità che sarebbe contenuta nelle pieghe del famoso “papello” con le richieste di Totò Riina allo Stato, vergate nell’anno 1992. La prova di una trattativa tra mafia e istituzioni, secondo la procura siciliana. Custode del papello e intermediario tra boss e Stato, attraverso i massimi vertici dei carabinieri, sarebbe stato Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo vicino ai corleonesi e condannato per mafia. Dietro la supposta trattativa via papello, ci sarebbe la soluzione di molti misteri italiani. Da quello di via d’Amelio, l’attentato in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino (e ucciso, secondo la tesi dei pm palermitani, proprio perché non avrebbe condiviso la trattativa). Giù giù fino alla spiegazione delle stragi del ’93 a Roma, Firenze, Milano, organizzate, sempre secondo la tesi dell’antimafia, per vendetta contro lo Stato traditore dei patti. E ancora giù, fino all’ultima scatola infernale: quella di una presunta seconda trattativa, avviata alla fine del ’93 con il nuovo referente politico, Forza Italia, tramite Marcello Dell’Utri. Quest’ultima è senz’altro la parte più golosa del teorema palermitano, adombrata dal pentito Giovanni Brusca (quello che azionò il telecomando nella strage di Capaci) nelle sue rivelazioni riportate dall’Espresso. Brusca non aveva ancora finito di parlare dalla copertina del settimanale, che già sulle pagine di Repubblica si affacciava il “nuovo” pentito Gaspare Spatuzza, pronto a confermare la trattativa con Forza Italia.
    Chissà quanti altri recupereranno la memoria prossimamente. D’altra parte, l’urgenza di “nuove rivelazioni” pare aver rinfrescato i ricordi anche a Claudio Martelli (nel ’92 ministro della Giustizia) e a Liliana Ferraro (allora direttrice degli Affari penali del ministero). A entrambi è ritornato in mente che in effetti, prima di morire, Borsellino sapeva di una trattativa tra mafia e Stato. E guardacaso il soprassalto di memoria dei due è avvenuto proprio nel corso di un’intervista di Sandro Ruotolo per la puntata di AnnoZero in onda l’8 ottobre 2009.

    Tutti ricordano diciassette anni dopo
    Ma come si è arrivati, diciassette anni dopo i fatti, «all’anticamera della verità», per dirla con Ingroia? Riavvolgiamo il film e torniamo al punto di partenza. Il processo palermitano contro Mori (il generale dei carabinieri che nel 1993 guidò l’operazione che condusse all’arresto di Totò Riina), si dipana lungo due filoni di indagine. Il primo riguarda la mancata cattura, nel ’95, di Bernardo Provenzano, successore di Riina ai vertici di Cosa nostra: Mori è accusato di aver favorito la fuga del boss. Il secondo riguarda invece il presunto papello di Riina: la tesi dell’accusa è che Mori avrebbe fatto da tramite, durante i suoi abboccamenti del ’92 con Ciancimino, tra mafia e alti livelli dello Stato. C’è un problema, però, per i fan del teorema a cascata trattativa-mafia-carabinieri-Stato-Dell’Utri- Berlusconi”: i fatti.
    Primo fatto. La principale fonte delle informazioni sulla presunta trattativa mafia-Stato è oggi Massimo Ciancimino, il figlio di “don” Vito. Il quale inizia a rilasciare dichiarazioni alla direzione distrettuale antimafia palermitana , cioè a Ingroia e Di Matteo, nell’aprile del 2008. Ovvero sedici anni dopo i fatti in questione. E soprattutto un anno dopo la sua condanna, l’11 marzo 2007, per riciclaggio e tentata estorsione. A luglio 2008 si apre il processo contro Mori, dove l’accusa è sostenuta dai pm Ingroia e Di Matteo. E Ciancimino jr. a furia di rivelazioni, da figlio di mafioso, arrestato, condannato e alleggerito nelle proprietà e nei beni per la cifra astronomica di 60 milioni di euro, viene trasformato, grazie alla ribalta mediatica, in superteste (con tanto di scorta) di un processo, quello contro il generale Mori, che sui media è ormai diventato un “processo allo Stato”.

    L’interrogatorio dimenticato
    Secondo fatto. Fino al giugno 2009, Massimo Ciancimino rimane evasivo sul famoso papello custodito da papà Vito. Messo però alle strette dai pm, nel luglio 2009 (proprio nei giorni a ridosso della sentenza di Genova che ha ridotto la condanna al colonnello Michele Riccio, l’uomo che accusa il generale Mori di aver favorito la fuga di Provenzano), promette ai magistrati di consegnare il foglio con le richieste di Riina, e rivela loro che i primi incontri tra suo padre e gli alti ufficiali dei Ros (Mori e Giuseppe De Donno) risalivano al giugno del ’92, prima della strage di via D’Amelio. Ad oggi, però, a Palermo risultano depositate solo due fotocopie di appunti manoscritti: una del presunto papello di Riina, l’altra è la fotocopia della versione riveduta e corretta da Vito Ciancimino. Dove sono gli originali di questi documenti?
    Terzo fatto. Esistono manoscritti originali e verbali di interrogatorio, dei quali il pm Ingroia e l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli sono a conoscenza dal gennaio del 1993, in cui Vito Ciancimino stesso parla degli incontri con gli ufficiali del Ros, l’allora colonnello Mori e l’allora capitano De Donno. Tali documenti sono stati depositati il 20 ottobre scorso al processo Mori. Che spiegazione ha dato di questi abboccamenti con Cinancimino l’ex numero 1 del Ros? Mori innanzitutto li ha collocati a partire dal 5 agosto 1992, dopo la morte di Borsellino (il che escluderebbe che la presunta trattativa mafia-Stato sia stata la causa della morte del magistrato). In secondo luogo il generale ha chiarito a quali ragioni investigative rispondessero tali incontri: attraverso il sindaco mafioso i carabinieri intendevano ottenere indicazioni per arrivare alla cattura dei boss. L’incontro significativo sarebbe stato il quarto, quello avvenuto il 18 ottobre 1992, dopo che Ciancimino aveva avviato i contatti con i corleonesi. Ha ricordato il generale Mori: «Mi disse: “Guardi, quelli accettano la trattativa. Voi che offrite in cambio?”. Io non avevo nulla da offrire, per cui dissi: “I vari Riina, Provenzano si costituiscano e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. A questo punto Vito Ciancimino si imbestialì». Ecco perché la “trattativa” è saltata: perché non c’è stata nessuna trattativa.

    E don Vito disse: il patto? Una palla sonora
    In seguito, nel dicembre del ’92, Vito Ciancimino viene arrestato. Il 15 gennaio 1993 il capitano Ultimo, dei Ros guidati da Mori, arresta anche Riina. Lo stesso giorno si insedia a Palermo il nuovo procuratore Giancarlo Caselli. Che da Mori viene immediatamente informato di una richiesta di Ciancimino: il sindaco vuole incontrare il nuovo procuratore palermitano nel carcere di Rebibbia, dov’è detenuto, perché intende rilasciare alcune dichiarazioni. Il 27 gennaio avviene il primo interrogatorio di Ciancimino. Sono presenti il procuratore Caselli, il pm Ingroia, il colonnello Mori e il capitano De Donno. Seguono numerosi interrogatori a cui sono sempre presenti Ingroia e Caselli. Quello che ci interessa è l’interrogatorio del 17 marzo 1993 (clicca sopra per scaricarlo – ndr) , ore 9.30. In quell’occasione Ciancimino parla estesamente con Caselli e Ingroia degli incontri avuti nel 1992 con i carabinieri. Nota bene: a quell’epoca l’ex sindaco di Palermo avrebbe tutto l’interesse a retrodatare il più possibile questi incontri, per candidarsi così ad accedere ai benefici per i “collaboratori di giustizia”. Cosa dice invece quel 17 marzo 1993 Vito Ciancimino? Spiega a Caselli e a Ingroia che «avevo avuto dal capitano De Donno varie sollecitazioni per iniziative comuni. Le avevo respinte. Ma dopo i tre delitti (quello di Lima, che mi aveva sconvolto; quello di Falcone che mi aveva inorridito; quello di Borsellino che mi aveva lasciato sgomento) cambiai idea. Manifestai la mia intenzione di collaborare, ma chiesi un contatto con un livello superiore. Conseguentemente il capitano De Donno tornò a casa mia (mi pare il 1° settembre 1992) accompagnato dal colonnello Mori. Esposi il mio piano: cercare un contatto per collaborare con i carabinieri. Questo piano fu accettato, e una ventina di giorni dopo incontrai una persona, organo interlocutorio di altre persone». Il “contatto” è Antonino Cinà, il medico della mafia. Ricorda Ciancimino: «Chiamai i carabinieri, i quali mi dissero di formulare questa proposta: “Consegnino alla giustizia alcuni latitanti grossi e noi garantiamo un buon trattamento alle famiglie”. Ritenni questa proposta angusta per poter aprire una valida trattativa».
    Cosa fanno davanti a queste dichiarazioni Caselli e Ingroia, l’uomo che conduce l’accusa contro Mori e sostiene la tesi di una trattativa tra mafia e Stato? Nulla. Non battono ciglio. Leggono, firmano e sottoscrivono il verbale dell’interrogatorio. Vito Ciancimino racconta anche altro in quell’interrogatorio del 17 marzo 1993. Racconta di un secondo tentativo di collaborare con i carabinieri. Ecco le sue parole a verbale: «Il 17 dicembre partii per Palermo, dove mi incontrai con l’intermediario-ambasciatore. Io gli avevo raccontato (d’intesa con i carabinieri) una “palla” sonora, grossa come una casa, vale a dire che un’altissima personalità della politica (che non esisteva), che era un’invenzione mia e dei carabinieri, voleva ricreare un rapporto tra le imprese. Comunicai l’impegno dell’interlocutore-ambasciatore a rispondermi al capitano De Donno. Questa comunicazione avvenne il sabato. Mezz’ora dopo questo colloquio venivo arrestato». Dunque: Ciancimino dichiara anche di aver proseguito i contatti con i mafiosi e riferito ai carabinieri. Malgrado questo, viene arrestato. Naturale che sia imbufalito. Eppure, nonostante abbia più di una ragione per volersi vendicare dei carabinieri che lo usavano ma non lo hanno sottratto all’arresto, non si presenta come il tramite tra Riina e Mori e come il custode di un documento (il famoso papello) che prova l’esistenza di una trattativa con lo Stato. Anzi. Don Vito bolla il coinvolgimento di «un’altissima personalità della politica» come «una palla sonora, grossa come una casa». Quel 17 marzo Ingroia legge e sottoscrive tutte queste affermazioni di Ciancimino. I dubbi gli sono venuti diciassette anni dopo.

    02 Novembre 2009

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     
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