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    enrix 15:00 on 23 April 2011 Permalink | Rispondi
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    ECCO I DUE PESI E LE DUE MISURE DELLA PROCURA DI PALERMO 

    UNO PER DE GENNARO, ED UNO PER BERLUSCONI: ECCO I DUE PESI (E LE DUE MISURE) DELLA PROCURA DI PALERMO
     
    cianciallegro

    Mentre scriviamo, Massimo Ciancimino è in galera.
     
    Ce lo hanno mandato i PM di Palermo. 
     
    Per quale ragione?
     
    Piuttosto semplice.
     
    Lo scorso mese di luglio, messo sotto pressione dalla procure per la questione del  fantasma, pardon, del Sig. Franco/Carlo, (Procure scottate dalla vicenda carnascialesca del dirigente della BMW fotografato ai Parioli, che minacciava querele per essere stato indicato come il presunto fantasma) Massimo Ciancimino prese il coraggio a 4 zampe, e consegnò questa cosa ai pubblici ministeri:

    Contemporaneamente, il 18 luglio, l’editore Aliberti annunciava sul suo sito e sul quotidiano “Il Fatto”  la pubblicazione del clamoroso documento sul libro fresco di stampa “I misteri dell’agenda rossa” (di Viviano e Ziniti), con queste parole:
    «In questo manoscritto inedito di Vito Ciancimino viene rivelata per la prima volta l’identità del signor Franco (o ‘Carlo‘, ndr), alias Keller Gross. Il nome di quest’uomo, probabilmente appartenente ai servizi segreti, appare in un lista insieme a personaggi dell’ex Alto Commissariato dell’epoca per la lotta alla mafia».(Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2010).
    Fonte: «I MISTERI DELL’AGENDA ROSSA» (Aliberti editore)
    di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti.
     
    Secondo la testimonianza di Ciancimino junior, quel documento risaliva  ai primi anni ’90:  in esso comparivano 12 nomi di investigatori e politici, come l’ex ministro Franco Restivo, l’ex questore Arnaldo La Barbera, il funzionario del Sisde Bruno Contrada, il generale dell’Arma Delfino e il funzionario dell’Aisi Lorenzo Narracci. Nella lista c’era anche un tale Gross e, accanto, le iniziali “F/C”, che, a dire del figlio dell’ex sindaco, avrebbero indicato i due nomi con cui lo 007 era noto: Franco e Carlo. Una freccia collegava poi Gross a un altro cognome: “De Gennaro”.

    “Quando gli chiesero spiegazioni sul perché, tra i tanti nomi citati in un pizzino del padre, ci fosse anche quello di Gianni De Gennaro, Massimo Ciancimino disse di non averne parlato subito per paura di venire considerato un mitomane. (…)  E’ vero come è vero, però, che ai pubblici ministeri che indagano sulla presunta trattativa fra la Mafia e lo Stato, Ciancimino jr disse di avere visto il padre scrivere di suo pugno quel pizzino. Ed invece la polizia scientifica, a cui si sono rivolti il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Antonino Di Matteo e Paolo Guido, ha accertato che il nome di De Gennaro è stato preso da un altro documento e piazzato, ad arte, sul pizzino. Non uno qualunque, ma scelto da don Vito Ciancimino per denunciare l’esistenza del “Quarto livello”, un’accozzaglia di infedeli servitori dello Stato, così li bollava l’ex sindaco, responsabili di molti dei mali della storia d’Italia.  (da “Livesicilia”

    Ed oggi RIFERISCE  Il Procuratore di Palermo, Francesco  Messineo “La scientifica ha stabilito con certezza assoluta – spiega Messineo – che il nome di De Gennaro é stato estrapolato da un altro documento presentato da Massimo Ciancimino e posto in quel foglio. In questo momento non ci risulta che ci siano altri documenti ‘falsificati’ ma non lo possiamo escludere, visto che la scientifica analizza i fogli che Ciancimino ci ha dato in vari periodi”.
     
    Fra poco lo vedremo, se è vero che non risulta.
     
    Ad ogni modo le descrizioni date dai giornali, per la maggior parte, restano fumose.
     
    Ecco in realtà ciò che è accaduto:

    L’elenco di nomi illustri, lo ha scritto Massimo Ciancimino di suo pugno. Ce lo ha rilevato per primo Marco Travaglio, con nonchalance, in un suo passaparola dello scorso dicembre, di cui io parlai nel mio articolo “la patacca rossa” (vedi QUI ).  Consapevole che uno scritto non riconducibile al padre, sarebbe stato di scarso valore, ha tirato una riga, avrebbe appiccicato col Photoshop una selezione “copia-incolla” del nome “De Gennaro” scritto da suo padre in un altro documento che non c’entrava nulla, avrebbe stampato, e quindi consegnato il tutto ai magistrati.
     
    Il ragionamento che sta alla base di questo falso, è piuttosto ovvio: se don Vito ha tirato una riga di suo pugno ed accostato un nome a quella lista, vuol dire che quella lista quanto meno non era stata scritta al bar durante l’aperitivo, senza che don Vito ne sapesse nulla,  da qualche furbacchione, ma che invece, in qualche modo, era stata “avvallata” dall’ex sindaco di Palermo.
     
    Un deja-vu, nel malloppo di documenti Cianciminiani. E vediamo un po’ perché.
     
    Il “papello”, scritto da mano sconosciuta, non varrebbe nulla, se non ci fosse appiccicato il post-it scritto da don Vito, con la dicitura “consegnato SPONTANEAMENTE al colonnello Mori” (post-it che invece è pesantemente indiziato di appartenere a tutt’altro documento, come vi spiegherò più tardi in un articolo dedicato all’argomento).
     
    La “lettera di don Vito a Berlusconi per chiedere le televisioni”, non potrebbe avere il significato che gli assegna il testimone, se non ci fosse un bigliettino che ne riporta uno stralcio con calligrafia diversa (e con sintassi un po’ più sgrammaticata), casualmente sequestrato dalla procura in uno scatolone depositato nei magazzini di Massimo Ciancimino, e che lo stesso testimone ha avuto buon gioco nel descrivere come lo stralcio di una bozza di lettera scritta “in ambienti vicini a Bernardo Provenzano”, sulla base del quale don Vito avrebbe realizzato la sua “rielaborazione” da spedire al cavaliere.
     
    La fotocopia della lettera dattiloscritta da don Vito e (mai) inviata al governatore della Banca d’Italia Fazio, dove si legge che Paolo Borsellino si sarebbe opposto alla cd. “trattativa”, sarebbe un documento ben povero di importanza se sotto al testo non ci fosse (sempre fotocopiata) la firma autografa di don Vito e la stessa lettera non fosse stata consegnata, anziché da Massimo, questa volta, dalla sig.ra Epifanìa, vedova Ciancimino, che dice di averla trovata in una carpetta.
     
    E il documento “X”, di cui parleremo fra poco, varrebbe ben poco se non spuntasse nello stesso, il nome del Presidente del Consiglio manoscritto da don Vito, sempre grazie al solito metodo.
     
    Insomma, ci siamo capiti. 
     
    Qui, a dare tono al bigliettino, c’era quella scrittina “De Gennaro”, che qualche mese fa Massimo affermava “di avere visto il padre scrivere di suo pugno”, mentre oggi, dalla galera, ci fa sapere attraverso gli stessi PM di non essere a conoscenza di chi sia stata ad appiccicarla sul suo manoscritto, per poi realizzare la fotocopia che lui ha consegnato in procura.
     
    “Ciancimino jr, in lacrime, nega di avere falsificato il documento. La sovrapposizione del nome dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, non è opera sua. Si è limitato a consegnare il documento così come lo ha ritrovato fra le tante, troppe carte dello sterminato archivio del padre.”
    (da Livesicilia ) 
     
    Forse sarà opera del sig. Franco, a sua insaputa, mentre lui in cucina gli preparava il caffè.
     
    Ma veniamo al sodo.
     
    Abbiamo visto che il dott. Messineo della procura di Palermo, ha dichiarato: “In questo momento non ci risulta che ci siano altri documenti ‘falsificati’
     
    Ma sarà proprio vero?

    Perchè a me invece risulta che ce ne sia uno agli atti bello grosso, anzi, due. Esattamente identici a quello attualmente contestato.
     
    Soltanto che in quei casi, al posto di “De Gennaro”, c’è “Berlusconi”, e ciò evidentemente causa una certa, pur involontaria, distrazione nei nostri inquirenti.
     
    Per capirlo, bisogna esaminare due documenti.  Lo faremo attraverso le classificazioni date agli stessi dai periti della Polizia Scientifica che li hanno analizzati.
     
    Uno è questo:

    fotomontaggio ciancimino 
    E l’altro è questo:

    DOC 3 compPA
     
    Sono due fotocopie.
     
    La prima, è simile in tutto e per tutto alla fotocopia che è costata la gattabuia al nostro testimone.
     
    C’è un elenchino di scritte inquietanti (persino “Rasini Bank” e “Gladio”) prodotte dalla mano di Massimo Ciancimino, (come l’elenchino di nomi, con tanto di sig. Franco, del documento galeotto) con a fianco alcune altre parole scritte, questa volta, per mano di don Vito, fra cui campeggia in prima fila il nome “Berlusconi” accanto a “Ciancimino”. (come già per il nome “De Gennaro” sul documento galeotto).
     
    Ma, come già per “De Gennaro”,  non sono scritte originali, ma bensì frutto di copia-incolla di sezioni di testo di un altro originale, scritto da Vito Ciancimino, e lì riportate grazie alle forbici o a qualche diavoleria tipo “Photoshop”.
     
    Infatti ci sono persino due di queste frasi scritte, e vale a dire “Berlusconi-Ciancimino”, e “Milano truffa e bancarotta” che compaiono nell’altro collage che ho richiamato, come si vede da questo confronto:
     
    fotomontaggio ciancimino2
    DOCUMENTO “X”

    DOC 3 compPA2
    DOCUMENTO “Y”
     
    Il  documento “Y”, non è un documento qualsiasi. Vediamo come ce lo descrisse, all’epoca, Repubblica, sulla sua PAGINA REGIONALE  del 13 febbraio 2010
     
    Ciancimino, rivelazioni su Moro
    nuovo pizzino con nome Berlusconi
     
    Palermo- Nuove rivelazioni sul rapimento di Aldo Moro e nuovi verbali sugli investimenti mafiosi in Milano 2 con la mediazione eccellente di Roberto Calvi. Il tutto corredato da nuovi verbali di interrogatorio e da due nuovi pizzini in uno dei quali, oltre a quello di Marcello Dell’Utri, compare anche il nome di Berlusconi. "Berlusconi-Ciancimino – Marcello Dell’Utri Milano truffa e bancarotta.  Ciancimino-Alamia – Dell’Utri Alberto".
     Eccolo uno dei nuovi "pizzini" consegnati da Massimo Ciancimino ai pm della Dda di Palermo Antonio Ingroia e Nino Di Matteo e depositati oggi al processo d’appello contro Marcello Dell’Utri…”
     

    Ora, è assolutamente acclarato che in questo inquietante pizzino , il documento “Y”, così come nell’altro altrettanto inquietante, il documento “X”,  il nome “Berlusconi” compare grazie ad un lavoro di collage, di copia-incolla fatto col riporto.
     
    Esattamente come il nome “De Gennaro” che è costato tanto caro alla nostra icòna dell’antimafia.
     
    Invece, come è chiaro, fotomontare il nome “Berlusconi”, non costa nulla, è assolutamente gratis.
     
    Eppure che sia un’estrapolazione in stile Photoshop, non lo dico soltanto io, ma lo hanno detto proprio i periti nella loro relazione, che è a mani dei pubblici ministeri ormai da mesi.
     
    Ecco qua:

    COMPARAZIONE

    E allora: che significa la frase:le coincidenze strutturali/proporzionali dei predetti tracciati grafici, entrambi esaminati in fotocopia, consentono di esprimere un giudizio di riconducibilità degli stessi da un unico originale” ?
     
    Molto semplice. Significa che c’era un originale, dal contesto ovviamente diverso,  e che qualcuno ha trasferito da quello le scritte“Berlusconi-Ciancimino”, e “Milano truffa e bancarotta”, col copia-incolla,  su quei due nuovi documenti ricomposti, fotocopiati, e consegnati da Massimo Ciancimino nei palazzi di Giustizia.
     
    Esattamente come è accaduto con il documento dove era presente la parola “De Gennaro” e con la sua “ricomposizione” considerata una calunnia aggravata.
     
    Invece, evidentemente, il nome “Berlusconi” fa si che non si possa parlare di calunnia, ma solo di lavoretto ben fatto.
     
    E c’è ancora un ultimo fatto,  che rende il quadro ancora più interessante.
     
    Nel documento “x” compare una scritta più completa, diciamo così, meno “ritagliata”, e vale a dire: “Berlusconi-Ciancimino (l’Espresso del 2-1-1989”, rispetto al documento “Y” dove la stessa scritta compare monca della parte (l’Espresso del 2-1-1989”.
     
    Ora, la cosa strana è che la fotocopia meno ritagliata risulta, nella perizia, prodotta con carta recente (2004-2009), mentre quella più ritagliata, è prodotta su carta molto vecchia (1987-1992).
     
    Il che significa che se il documento Y fosse stato realizzato estrapolando il contenuto dal documento X (che sia avvenuto il contrario, è impossibile, in quanto sul documento X il testo, come abbiamo visto,  è più esteso), allora saremmo di nuovo di fronte, come è già accaduto, ad una fotocopia realizzata da non più di 5-6 anni, ma su carta di vent’anni fa.
     
    E tutto questo, mentre al Procuratore di Palermo, non  risultano altri documenti “falsificati”.
     
    enrix

     
    • anonimo 22:47 on 23 April 2011 Permalink | Rispondi

      Se volessero l'avrebbero già smascherato da quel dì, ma il loro teorema rimane quello di "mascariare" Berlusconi e quindi non si fanno perizie sui "pizzini" malamente fotocopiati.
      Ciancimino ha commesso "un terribile errore": talmente si riteneva intoccabile che ha pensato bene di inserire l'amico di Violante e Caselli non ricordando che "chi tocca i fili muore"
      Maria

    • anonimo 12:35 on 15 May 2011 Permalink | Rispondi

      SEMPLICEMENTE   E S E M P L A R E !!

  • Avatar di enrix

    enrix 09:41 on 10 January 2011 Permalink | Rispondi
    Tags: antonio esposito, arnaldo la barbera, francesco tumino, , , , mafia, , , ,   

    Artificieri ed artifici

    cassazione
     

    Nei giorni scorsi hanno avuto una certa risonanza  alcune presunte (e dico presunte perché pare che, ad esempio, il PM Tescaroli abbia espresso alcune perplessità sulla fedeltà dei rendiconti giornalistici) dichiarazioni del procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso, il quale, secondo gli organi di stampa, di fronte alla lapide di Piersanti Mattarella, avrebbe dichiarato che sul fallito attentato dell’Addaura nei confronti di Giovanni Falcone, “uomini dello Stato  frenarono la verità”.
     

    Continua poi il capo della Dna: “ci sono stati processi nei confronti di artificieri ed altre persone che certamente non hanno contribuito all’accertamento della verità”.

    E qui, cominciano le perplessità.

    Quale sarà il soggetto di questa frase sibillina?
    Chi non avrebbe contribuito all’accertamento della verità?  
    Gli artificieri e le altre persone processate, o i processi a loro carico?

    Alcune testate giornalistiche, paiono non avere dubbi: i soggetti sono l’artificiere e le altre persone.
    Altre invece, sono certe del contrario: Grasso si riferisce ai processi (e quindi, agli organi giudiziari inquirenti).

    Ma.

    Ciò che pare senz'altro evidente, è il riferimento di Grasso al processo di cui è stato protagonista Francesco Tumino, l’artificiere che ha fatto brillare l’ordigno nella villa a mare del giudice Falcone.

    Ma a seguito delle dichiarazioni di Grasso,  proprio sul maresciallo Tumino, che poi verrà utilizzato come "uncino" per tirare in ballo un altro ufficiale dei carabinieri, e cioè il Gen. Mario Mori, interviene su “Il Mattino” Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che nel 2004 ha rinviato alla corte d’assise d’appello di Catania la sentenza che assolveva Nino Madonia, Enzo e Angelo Galatolo per il fallito attentato all’Addaura.

    In un’intervista dal titolo Il Giudice: “Due i misteri insoluti sul ruolo degli uomini dello Stato, pubblicata sul quotidiano a pag. 11 il 7 gennaio, il Dott. Esposito ci espone, per l’appunto, quelli che secondo lui sono due misteri.

    Mistero n°1:L’artificiere Tumino – racconta il giudice Esposito a ‘Il Mattino’ – che avrebbe dovuto disinnescare la bomba all’Addaura giunse con quasi quattro ore dalla richiesta di intervento. Operò sul posto – continua Esposito – e danneggiò fortemente il comando di attivazione della carica esplosiva. Fu sottoposto a procedimento penale per falso ideologico e false dichiarazioni al pm, patteggiò la pena e rimase in servizio nei carabinieri per ricomparire in via D’Amelio dopo l’attentato a Borsellino”.

    Mistero n°2:E’ rimasto incomprensibile il motivo per cui il colonnello Mori dichiarò all’autorità giudiziaria: ‘…un consistente numero di chili di esplosivo messo lì senza alcuna possibilità di deflagrare era una minaccia molto relativa… io ho pensato a un tentativo intimidatorio più che ad un attentato mirato ad annientare Giovanni Falcone”. Viceversa le perizie diedero la certezza – conclude Esposito – che il congegno era pronto ad esplodere non appena avesse ricevuto l’impulso e che l’esplosione avrebbe avuto un esito mortale nel raggio di 60 metri”.
     
    Ed ecco qui il Segugio pronto a risolvere i due misteri al nostro Giudice.

    Il primo non è un mistero: purtroppo è invece, uno strafalcione.

    Intanto l’artificiere Tumino (il quale, tra l’altro, è deceduto nel 2006 ed è quindi impossibilitato a difendersi da eventuali falsità dette sul suo conto) arrivò in ritardo perché non era il ROS dei carabinieri preposto alle indagini, ma la Polizia Di Stato. 
    Tumino fu chiesto “in prestito” al ROS come ultimo ripiego, dopo una frenetica ricerca degli altri artificieri di turno (quindi preposti) che per varie ragioni, quella mattina, dette esito negativo.

    Sull’aspetto tecnico poi riguardante l’attività di Tumino, sarebbe molto interessante approfondire, ma lo faremo magari in seguito, perché si tratta di considerazioni molto lunghe e che meritano un capitolo dedicato.

    E veniamo ora allo strafalcione.

    Dunque Esposito si domanda come mai Tumino “Fu sottoposto a procedimento penale per falso ideologico e false dichiarazioni al pm, patteggiò la pena e rimase in servizio nei carabinieri per ricomparire in via D’Amelio dopo l’attentato a Borsellino

    E’ oltremodo strano, che Esposito non sappia che invece i fatti non stanno assolutamente come dice lui.

    Invece stanno così:
    Il processo a Tumino per falso ideologico e false dichiarazioni al pm vide la sua prima udienza il 19 settembre 1993.
    L’attentato di Via D’Amelio fu esattamente 1 anno e 2 mesi prima.
    La presenza di Tumino in Via D’Amelio, era rituale e doverosa, poichè era l’esperto di esplosivi in quota al ROS a Palermo.
    Subito dopo il patteggiamento, fu sospeso dall’arma dei carabinieri.

    Questi dati sono confermati anche dall’ottimo Salvatore Parlagreco, uno dei rarissimi giornalisti che prima di scrivere si documenta e non ha per nulla l’abitudine di “passare parole” scientemente infarcite di invenzioni e di omissioni.

    Fra l’altro, proprio leggendo Parlagreco, si scopre una cosa molto interessante: a comunicare per iscritto all’autorità giudiziaria che la versione dei fatti fornita da Tumino sarebbe stata non veritiera (ragione per cui oggi si insinua che l’artificiere avrebbe operato per la parte oscura di quello che Travaglio ed altri chiamano “il doppio Stato”),  sarebbe stato proprio quell’Arnaldo La Barbera che oggi, anche a seguito delle dichiarazioni del più televisivo fra tutti i supertestimoni (indovinate chi), si insinua essere stato uno dei rappresentanti di punta, in Palermo, di quella  parte oscura di quello che Travaglio ed altri chiamano “il doppio Stato”.

    Si tratta quindi di uno di quei tipici cortocircuiti che avvengono nel paese dove il passatempo preferito pare essere quello di fare insinuazioni alla cazzo.

    Ma torniamo al nostro mistero:  stavamo parlando di Antonio Esposito, Il quale ha dichiarato  a “Il mattino” che Tumino “patteggiò la pena e rimase in servizio nei carabinieri per ricomparire in via D’Amelio dopo l’attentato a Borsellino”, quando inveceTumino nel 92 fece il suo dovere in Via D’Amelio, nel 93 fu indagato, incriminato e patteggiò la pena, e quindi fu subito sospeso dall’Arma.

    E questo è uno dei magistrati che si occuparono degli attentati ai nostri eroi di Stato.  In cassazione.
    Ed anche in relazione ai comportamenti di Tumino, quest’uomo, con queste idee chiarissime, giudicò.

    Siccome  accertare la verità sulle stragi spetta ai magistrati, a volte abbiamo, chissà perché, come la sensazione di intuire perchè campa cavallo che l’erba cresce.

    Ma veniamo al mistero n°2.
    Dice Esposito: “E’ rimasto incomprensibile il motivo per cui il colonnello Mori dichiarò all’autorità giudiziaria: ‘…un consistente numero di chili di esplosivo messo lì senza alcuna possibilità di deflagrare era una minaccia molto relativa… io ho pensato a un tentativo intimidatorio più che ad un attentato mirato ad annientare Giovanni Falcone”. Viceversa le perizie diedero la   che il congegno era pronto ad esplodere non appena avesse ricevuto l’impulso e che l’esplosione avrebbe avuto un esito mortale nel raggio di 60 metri

    La spiegazione a questo mistero è estremamente semplice:  le perizie sono state approntate e pubblicate in data successiva a quella in cui Mori (che tra l’altro, come ho già detto, non era preposto all’inchiesta perché questa era di competenza della Polizia di Stato, quindi ciò che pensava lo pensava a titolo personale, e non come investigatore incaricato)  aveva “pensato a un tentativo intimidatorio”.

    Elementare, Watson.

    Come si può ben vedere, i due misteri di Esposito erano di facile risoluzione.

    Ma ce ne sarebbe un terzo, di mistero, forse un po’ più complesso, che mi permetto di postulare io.

    Per calarci in questo mistero, occorre andare proprio alla sentenza della Cassazione n. 40799 del 19 ottobre 2004, quella di Esposito.

    La Cassazione cita tre testimonianze DIBATTIMENTALI, di Sica, Mori e Misiani.

    Ecco, in ordine, cosa riferisce la sentenza:

    Il TESTE Sica Domenico, (Alto Commissario Antimafia), aveva dichiarato IN DIBATTIMENTO: “le pile,utilizzate per confezionare l’ordigno, erano scariche” e “mancava un oggettino per produrre l’esplosione”;
    Il TESTE Misiani Francesco, (magistrato addetto all’Ufficio dell’”Alto Commissario”), aveva osservato: “il dubbio era che il meccanismo per farla esplodere quella sera non ci fosse o che era fatto in modo tale di non farlo innescare”…. “Le modalità erano tali come se si volesse far scoprire preventivamente il fatto, della borsa posta lì, di fronte o verso la casa dell’abitazione di Falcone”;
    Il TESTE Mori Mario, (Comandante il Raggrupp. operativo speciale: Ros), aveva espresso perplessità in ordine alla effettiva funzionalità del telecomando affermando “un consistente numero di Kg. di esplosivo messi lì senza alcuna possibilità di deflagrare era una minaccia molto relativa “….. “io ho pensato ad un tentativo intimidatorio più che ad un tentativo assolutamente mirato ad annientare Giovanni Falcone”.

    E quindi conclude la sentenza:

    “Resta il dato sconcertante costituito dalla circostanza che autorevoli personaggi pubblici investiti di alte cariche e di elevate responsabilità,si siano lasciati andare a così imprudenti dichiarazioni le quali hanno finito per contribuire a fornire lo spunto ai molteplici nemici e detrattori del giudice di inventare la tesi delegittimante del falso o simulato attentato, avendo i vertici di Cosa nostra addirittura impartito l’ordine agli uomini dell’organizzazione di divulgare la falsa e calunniosa notizia che l’attentato «se l’era fatto da solo”.

    Allora, cerchiamo di capire bene.

    Il processo in Corte d’Assise, è stato celebrato alla fine degli anni 90. Tra il dicembre del 98 ed il 2000.
    La sentenza è del 2000.
    Quindi, quelle testimonianze risalgono a quell’epoca.
    Sica e Misiani, deposero il 25 ottobre 1999.  Mori il 7 febbraio 2000.

    Che significa ciò?

    Significa che Sica, Misiani e Mori, oltre 10 anni dopo l’attentato, in Tribunale, possono avere espresso opinioni, pur errate, che si erano formate sull’accaduto, alcune delle quali di natura strettamente personale. O possono avere riferito informazioni tecniche errate che avevano assunto all’epoca. In dibattimento.
     
    Nello specifico proprio Mori dice che aveva “pensato” ad un tentativo ecc…ecc…

    Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica, il 24 maggio 1992,   riassumeva  i fatti dei mesi precedenti riguardanti la vita di Giovanni Falcone, scrivendo, fra l’altro: “La mafia sistema 50 chili di tritolo sotto la sua casa all’ Addaura e nessuno crede all’ attentato. C’ è chi dice (a Palermo, a Roma): se l’ è preparato da solo.

    In buona sostanza, quando la Cassazione parla della “tesi delegittimante del falso o simulato attentato, avendo i vertici di Cosa nostra addirittura impartito l’ordine agli uomini dell’organizzazione di divulgare la falsa e calunniosa notizia che l’attentato «se l’era fatto da solo “, parla di una cosa del 90-91.

    Come possono quelle tre testimonianze avvenute 10 ANNI dopo, avere “finito per contribuire a fornire lo spunto ai molteplici nemici e detrattori del giudice di inventare quella tesi” DIFFUSA 10 ANNI PRIMA?

    Ecco un vero mistero che il Giudice della Cassazione dovrebbe aiutarci a chiarire.

    Anche perchè, se vogliamo fare proprio i nomi ed i cognomi di coloro che insinuavano di un falso attentato o di un auto-attentato, non spunta certo fuori Mori, ma semmai spuntano fuori, guarda caso, alcuni suoi tipici detrattori.

    Per quanto riguarda poi la testimonianza di Mori nello specifico, nella stessa si legge di una “perplessità in ordine alla effettiva funzionalità del telecomando”.
    Io non sono per il momento riuscito a risalire a come e quando Mori parlasse di perplessità sul funzionamento del telecomando, ed in quale contesto egli abbia detto questa cosa.

    So però che Mori in udienza, il 7 febbraio 2000, affermò, a proposito del primo vertice delle Autorità dell’Antimafia, tenuto la notte stessa del fallito attentato: “In quella sede non fu messa in dubbio la funzionalità del sistema.” (Presente anche e soprattutto l’artificiere Tumino, a relazionare).

    Inoltre so che cosa ha detto il pentito Fontana: “Nino Madonia fece segnale a tutti di rientrare perché, come apprendemmo poi, era stata notata la presenza della polizia proprio sugli scogli, nei pressi del borsone. Alla vista degli agenti Angelo Galatolo si sarebbe tuffato in mare con il telecomando che fu quindi INUTILIZZABILE per l’innesco dell’esplosivo.

    Direi di andarci piano quindi, prima di dire che Mori abbia detto in qualche sede anche solo delle sciocchezze, sull’attentato dell’Addaura, e che invece è il giudizio dato su di lui dalla Cassazione, che, come ho detto, sarebbe interessante chiarire.

    Enrix

     
    • anonimo 20:11 on 10 January 2011 Permalink | Rispondi

      Ma ho detto qualcosa di sbagliato nel mio commento al post precedente? :(

    • anonimo 22:31 on 10 January 2011 Permalink | Rispondi

      "Come possono quelle tre testimonianze avvenute 10 ANNI dopo, avere “finito per contribuire a fornire lo spunto ai molteplici nemici e detrattori del giudice di inventare quella tesi” DIFFUSA 10 ANNI PRIMA?"
      E' sempre la stessa storia, caro Enrix, questi "signori" sono convinti di poter violare il principio di causalita'…se vieni sul blog del pensatore c'e' il nostro amico Nick che adesso sostiene che l'informazione puo' superare la velocita' della luce nel vuoto: probabilmente le parole di Mori sono tornate indietro nel tempo a "fornire lo spunto". (Tutto e' possibile, ma la vedo alquanto improbabile!) :D

    • enrix007 23:37 on 10 January 2011 Permalink | Rispondi

      Anonimo, io non so che cosa hai detto prima, perchè sei anonimo.

      Di sbagliato non avrai detto nulla, perchè qui è tutto a posto.

      Se sei l'anonimo che mi ha posto la domanda su micromega, ti chiedo scusa ma ho visto solo oggi il commento perchè sono stato via dal blog, comunque non ho seguito quella vicenda e non leggo micromega abitualmente.

      Se vuoi posso dare un'occhiata, però.

    • enrix007 23:51 on 10 January 2011 Permalink | Rispondi

      Non riesco ad entrare nel blog di Caruso, perchè è troppo grossa la pagina e mi blocca tutto.

      Ma posso immaginare cosa farnetica l'imbecille.

      Comunque c'è ben poco  da farneticare.

      La sentenza prende spunto da dichiarazioni recenti per sostenere che possono avere influenzato un pettegolezzo di 10-11 anni più vecchio.

      Se queste affermazioni, oltre che "in dibattimento", e cioè durante il processo (e che sono dibattimentali lo dice chiaramente la sentenza) avessero potuto per avventura essere state enunciate da qualcuno dei tre testi anche all'epoca, così da fare da innesco, il giudice dovrebbe chiarire e fondare il suo parere su prove acquisite che le cose stanno così, perchè un giudice non può trarre conclusioni sulla base di ipotesi fantasiose o di illazioni, tipo quelle di  Nick.
      Questo lo può fare giustappunto solo un medaiolo professionista.

      Il quale se volesse, per l'ennesima volta, dimostrare di non essere un merdaiolo, dovrebbe tirare fuori un documento, anche uno soltanto, che provi che almeno uno di quei tre avesse affermato qualcosa di depistantte PRIMA che il depistaggio divenisse, nel 90, pettegolezzo mafioso, politico e giornalistico, cotto e mangiato.

      Ma quel documento non esiste, perchè se esisteva qualcuno di riservato e che non parlava assolutamente a vanvera e fuori luogo di quei fatti, senza prima avere delle certezze, erano proprio quei tre signori lì.

      Per questo ciò che è scritto in sentenza non può essere oggettivamente condivisibile, perchè cronologicamente incongruente.

    • enrix007 00:02 on 11 January 2011 Permalink | Rispondi

      Cioè, le chiacchiere stanno a zero.

      La corte parla di "imprudenti dichiarazioni" con riferimento alle sue citazioni, quelle che ho trascritto, che sono citazioni di "TESTI" rese nel "dibattimento", e cioè dal 98 in poi.

      Che vengano fuori dunque, se esistono, le anticipazioni di queste "imprudenti dichiarazioni" di Mori, Sica e Misiani, fatte dagli stessi tre testi nell'89-90-91.

      Allora ne riparliamo.

    • anonimo 09:54 on 11 January 2011 Permalink | Rispondi

      Visita mattutina al Segugio e la penna si mette a scrivere da sola!!!

      C'era una volta un blogger di nome Cesare e un suo amico di nome Nick. Cesare aveva una malattia, non poteva sentire mentovare il nome Fisica. Questa parola aveva su di lui lo stesso effetto che ha sul toro il drappo rosso. Per anni ruppero le palle a tutti parlando di relatività e del sacro principio che niente  supera c. Poi Cesare sembrò guarire, andò in parabola calante, come nelle psicosi maniaco-depressive. Ma, improvvisamente e inaspettatamente per Cesare, quell'angioletto di Nick si trasforma in burlone e gli tira un tiro mancino. Nomina la parola proibita e Cesaruccio ci casca con tutte e quattro le zampe, nonostante che Sympatros, uomo buono e benefico, l'abbia messo in guardia. Ha visto il drappo rosso, non c'è niente da fare! La burla riesce in pieno e i suoi effetti rimarranno per sempre nella memoria di massa del povero cesaruccio, il quale è così ingenuo che invita al banchetto quel luminare risolutore di misteri, il famoso Segugio.

      …………………………………………………………………………………………..
      "Come possono quelle tre testimonianze avvenute 10 ANNI dopo, avere “finito per contribuire a fornire lo spunto ai molteplici nemici e detrattori del giudice di inventare quella tesi” DIFFUSA 10 ANNI PRIMA?"
      E' sempre la stessa storia, caro Enrix, questi "signori" sono convinti di poter violare il principio di causalita'…se vieni sul blog del pensatore c'e' il nostro amico Nick che adesso sostiene che l'informazione puo' superare la velocita' della luce nel vuoto: probabilmente le parole di Mori sono tornate indietro nel tempo a "fornire lo spunto". (Tutto e' possibile, ma la vedo alquanto improbabile!) :D

      E meno male che poi dirà che aveva capito lo scherzo!!!

      PER IL SEGUGIO————-

      1 Mori non l'ha detto mai prima…. l'ha detto solo nel processo
      2 Mori l'ha detto pure prima, ma non si trova scritto da nessuna parte
      3 Mori l'ha detto pure prima e si trova da qualche parte che il Segugio non sa

      Siccome le ipotesi in campo sono almeno tre, il Segugio dovrebbe deporre la sicumera di risolutore di misteri e più umilmente dovrebbe parlare di una possibile ipotesi…. ma allora non sarebbe più il Segugio

    • anonimo 10:02 on 11 January 2011 Permalink | Rispondi

      Segugio, siccome tu e quell'altro avete allegramente ironizzato su Nick, poverino in sua assenza, penso che il mio post qui sopra dovresti proprio pubblicarlo!!

    • anonimo 22:37 on 11 January 2011 Permalink | Rispondi

      Sì sono l'anonimo di Micromega, anche se io la vicenda l'ho seguita sul blog di Di Pietro e quello del Fatto Quotidiano. Beh la mia era solo una curiosità, se non hai seguito non è importante. :)

      Ciao e grazie per quello che fai.

      Anonimo #1

      PS: già Luttazzi a suo tempo aveva sfidato le leggi della causalità… retrodatando le date di pubblicazione dei post sul suo blog! :D

    • enrix007 15:47 on 18 January 2011 Permalink | Rispondi

      Anonimo 7, cioè Sympatros.

      Io invece penso di no. E qui comando io.

    • anonimo 13:30 on 28 March 2011 Permalink | Rispondi

      Enrico, se leggi "Per fatti di mafia" di Misiani, libro scritto nel 1991 (purtroppo non ce l'ho sottomano, ma conto di ritrovarlo) vedrai che c'è una suggestiva ricostruzione dell'Addaura che lascia intendere che Falcone l'attentato potrebbe esserselo fatto da solo.
      Detto questo, vorrei farti riflettere sul fatto che, per i ruoli che ricoprivano, Sica, Misiani e Mori erano certamente fra le fonti di diversi (importanti) giornalisti di giudiziaria e che potevano tranquillamente diffondere notizie erronee (non false, sebbene il confine sia labile, ma erronee).
      Come sai, non sono completamente sprovveduto, ma per anni, leggendo i giornali, sono rimasto convinto che quei candelotti non potessero esplodere e che si fosse trattato solo di un "avvertimento".
      Sebastiano Gulisano

    • enrix007 02:06 on 29 March 2011 Permalink | Rispondi

      Caro Sebastiano, condivido certamente in toto, e anch'io ho avuto per anni lo stesso pensiero.
      Tuttavia:
      1) Non sono queste le considerazioni del nostro magistrato. Le considerazioni del magistrato si basano su fatti cronologiamente incongruenti.
      2) Il giudice in ogni caso non poteva e non può fondare il proprio giudizio su supposizioni di ciò che può essere avvenuto, ma solo su fatti.
      E fatti veri e verosimili, non cronologicamente incongruenti.

  • Avatar di enrix

    enrix 12:13 on 14 November 2010 Permalink | Rispondi
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    Pubblici Ministeri: potere e informazione

     

    CLICCA QUI SOTTO PER VEDERE IL VIDEO:

     

    Pubblici Ministeri: potere e informazione

     
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    enrix 16:14 on 2 March 2010 Permalink | Rispondi
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    NUOVO CINEMA CIANCIMINO 

    Nuovo cinema Ciancimino

    Non solo la fantomatica trattativa tra Stato e mafia, il figlio di don Vito dice la sua anche su Ustica, Gladio e caso Moro. Ecco il diario del nuovo vate d’Italia

    di Chiara Rizzo

    Il titolo è prosopopeico: Nel nome del padre. Il sottotitolo non da meno: “Sono ventitrè gli interrogatori di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. E una valanga i pizzini che riscrivono la storia dei misteri d’Italia, da Gladio alle stragi del ’92, sino ai politici di oggi. Citati con nome e cognome. Eccoli”. Massimo Ciancimino detto Junior, il figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito, il testimone chiave al processo di Palermo contro il generale Mario Mori per la mancata cattura del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, oggi è diventato il vate dei misteri d’Italia. Non bastavano la riduzione della condanna per riciclaggio e la ribalta televisiva.
    Nel nome del padre è già alla seconda edizione. La prima, tremila copie, è andata esaurita in una sola settimana. Il libro è pubblicato dall’editrice siciliana Novantacento, che edita anche un mensile di cronaca che ha tra i suoi collaboratori fissi il sostituto procuratore Antonio Ingroia, titolare dell’accusa al processo Mori. Il coordinatore editoriale della rivista Claudio Reale spiega a Tempi che la pubblicazione dei verbali di Ciancimino è stata possibile perché gli atti non sono stati segretati. Purtroppo per Junior, verrebbe da aggiungere. Più che una raccolta di verbali, è un divertissement da spiaggia, non fosse che le deposizioni di Junior infiammano da mesi la pletora di cronisti giustizieri e infangano il lavoro di due ufficiali che hanno combattuto la mafia rischiando la vita.
    Secondo Massimo Ciancimino, infatti, il padre don Vito fu contattato nel 1992 da Mori e dall’allora capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno per intavolare una trattativa con Totò Riina e indurlo alla resa. Ma papà Ciancimino sarebbe stato protagonista anche di una seconda trattativa, con i carabinieri da una parte e Provenzano dall’altra, finalizzata alla cattura di Riina, in cambio dell’immunità a Provenzano. Le parole di Massimo smentiscono lo stesso don Vito, che ha sempre raccontato di aver tentato una collaborazione con Mori e De Donno per arrivare alla cattura di Riina, sì, ma di non esservi riuscito. Non vi fu, secondo don Vito, alcuna trattativa: si era tentato di far arrendere Riina, ma le richieste presentate da questi non vennero mai prese in considerazione da Mori che voleva la resa immediata o la cattura; inoltre successivi tentativi di don Vito di collaborare alla cattura di Riina si bloccarono col suo arresto. Poi arriva Massimo e riscrive la storia con i fuochi d’artificio. Il 6 giugno 2008, Massimo rivela ai pubblici ministeri Ingroia, Di Matteo e Gozzo il vero motivo per cui sarebbe finita la latitanza record (43 anni) di Bernardo Provenzano. Racconta che il boss, ricercato dalle polizie di mezzo mondo, visitava regolarmente don Vito, mentre questi era agli arresti domiciliari nella sua casa romana nei pressi di piazza di Spagna a Roma. I pm palermitani per poco non cadono dalle sedie: «Ah, lei lo ha visto… lei disse a suo padre “ma come questo super latitante viene a casa di uno agli arresti domiciliari”?». Risponde Massimo: «Secondo mio padre doveva essere un accordo a monte che garantiva il tutto, perché mio padre mi disse: “Non ti scordare che nel momento in cui vorrà, si consegnerà lui”». Junior si sente incoraggiato e prosegue: «Mio padre mi disse poi una frase che era importante: “Perché un uomo quando non riesce ad andare al bagno… non ha più senso niente”. Era quello che capitava a mio padre, perché non era autonomo. Mio padre, come Provenzano, aveva avuto problemi di prostata e avevano parlato di queste cose, che la vita quando non hai questo tipo di autonomia…». Dunque Binnu, la primula rossa di Cosa Nostra, non finì in galera per la bravura delle forze dell’ordine. No, fu solo questione di pipì.
    La scena madre di Junior, invece, ha al centro il fantomatico papello. Ai pm Massimo lo indica come la prova regina della trattativa Stato-mafia, ma per mesi rinvia la consegna, sostenendo che si trova in un caveau all’estero. Stremati dal tira e molla durato più di un anno, il 23 gennaio 2009 i pm Di Matteo e Ingroia, alla presenza del procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, mettono Junior alle strette. Ingroia: «Noi riteniamo che lei oggi debba indicarci quanto meno il paese, la banca, dove si trova questa cassetta di sicurezza, noi attiveremo tutte le rogatorie…». Nell’austero ufficio della procura accade l’imprevedibile: “Ciancimino singhiozza” riporta il brogliaccio dell’interrogatorio. L’avvocato di Junior, stralunato, interviene: «Perché piangi?». Ingroia incalza: «Se c’è necessità di fare una selezione di documenti privati che non hanno rilievo investigativo, avrà la possibilità di non consegnare queste cose però noi la preghiamo, la invitiamo caldamente, oggi di concludere l’interrogatorio dandoci queste indicazioni…». L’avvocato di Ciancimino: «Scusa ma perché piangi?». E Junior, tra le lacrime: «No, non ve lo indico». Ingroia: «Non ce lo indica…». Junior riprende: «Vi avevo chiesto un minimo di segnali da dire: ne vale la pena…». Passerano altri nove mesi prima che in procura vedano il famoso papello. Veniamo infine alla benedetta trattativa, cuore pulsante delle dichiarazioni di Junior. Massimo ne parla fin dal 7 aprile 2008. Però le versioni che riporta, con il tempo, si arricchiscono di nuovi particolari. All’inizio si limita ad anticipare le date degli incontri tra il padre e i carabinieri al giugno del 1992. Assicura che don Vito si fida di loro. Sostiene che il padre tenta di collaborare con i carabinieri per fare catturare Riina e contatta Provenzano per scoprire dove si nasconda. «Sembra fantapolitica» dice Junior ai pm il 7 aprile 2008. Parole sante. Nelle puntate successive degli interrogatori la vicenda si complica.

    «Un nome l’aveva, mi creda»
    Nel racconto appare anche un misterioso agente dei servizi segreti, che per anni sarebbe stato in contatto con don Vito e che nella trattativa avrebbe detto al sindaco che dietro i carabinieri c’erano due politici, gli allora ministri Nicola Mancino e Virginio Rognoni: «Non lo so se si chiamava Carlo, Franco… un nome l’aveva, mi creda» dice Junior. Davanti al racconto i dubbi non mancano. Ad esempio: dal negoziato Provenzano avrebbe guadagnato l’incolumità, ma cosa ci guadagnava don Vito? Arrestato, rimasto in carcere fino al 1999 e ai domiciliari fino alla morte, Ciancimino senior ha sempre sostenuto la versione di Mori. «Era una versione di comodo» dice Junior, e cerca di tappare le falle della ricostruzione con suggestioni di peso: «Mio padre pensava di essere stato scavalcato nella trattativa. Da Dell’Utri». Insomma. Alla fine nella ricostruzione di Massimo ci sono almeno tre trattative. Una tra i carabinieri, don Vito e Riina. Un’altra tra i carabinieri, il signor Franco, Rognoni e Mancino, don Vito e Provenzano. Un’ultima tra Dell’Utri e Provenzano e non si sa più chi altro. Dopo tutto questo, la domanda sorge spontanea anche nei pm. Chiede Ingroia il 12 dicembre 2008: «Ma allora, se c’era bisogno delle garanzie del signor Franco, che bisogno c’era di fare la trattativa tramite Mori e De Donno, perché suo padre non la faceva direttamente col signor Franco?». Junior ci pensa su: «Perché il signor Franco non l’aveva mai proposto a mio padre… non si è mai fatto portatore dell’arresto di Provenzano e Riina… Lui per mio padre era un trait d’union…». Ma con chi e perché ancora non si è capito. Arrivederci alla prossima puntata di questa tragicommedia.

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     
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    enrix 12:54 on 1 March 2010 Permalink | Rispondi
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    Ecco perchè Travaglio fa quello che si incazza 

    Ecco perchè Travaglio fa quello che si incazza e se ne va, quando in diretta TV gli si tira in ballo Ciuro.


    travaglio incazzato

    Dopo la rissa avvenuta due settimane fa nello studio di Annozero con i giornalisti Porro e Belpietro, Marco Travaglio è agitatissimo, e sta riversando fiumi d’inchiostro in merito alle sue frequentazioni sicule del 2002-2003. E questo inchiostro lo sta impiegando soprattutto per richiamare l’attenzione sulle sue spese di soggiorno nell’hotel e nel residence consigliatigli dal suo amico Pippo Ciuro, nonostante nessuno, né Giuseppe D’Avanzo né altri, abbia mai scritto di credere che Travaglio si sia fatto pagare la vacanza dal mafioso Michele Aiello, e tanto meno che possa averlo fatto cosciente dei veri ruoli del boss della sanità sicula e del suo informatore Pippo Ciuro. Lo stesso Filippo Facci, acerrimo antagonista di Travaglio, ebbe a scrivere: “Io sinceramente penso che D’Avanzo abbia rilanciato un’immensa cazzata: Travaglio secondo me non sospettava minimamente che Pippo Ciuro fosse una talpa, se non una talpa a disposizione di giornalisti tipo lui. Ho conosciuto Travaglio quanto basta per escludere ogni ambiguità a riguardo.”

    Quindi, ad affermare che Aiello ha pagato la vacanza a Travaglio, è stato solo e soltanto Aiello stesso, un uomo condannato per mafia senza tanti sconti.
    Un abituale delinquente dal colletto bianco.

    Perciò  noi, in mancanza di altri riscontri, non gli crediamo e non gli abbiamo mai creduto.

    Mica noi siamo come Travaglio, che prende come oro colato, riportandola, come fosse il verbo, nei suoi articoli, la parola del portapizzini (per sua stessa ammissione) di Provenzano, Massimo Ciancimino, quando ad es. racconta ai PM di Palermo di avere reso disponibili, durante una perquisizione del febbraio 2005, le chiavi della sua cassaforte  e che i carabinieri non le avrebbero utilizzate.

    Ciancimino Junior  infatti (si veda anche il nostro precedente articolo “Quando Fracchia cita Fantozzi”), nel corso di un interrogatorio dinnanzi ai PM Ingroia, Di Matteo e Scarpinato,  ha raccontato che, in merito ad una perquisizione effettuata dai carabinieri nel febbraio 2005 nel suo appartamento di Palermo, ove sarebbe stata presente una cassaforte a muro, (perquisizione avvenuta mentre egli si trovava a Parigi), gli era stato detto che la cassaforte, i carabinieri, “non l’avevano vista”.

    Poi ha rettificato: il suo impiegato Vittorio, presente alla perquisizione, ha detto che la cassaforte “ l’hanno vista” e che lui gli ha pure detto dov’erano le chiavi, perché Ciancimino al telefono gli aveva detto di dargliele, se le volevano, ma la cassaforte non è stata aperta lo stesso.

    Poi ha rettificato: al telefono non era con Vittorio, ma con suo fratello. Ed era stato suo fratello a chiamarlo per avvisarlo della perquisizione (e vedremo poi se Travaglio riporterà la stessa cosa).

    Poi ha rettificato: della cassaforte non ha parlato con suo fratello, ma con il maresciallo dei carabinieri che conduceva la perquisizione, a cui ha chiesto “se hanno bisogno di chiavi di cassaforte e robe varie”.

    Poi ha rettificato: non è sicuro di averne parlato  col maresciallo, della cassaforte, (col maresciallo aveva invece parlato delle chiavi dell’appartamento di Roma), ma è sicuro di averne parlato con Vittorio, il suo impiegato, e di avergli detto che se i carabinieri volevano le chiavi, queste stavano sotto una camicia.

    Poi, ai PM che gli chiedevano di confermare, viste le varie versioni scaturite nel corso della deposizione, se della cassaforte con Vittorio avesse parlato o meno, col suo telefonino da Parigi, mentre la perquisizione era in corso, Ciancimino ha risposto che Vittorio attualmente lavora a Capri su una barca. (e chissenefrega).

    Poi, incalzato, chiarisce: dice che la perquisizione è stata gestita da suo fratello, che era presente. Il quale afferma che i carabinieri “non gli hanno chiesto di casseforti, niente”. Né è sicuro che suo fratello gli abbia detto che i carabinieri avessero visto una cassaforte.

    Poi, essendo comprensibile, per un magistrato, perdere ad un certo punto la pazienza, dopo un eloquente “omissis”, Ciancimino Junior  ha rettificato nuovamente:  della cassaforte ne ha parlato con Vittorio al telefonino, ma soltanto “all’esito della perquisizione”, cioè quando i carabinieri se n’erano già andati, e col suo impiegato ha rilevato soltanto che i carabinieri erano stati “gentili” e “signorili” a non occuparsi della cassaforte. Ma niente offerta di chiavi custodite sotto una camicia, dunque.

    Da questo minuetto di versioni a catena, l’una in contrasto  con l’altra, l’enigmista Marcus Rebus Travaglius, riesce a distillare una versione concentrata, da vendere, naturalmente come verità acclarata, ai suoi fedeli lettori:  un collaboratore di Ciancimino che assiste alla perquisizione, chiama Massimo Ciancimino che in quel momento  era all’estero “ci sono i Carabinieri che perquisiscono” Ciancimino gli dice: se vogliono accedere alla cassaforte gli diamo le istruzioni necessarie per aprirla, neanche a dirglielo questi reagiscono, “non aprite quella cassaforte”, questo è il titolo del film.”

    E nota bene che Travaglio, dalle variopinte dichiarazioni di Ciancimino, riesce a desumere questa certezza,  nonostante non vi siano agli atti riscontri oggettivi, a conferma delle parole di Ciancimino, neppure a riprova del fatto che una cassaforte fosse effettivamente presente, nei muri di quell’appartamento, nel febbraio 2005.

    Ma noi non siamo come lui, noi no. A noi non basta la parola di gente come Aiello o Ciancimino per credere e riportare fatti quanto meno improbabili, senza, perlomeno, invocare il beneficio d’inventario.

    E pertanto abbiamo sempre scritto, così come tutti coloro che hanno commentato quei fatti, Giuseppe D’Avanzo e Filippo Facci compresi, che era del tutto improbabile che Aiello avesse davvero pagato la vacanza a Travaglio, così come riteniamo ancora più improbabile che i carabinieri durante una perquisizione abbiano potuto rigettare la proposta di controllare l’interno di una cassaforte.

    Ciònonostante, Travaglio  ha sempre affermato il contrario, sostenendo che esistono fior di detrattori convinti della sua malafede: “diversi topi di fogna berlusconiani, su giornali, siti internet, blog e in dichiarazioni pubbliche alle agenzie di stampa, hanno continuato per un anno a insinuare o ad affermare che io mi sia fatto pagare le ferie da altri, addirittura da “mafiosi” e che, dunque, io non possa avere le prove di aver pagato.

    Dopodichè, seguono fotocopie di assegni, estratti conto, ecc…ecc…

    Seguono e riseguono, perché il 22 febbraio scorso Travaglio ha ripubblicato sul suo blog tutta la collezione.

    Ma si tratta di una gigantesca “excusatio non petita”, come già ebbe a scrivere Filippo Facci in un suo articolo di qualche mese fa: “Il punto è che Travaglio ha fatto di tutto, di lì in poi, per veicolare la discussione su questa faccenda del pagamento della vacanza – industriandosi su assegni e matrici e cazzate da magistrato che non è, e vorrebbe essere – anziché concentrarsi sul dato pacifico che riguarda le frequentazioni sue e di Ingroia.

    E, come si vede bene, continua a fare di tutto ancora oggi.

    Ma la verità, la vera ragione per cui non si può discutere di Pippo Ciuro con Travaglio, né in televisione, né da alcuna altra parte, senza provocare la censura isterica del giornalista torinese, e quindi i suoi svicolamenti sulla storia del pagamento delle vacanze, è ben altra.

    Marco Travaglio infatti, è oggi uno dei tanti narratori della Ciancimiade, anzi , fra tutti quanti si trova proprio in prima linea, essendo, come è noto, una specie di portavoce del procuratore Ingroia.

    E fra i versetti travaglieschi della Ciancimiade, ci sono ad esempio questi:

    ““…la trattativa che i Carabinieri cominciano nel 1992, dopo la strage di Capaci, secondo Ciancimino è poi proseguita con l’arresto di suo padre e poi con l’arresto di Riina, Provenzano ha continuato a trattare con altri soggetti che non erano più soltanto i Carabinieri. Carabinieri che peraltro secondo l’accusa, quelli del Ros, quelli di cui stiamo parlando, CONTINUARONO A GARANTIRGLI MASSIMA LIBERTÀ DI MOVIMENTO: Provenzano andava, veniva, si spostava, andava a Palermo, a Roma e la certezza che nessuno l’avrebbe mai acchiappato,…

    Ed ecco dove sta la rogna. La rogna sta nel fatto che proprio la vicenda di Pippo Ciuro e delle talpe in procura,  smentisce  tale tesi di Ciancimino e Travaglio, e lo fa svergognando lo stesso Travaglio.

    Già, perché Ciuro, Riolo e Cuffaro, sono stati arrestati e condannati  per avere informato il prestanome di Provenzano Ing. Aiello, e quindi per interposta persona lo stesso Provenzano, proprio delle attività d’indagine che il ROS stava portando avanti per arrivare ad acciuffare il boss latitante. E ad incastrarli con le intercettazioni, è stato proprio il ROS.

    Per la verità c’era sì un uomo del ROS che aiutava, complice di Ciuro,  il clan di Provenzano con le sue soffiate, il maresciallo Riolo. Ma il suo agire non ha nulla a che fare con alcuna trattativa fra stato e mafia: era semplicemente un traditore prezzolato, ed è stato smascherato e consegnato alla giustizia, insieme a Ciuro e a Cuffaro,  dagli uomini del suo stesso reparto: il ROS.

    I dettagli sono noti (ma non certamente grazie a Travaglio, ma bensì grazie al Documentario “Doppio Gioco” trasmesso da RAITRE e di cui QUI ho realizzato la trascrizione integrale); vediamoli brevemente.

    Nella primavera del 2001 gli uomini del ROS piazzano microspie e telecamere nella casa del Dott. Guttadauro, aiuto-primario all’ospedale civico, nonché reggente della famiglia mafiosa di Brancaccio.

    Guttadauro è il cognato di Matteo Messina Denaro (attuale n°1 di Cosa Nostra, latitante), nonché l’intermediario che si occupa, per conto di Bernardo Provenzano, delle vendite di immobili di famiglia: ”Mi fanno sapere – scrisse Guttadauro a Provenzano in un pizzino rinvenuto nel covo del padrino l’11 aprile del 2006 – che servono le chiavi per potere far sì che un probabile acquirente possa visitarla…”.

    Sorvegliare Guttadauro con le cimici, può dunque essere una mossa importante per arrivare sia a Denaro che a Provenzano.

    Ma, alla fine del mese di giugno, il boss Guttadauro bonifica l’appartamento, e scopre la microspia dei ROS.

    Fra coloro che hanno messo in allarme il mafioso, ci sono senz’altro Mimmo Miceli, pupillo dell’Udc del leader indiscusso Totò Cuffaro, destinato a diventare assessore alla Sanità della giunta comunale di Diego Cammarata, e Salvatore Aragona, alle spalle una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, un presente da imprenditore con la passione della politica, intercettato dalle cimici nell’appartamento di Guttadauro: “«La Procura sta intercettando, la Procura sta indagando». E cita  la sua fonte: «Totò».

    Per tali atti di favoreggiamento, scatteranno le manette, e Aragona inizierà a collaborare, coinvolgendo Cuffaro.

    All’inizio del 2003, il ROS segue un’altra pista, riuscendo ad inserire le cimici sulle automobili del mafioso Nicolò Eucaliptus e dei suoi famigliari. Per gli ufficiali del ROS “Nicolò Eucaliptus è uno degli uomini che hanno fatto la storia di Cosa Nostra”, ed è un indagato importante perché è di Bagheria, territorio di Provenzano: “Stiamo lavorando a Bagheria perché siamo convinti di trovare non solo uno degli astratti contesti di alleanza di cui gode Bernardo Provenzano, ma riteniamo probabile di poterci  fisicamente imbattere  in lui, nascosto qui, protetto dalla forza mafiosa che la famiglia mafiosa di Bagheria esercita sul proprio territorio naturale.” (Capitano G. Sozzo).

    Ed infatti il 20 gennaio 2003, i ROS captano Nicolò Eucaliptus mentre racconta dei precedenti soggiorni dello “zio” a Bagheria, ma soprattutto preannuncia al figlio importanti novità.

    Nella conversazione intercettata si sente l’Eucaliptus che comunica al figlio Salvatore che gli era stato chiesto di “tenere”, quindi di curare la latitanza di Bernardo Provenzano.

    Nicolò Eucaliptus: …mi domandava se c’è un appartamento libero.

    Il boss dunque si stava avvicinando a Bagheria. Siamo alle soglie del 2003. A quelli del ROS quindi non restava che aspettarlo.

    Il  31 gennaio 2003, però, succede qualcosa di inaspettato.

    Il boss di Bagheria si reca in visita presso gli uffici dell’ ingegnere Michele Aiello, magnate della sanità privata siciliana, e ripete le visite molte volte nei giorni successivi, sino all’11 febbraio. Da quella ultima visita, gli Eucaliptus, padre e figlio, cessano di parlare dentro la Opel  intercettata.

    Qualche tempo dopo, la Opel viene addirittura bonificata, e la microspia, rimossa.

    Dei contatti fra gli Eucaliptus e Michele Aiello i carabinieri si resero conto in quanto essi stavano già sorvegliando da qualche tempo anche l’ingegnere.  Infatti, in quei mesi, i carabinieri del Nucleo Operativo di Palermo indagavano sulle informazioni fornite dal pentito di mafia Nino Giuffrè, il quale aveva rivelato ai magistrati della Procura che  Michele Aiello, era un prestanome del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, la primula rossa ricercata dal 1963.

    Ma Aiello è protetto da un gruppo di traditori dello stato, che lo tengono informato di tutto quanto si muove, in procura, nella sua direzione.

    Infatti è l’11 di giugno del 2003, quando il ROS intercetta una telefonata rivelatrice fra l’Ing. Aiello e Pippo Ciuro, un Maresciallo della Finanza in servizio, in quel periodo, alla DIA di Palermo, uomo in cui la magistratura, ed Ingroia in particolare, aveva sempre riposto la massima fiducia.

    MICHELE AIELLO: Pronto?

    PIPPO CIURO:  Sono a Roma…30 secondi…l’hai ricevuto il fax ieri?

    MICHELE AIELLO: Si l’ho ricevuto, e domani mattina aspetto conferma se c’è.

    PIPPO CIURO:  eh…

    MICHELE AIELLO: Poi domani o dopodomani ci vado

    PIPPO CIURO:  Vabbè? Tutto a posto?

    MICHELE AIELLO: Tutto benissimo.

    PIPPO CIURO:  dicevo…sono a Roma. C’è uno che parla male di te. Quindi ora…

    MICHELE AIELLO: Ho capito.

    PIPPO CIURO:  eh…ora gliele do sul muso..eh eh…

    MICHELE AIELLO: Ho capito.

    PIPPO CIURO:  ma dico…con tanto da fare che avete a Bagheria… ma poi…solo Bagheria qui conoscono, in tutta la Sicilia? ..Senti. Ti dice niente, tale “Picciotto”?

    Picciotto, guarda caso, è il nome di un testimone che ha preannunciato importanti rivelazioni sui soldi della mafia di Bagheria.

    PIPPO CIURO:  …..no…che dice che questo sa alcune cose di lì.

    MICHELE AIELLO: Mi fa piacere.

    PIPPO CIURO:  …cose…no, no…scherzavo con te…no, non era per te.

    MICHELE AIELLO: Addirittura. Ho capito…

    PIPPO CIURO:  Vabbè…poi  ti  faccio sapere. Ciao, grazie…

    MICHELE AIELLO: Ciao.


    E’ un fatto di straordinaria gravità. A tale proposito, il Col. Sottili del ROS avrà a dichiarare:
    Se c’è una fuga di notizie da parte degli organi investigativi, è chiaro che è inutile che noi continuiamo a lavorare, alla ricerca di Provenzano, alla ricerca di pericolosi latitanti, perché non arriveremo mai a nulla.”

    Di lì in poi il ROS svolgerà una raffinata attività investigativa, che porterà ad individuare una rete telefonica segreta utilizzata dai mafiosi, e che si concluderà con l’arresto di Aiello e delle sue talpe nell’ottobre del 2003, e con le loro successive condanne, insieme con quella del politico Totò Cuffaro, anch’egli incastrato dalle stesse indagini.

    Ordunque, chi conosce questi fatti e ne prende atto, non può che rimanere perplesso, molto perplesso, quando oggi legge un giornalista mentre sottoscrive le dichiarazioni di Ciancimino, quando questi afferma che i Carabinieri del ROS in quel periodo erano impegnati a garantire la massima libertà di movimento a Provenzano. E le perplessità si incrudiscono se si pensa che lo stesso giornalista in quello stesso periodo trascorreva giorni felici, in costume da bagno, con una  talpa vera, e non inventata, del clan provenzaniano.

    E certo il quadro non migliora, se si pensa che Travaglio nei suoi libri e nei suoi articoli, laddove è durissimo nei confronti dei carabinieri del ROS, è stato invece piuttosto tenero con il Sig. Ciuro:

    «I due marescialli (Ciuro e Riolo, ndr) sono talpine. Manca la talpona»

    «Ciuro si limitò a qualche intrusione nel computer della Procura e a qualche millanteria per farsi bello con il ricco imprenditore. Il grosso lo fece Totò»

    «…LE ACCUSE NON STANNO IN PIEDI. Infatti il maresciallo Giuseppe Ciuro, arrestato nel 2003 per concorso esterno e tenuto in galera per due anni, è stato poi assolto da quell’accusa e condannato per favoreggiamento (REATO CHE NON GIUSTIFICA QUELLA LUNGA DETENZIONE). »

    Ma non solo.

    Le responsabilità di Ciuro, a Travaglio, servirono persino, tanto per cambiare, per prendersela con il procuratore generale Grasso:   «Assodato il ruolo di talpe di Ciuro e Riolo, perché gli inquirenti li hanno lasciati circolare indisturbati per mesi negli uffici della Procura?». E poi: «Perché non si sono informati subito i pm più vicini a Ciuro per limitare i danni che le sue soffiate potevano arrecare alle loro indagini?».

    Al che, il procuratore Pietro Grasso scriverà al Corriere della Sera accusando Travaglio e Lodato (coautore del libro “Gli intoccabili”) di fare «disinformazione scientificamente organizzata».  E la replica di Travaglio sarà naturalmente, molto dura: “Se il dottor Grasso ha qualcosa da smentire, lo faccia. Se si ritiene diffamato, ci quereli, così avremo la possibilità di difenderci dalle sue generiche quanto oltraggiose affermazioni. Come lui ben sa, non ci mancano i testimoni pronti a confermare quanto abbiamo scritto  … Testimoni che potrebbero pure raccontare la curiosa gestione del caso Cuffaro, «salvato» (contro il parere di quasi tutta la Dda) dall’ accusa più grave di concorso esterno, accusa per la quale suoi presunti complici sospettati di comportamenti infinitamente più lievi sono stati arrestati, tenuti in galera per un anno e mezzo e alla fine (già in un caso) assolti. Testimoni che potrebbero raccontare che fine abbia fatto il «metro Falcone», tutto basato sullo scambio costante delle informazioni fra i membri del pool antimafia, nei sei anni del procuratore Grasso, continuamente contestato da numerosi pm della Dda tagliati fuori da qualunque notizia sulle indagini di mafia-politica e costretti ad apprenderle dai giornali o dai libri

    Peccato che oggi quel Travaglio, la cui barca oramai fa acqua da tutte le parti,  sia stato smentito in pieno da un importante giornalista, che si chiama Marco Travaglio: “Seppi poi da Ingroia che lui era al corrente delle indagini su Ciuro fin da prima dell’estate, (e vale a dire immediatamente, perché Ciuro fu scoperto l’11 giugno 2003 – ndr)  ma che – d’intesa con il procuratore capo, Piero Grasso – aveva dovuto continuare a comportarsi con lui come se nulla fosse, per non destare sospetti.” (da: “L’armadio degli scheletri” di Marco Travaglio – 22/02/2010).

    Quindi Grasso aveva tutte le ragioni, quando parlava di disinformazione di Travaglio, mentre il Travaglio, quando tuonava contro la carenza d’informativa usata con Ingroia, scriveva cazzate.

    Ed è Travaglio stesso a darcene conferma con una rivelazione che egli oggi prova ad utilizzare quale dimostrazione della sua buona fede nei rapporti vacanzieri del ferragosto trascorso con Ciuro ed Ingroia, sicuro che il suo pubblico disattento non si accorgerà che proprio tale rivelazione è allo stesso tempo la prova di una sua storica cappella.

    Ma la circostanza, se può sfuggire ai suoi ciechi ammiratori, non sfugge certo al Segugio.

    Ecco quindi, in conclusione, perché Travaglio, quando si prova a farlo parlare di Pippo Ciuro, vera talpa in procura sempre pronta ad informare gli uomini di Provenzano delle attività condotte dai “cugini di campagna” (gergo usato da Ciuro con Aiello per indicare i carabinieri) a loro danno, si inalbera, diventa isterico, e rifiuta, comprensibilmente timoroso del polverone che tale argomento può sollevare sulle “rivelazioni” di Massimo Ciancimino se rapportate con le effettive attività del ROS, (in realtà tutt’altro che compiacenti verso Provenzano ed il suo clan),  il contradditorio in pubblico, salvo poi, nella tranquillità dei suoi articoli e delle sue lettere aperte, svicolare dal tema principale a quello delle contabili bancarie relative ai suoi soggiorni siculi nonché, soprattutto,  a quello delle sue “non-condanne” per diffamazione.

    Su quest’ultimo tema, poi, Travaglio le spara grosse:

    Al momento sono spiacente di deludere i miei detrattori, ma in 25 anni di carriera giornalistica, durante i quali ho scritto una trentina di libri e dai 15 ai 20 mila articoli, tenendo dalle 1500 alle 2000 conferenze e incontri di vario genere in giro per l’Italia, partecipando a circa 150 trasmissioni televisive (soprattutto in quella TV di Stato dove, a dir suo, “non entri se non hai il guinzaglio” – ndr)  e radiofoniche, diffondendo decine di filmati via internet, non ho mai subìto alcuna condanna (per diffamazione – ndr) definitiva.

    Questa cosa non corrisponderebbe al vero, perché in una causa civile Travaglio è già stato considerato diffamatore e condannato in giudizio di terzo grado, quindi definitivo, a risarcire il danno al diffamato.

    Ma Travaglio, relativamente a questo fatto, si improvvisa contorsionista: “Tutt’altro discorso meritano le cause civili per risarcimento dei danni, che portano a un processo del tutto diverso da quello penale: nessuna indagine per accertare i fatti, solo la fredda quantificazione del danno, morale e/o patrimoniale e/o biologico. Paradossalmente, si può danneggiare qualcuno ed essere condannati a risarcirlo anche se si è scritta la verità sul suo conto, ma non lo si è fatto con la necessaria “continenza” espressiva. “

    Naturalmente si tratta di una stratosferica sciocchezza. Ove non fosse dapprima acclarato in modo incontrovertibile che è stato scritto il falso diffamando qualcuno, il procedimento civile per diffamazione non avrebbe neppure storia, e non si arriverebbe a quantificare nessun danno.

    Le sentenze di  “soccombenza” (tanto per usare un termine che Travaglio gradisce più di “condanna”) di Marco Travaglio in vari gradi di giudizio in cui si è trovato impegolato il giornalista torinese, chiariscono in modo cristallino, nei testi delle sentenze, come dove quando e perché Travaglio avrebbe scritto cose false.

    Così, ad esempio, nella causa civile che lo ha visto contrapposto a Mediaset e a Confalonieri, il Giudice rileva quanto segue: “deve osservarsi che le condotte (illecite) attribuite dal Travaglio a Mediaset sono specifiche e ben individuate, sicchè il riferimento a tali eventi potrebbe ritenersi lecito soltanto se rispondente al requisito della “VERITA”’, (giacchè per questa parte di articolo deve ritenersi che si faccia “cronaca” e non “critica”, essendosi limitato il giornalista ad elencare una serie di reati e/o di condotte illecite). (…) Poiché il giornalista ha elencato le “nefandezze” di MEDIASET in termini di “certezza”, – senza cioè specificare che si trattava di ipotesi di accusa non (ancora) accertate, – ovvero che erano riferite a terze persone-, tali notizie devono ritenersi non conformi al principio della “verità”, e pertanto devono ritenersi sussistenti gli estremi del reato di diffamazione.”

    Questo dice il Giudice nella causa civile.

    Come ho detto, ormai la barca di Travaglio fa acqua da tutte le parti.

     
    • anonimo 14:12 on 1 March 2010 Permalink | Rispondi

      Grande!
      Erano giorni che l’aspettavo.
      Ora me lo leggo tutto.
      Le faccio dei complimenti preventivi (o susseguenti).

      Luigi

    • anonimo 18:40 on 1 March 2010 Permalink | Rispondi

      Io, facendo eco a Luigi, ti faccio i "complimenti susseguenti" (da quando si incominciano a contare i giorni per la prescrizione del "reato di complimento", da adesso o da quando ho iniziato a leggere questo tuo articolo o da quando ho saputo dell’esistenza del medesimo?)
      Scherzi a parte, magnifica anche questa contraddizione rilevata! Se continua a far acqua cosi’, mi sa che la barca Travaglio affondera’ tra poco, la cosa tragicomica e’ che la falla l’ha fatta con le sue stesse mani!
      cesare

    • anonimo 00:26 on 2 March 2010 Permalink | Rispondi

       Questa è letteratura, ma anche Sciascia faceva lo stesso mentre di occupava di politica.
      Ho comprato in questi giorni un volumetto: "Un Onorevole Siciliano". Si tratta della trascrizione delle interpellanze parlamentari di Sciascia.
      Non divento una Enrixina per principio, perché ci sono i Travaglini. 
      Simona

    • anonimo 03:06 on 2 March 2010 Permalink | Rispondi

      Grande Enrix tutto molto interessante, lavoro ben fatto e pieno di fatti INCONTROVERTIBILI E CHIARI. Volevo dare un personale contributo spiegando altro fatto che secondo me inalbera Travaglio quando sente nominare Ciuro.

      Vorrei far notare altro principio che Travaglio tiene sempre con tutte le sue vittime, accusate di immoralità ma che incredibilmente dimentica INCOERENTEMENTE di avere per se stesso.

      Sono numerosi i casi in cui Travaglio, se non sbaglio, cita politci siciliani accusandoli di frequentazioni mafiose, accuse che rivolge anche quando è chiaro che al momento delle frequentazioni non si era a conoscenza della rilevanza mafiosa dei soggetti frequentati.

      Stessa identica cosa che è capitata a lui con Ciuro, era assolutamente chiaro che nessuno poteva accusare Travaglio per frequentazioni di persona che mai si sarebbe immaginato essere collusa con la mafia, ma lo stesso si è divertito spesso a fare questo giochino con altri che tenevano gli stessi suoi comportamenti, FREQUENTANDO GENTE COLLUSA CON LA MAFIA SENZA SAPERLO.

      Gianluca

    • anonimo 17:18 on 2 March 2010 Permalink | Rispondi

      Gentile Enrix
      la ringrazio per aver riassunto l’intricata girandola di versioni di Ciancimino.
      Mi ero perso la prima volta.
      Interessante il suo racconto sul motivo del perche’ Travaglio si incazza a parlare di Ciuro.
      Lei pensa pero’ che non c’entri niente il fatto che l’Odore dei soldi, recentemente ristampato perche’ a Travaglio l’editori riuniti non aveva dato un soldo (v. intervista a Sabelli Fioretti) e’ per meta’ fatto con le inchieste di Ciuro?
      Ho notato che nello stralcio della nuova introduzione riportato su voglioscendere non lo si nomina mai….
      Forse il suo interesse e’ piu’ di portafoglio che di onorabilita’.
      Pare anche che il Fatto Quotidiano non navighi in buone acque finanziariamente….

      Luigi

    • enrix007 20:23 on 2 March 2010 Permalink | Rispondi

      Caro Luigi e cari tutti.
      Quel Raggruppamento Operativo Speciale dei carabinieri che in un certo periodo secondo Cianci junior, e quindi anche secondo Travaglio, avrebbe dovuto “GARANTIRE LA MASSIMA LIBERTA’ DI MOVIMENTO” a Provenzano in base alla fandonia di un patto stato-mafia inventato per i babbei, in realtà, in quello stesso periodo e coordinato da alcuni procuratori onesti, braccava Provenzano piazzando le cimici sulle auto e negli appartamenti dei suoi angeli custodi, intercettando, e consegnando ai magistrati le intercettazioni senza filtri, indi smascherava la rete di protezioni del clan in procura e nel palazzo della regione (quella vera, non quella inventata da Ciancimino) e portava in galera un prestanome di Provenzano che assicurava alle casse del padrino milioni di euro di profitti a danno dei cittadini, tanto per garantirei meglio al boss la libertà di movimento. Poi nella rete mafiosa c’era una mela marcia del loro raggruppamento: beccato ed arrestato. Poi c’era un politico, un pezzo da 90. Beccato e condannato anche lui. Poi c’era un amico di Travaglio, che con lui condivideva barbecues e tuffi in piscina: beccato ed arrestato anche lui. Detto ciò, io ritengo che tutto questo sia la ragione precipua per cui Travaglio non vuole parlare di quelle vicende.
      E’ un’opinione mia, ma che poggia su una logica molto solida.

      Poi c’è ovviamente il concorso di altre ragioni. Si, ce ne sono anche altre.

    • Sympatros 14:16 on 4 March 2010 Permalink | Rispondi

      Però questo non lo potete proprio dire…   cosa? Non potrete mai dire che Travaglio ha fatto l'autista a Ciuro…. portandolo ai vari incontri o summit….. attendendolo poi al bar insieme al giovane Ciancimino ed ad altri autisti di cui non ricordo il nome!

    • enrix007 14:55 on 4 March 2010 Permalink | Rispondi

      Perchè non posso dirlo, Sympatros? Se ho un inportante PM che mi mette sotto la sua protezione, e nessuno che mi smentisca, posso dirlo benissimo.

    • Sympatros 15:09 on 4 March 2010 Permalink | Rispondi

      Auaaaauah…… che ridere!!

    • Sympatros 15:10 on 4 March 2010 Permalink | Rispondi

      Ma gli altri autisti quali erano? Non mi ricordo il nome!!

    • Sympatros 15:29 on 4 March 2010 Permalink | Rispondi

      Naturalmente non sto ridendo per te, Enrix, ma per la battuta di Ciancimino junior…. non tutti gli autisti diventano persone importanti!

      Ti saluto e tolgo il disturbo…. qua siete persone serie!!

    • anonimo 03:49 on 6 March 2010 Permalink | Rispondi

      “Tale espressione, infatti, è specificamente riferita all’oggetto (di pubblico interesse)
      dell’articolo, non è “gratuita” bensi necessaria per rappresentare l’opinione critica del
      giomalista e non sconfina nella contumelia essendo contenuta nei limiti della accesa
      dialettica propria dell’argomento trattato.”(sent.,10)

      a dirla tutta

    • enrix007 10:15 on 6 March 2010 Permalink | Rispondi

      "A dirla tutta", una cosa che non c'entra un cazzo.

      Fra i vari periodi dell'articolo contestati da Confalonieri, alcuni sono stati ritenuti diffamatori (perchè secondo il magistrato Travaglio ha scritto falsità su di lui), alcuni ingiuriosi (la parte di Confalonieri che si guarda allo specchio), altri (e nella fattispecie il terzo periodo) nè l'uno nè l'altro, ma contenuti nei limiti dell'accesa dialettica.

      Ovviamente qui stiamo parlando dei periodi e delle motivazioni per cui è stato condannato, non di ciò per cui non lo è stato.

      Il tuo commento è invece riferito a ciò per cui non lo è stato, ma la prossima volta magari corredalo anche dei risultati del superenalotto, tanto per soddisfare meglio le tue pulsioni a scrivere cose inutili, se queste ti provocano l'insonnia.

    • anonimo 20:48 on 7 March 2010 Permalink | Rispondi

      Ma com'e' che il povero Sympatont capisce tutto al contrario? Ci vuole ben tanta pazienza, caro Enrix….

    • anonimo 15:00 on 27 March 2010 Permalink | Rispondi

      >>>Ovviamente qui stiamo parlando dei periodi e delle motivazioni per cui è stato condannato, non di ciò per cui non lo è stato.Appunto.Scusa quanto era la richiesta iniziale? Quanto ha dovuto sborsare?Poveracci

    • anonimo 15:02 on 27 March 2010 Permalink | Rispondi

      >>Ovviamente qui stiamo parlando dei periodi e delle motivazioni per cui è stato condannato, non di ciò per cui non lo è stato.Appunto.Scusa quanto era la richiesta iniziale? Quanto ha dovuto sborsare?Poveracci.

    • enrix007 19:31 on 27 March 2010 Permalink | Rispondi

      "Appunto."Appunto, tu non hai capito un cazzo."Quanto ha dovuto sborsare?"Chi? L'ultimo cliente di tua sorella?"Poveracci."Esatto, come quelli che ridono dello scemo del villaggio (e quello sei tu).

    • almostblue58 14:15 on 28 March 2010 Permalink | Rispondi

      Mi si permetta di spezzare una lancia a favore di Travaglio, realivamente a ciò che scrive Gianluca:"Sono numerosi i casi in cui Travaglio, se non sbaglio, cita politci siciliani accusandoli di frequentazioni mafiose, accuse che rivolge anche quando è chiaro che al momento delle frequentazioni non si era a conoscenza della rilevanza mafiosa dei soggetti frequentati. Stessa identica cosa che è capitata a lui con Ciuro".A differenza di Ciuro, cioè di un investigatore in servizio presso la procura di Palermo, e, dunque, insospettabile, un capomafia o un qualsivoglia mafioso traggono il proprio prestigio dal fatto che, sul territorio, tutti sanno chi siano. Altrimenti non potrebbero esercitare il proprio potere su persone che tale potere non gli riconoscerebbero. Un capomafia non diventa tale quando lo acchiappano, anzi: quando lo acchiappano forse smette di esserlo.Queste cose le ho gia scritte quasi tre anni fa, dopo le polemiche sulle accuse di Travaglio a Schifani (http://almost58.splinder.com/post/17104522/C%27%C3%A8+chi+preferisce+Marco+Bava) e mi ero sentito in dovere di scriverle poiché qualche giorno prima scrivevo che mi ero rotto le palle del trio Grillo-Travaglio-Di Pietro, ché avevano trasformato la questione morale in questione giudiziaria (http://almost58.splinder.com/post/17080389/Sinistra+mia%2C+non+ti+conosco.+).Però un conto è non poterne più di certi metodi, altro è tacere di fronte a simili grossolane fesserie, ché non sono meno gravi del suddetto metodo, specie se propalate in malafede come nel caso che mi spinse a scriverne quasi tre anni fa.Quanto alla differenza fra penale e civile nei casi di diffamazione (a prescindere dal caso specifico), Travaglio non ha del tutto torto: il metro di valutazione è diverso e qualsiasi giurista anche non particolarmente brillante potrebbe confermarlo. E non è un caso se negli ultimi venti anni i potenti, che prima ricorrevano al penale (eccetto Andreotti, che si lasciava scivolare tutto addosso), sono poi passati al civile: prima c'era il senso e il rispetto dei ruoli, in questo Paese, a un certo punto è saltato e i potenti hanno scelto deliberatamente il civile per intimidire e tentare di imbavagliare i giornalisti (categoria di cui faccio parte).

    • anonimo 16:13 on 30 March 2010 Permalink | Rispondi

      Gentile sig. Enrixnel blog di Caruso (ormai defunto, temo) stiamo invocando a gran voce il suo nome.Se vuole fare un sorriso si legga i commenti piu' recenti.Luigi

    • anonimo 18:10 on 30 March 2010 Permalink | Rispondi

      non e' defunto, Luigi…

    • anonimo 12:17 on 11 April 2010 Permalink | Rispondi

      Per almostIn linea di massima hai detto una cosa correttissima. E' naturale che per le ragioni da te specificate è più probabile che una frequentazione sul loco di mafioso mai inquisito sia possibile saperlo rispetto ad un servitore dello stato.Anche se ….. anche se ritengo che tutti sanno che in in sicilia queste istituzione così integerrime non esistono, spifferi, spifferini, gente al soldo della mafia nonche servitrice dello stato, ci sono state e ci saranno sempre.Quindi sono assolutamente d'accordo con te Almostblue era più facile che Schifani sapesse di Travaglio (anzi diciamolo per certo che Schifani sapeva), lo stesso però non ha nessun diritto di infangare un cittadino Italiano (anche avesse ragione) facendo quel che ha fatto, si dice che se si sputa spesso a volte torna indietro. Personalmente volevo concentrare l'attenzione non sul singolo fatto, ma sui metodi di  Travaglio ed in questo caso, Ciuro, è successo il patatrac, facendo capire a T. che bisogna fare attenzione ad esagerare a dare patenti di mafiosi ai frequentatori degli stessi.Travaglio è un personaggio che ancora devo inquadrare e la cosa che mi fa più rabbia e che secondo il mio modestissimo parere prendere cantonate o non essere precisi come purtroppo capita a lui, porta solo assist ai geni del male.Per attaccare lo schifo serve un informazione perfetta, corretta,  e come costruire un castello, già saranno in pochi a volerlo fare perchè il potere politico ed economico disincentiva la costruzione,  chi decide di farlo deve fare un lavoro perfetto sapendo dei numerosi attacchi che subirà,Travaglio sembra essere un volenteroso costruttore ma poi lavora facendo mura fatiscenti e che possono crollare al primo attacco. In poche parole sembra essere utile all'inizio però poi il suo lavoro negli addetti ai lavori ha falle in tutte le parti.E la cosa mi fa incazzare non poco.Gianluca

    • almostblue58 16:27 on 12 April 2010 Permalink | Rispondi

      x Gianlucapenso che il limite di chi fa informazione quotidiana stia proprio nella quotidianità stessa e nella fretta che la quotidianità richiede.altro discorso sono i libri: documenti e memoria; la memoria a volte gioca brutti scherzi e ti ritrovi a scrivere inesattezze, ne bastano un paio e se quacuno si mette a battere sui quei tasti il resto del lavoro, inappuntabile, diventa secondario.negli anni, ho trovato errori grossolani in tanti libri, ma non tutti gli autori sono sovraesposti come Travaglio e, dunque, certe grossolanerie passano inosservate. qualche mese fa ne ho trovato uno, a rischio di un paio di querele, nell'ultimo libro di un amico abbastanza noto. Nessuno ne ha scritto e il libro ha ricevuto recensioni lusinghiere. Non so se l'abbiano letto le persone tirate in ballo a casaccio, ché in quel caso gli incassi non gli basterebbero a pagare i danni.secondo me Travaglio è un buon giornalista, l'opinionista mi piace meno, il guru ancora meno (e i travaglini mi inquietano); se non fosse esistito l'avrebbero inventato. e forse l'hanno inventato davvero, ché se non gli avessero dato addosso come hanno fatto per "L'odore dei soldi", sarebbe uno dei tanti buoni giornalisti italiani che ogni tanto scrivono un libro utile. Invece è diventato parafulmini e macchina sfornalibri in quantità industriale (con le inevitabili inesattezze). è entrato un po' troppo nella parte, secondo me. ma non è facile fare un passo indietro, in certe situazioni, specie quando queste situazioni ti fanno essere popolare e ti fanno guadagnare un pacco di soldi.ciao,Sebastiano

  • Avatar di enrix

    enrix 09:47 on 15 February 2010 Permalink | Rispondi
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    La trattativa Stato-mafia ha le gambe corte

    Ecco tutte le contraddizioni di Ciancimino jr, il teste superstar che ha dato lustro al processo di Palermo. E i motivi del rancore che spinge i pm antimafia a inseguire un teorema «indimostrabile» pur di «incastrare i carabinieri». Parlano Jannuzzi e Macaluso

    di Chiara Rizzo

    È durato tre giorni lo show di Massimo Ciancimino dall’aula bunker dell’Ucciardone l’1, il 2 e l’8 febbraio. Junior (come ormai lo chiamano) ha parlato al processo contro il generale Mario Mori, accusato di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Il cuore della deposizione sta nella presunta trattativa che i carabinieri (Mori e l’allora capitano Giuseppe De Donno) avrebbero intavolato con lo stesso Provenzano e Vito Ciancimino, il sindaco di Palermo condannato per mafia, per la cattura di superlatitanti (in cambio dell’impunità per il boss Binnu ’u Tratturi). La deposizione fiume di Junior, però, è andata oltre: inforcati gli occhiali nuovi modello Grillini, Ciancimino ha parlato di servizi deviati e grandi architetti, del sequestro Moro, di Ustica. E soprattutto ha descritto Marcello Dell’Utri come referente politico della mafia. Risultato? Telecamere, flash, perfino un libro.
    E fin qui, il circo mediatico. Ma i fatti? Massimo Ciancimino ha raccontato che il padre chiese ai carabinieri le mappe catastali di Palermo e le utenze di luce, acqua e gas. Poi le consegnò a Provenzano, il quale gliele restituì dopo aver cerchiato con un pennarello la zona di Palermo dove si trovava la casa di Riina e annotando alcune utenze. Peccato che nel 1993, davanti a Ingroia e Caselli, papà Ciancimino spiegava di aver chiesto le mappe «perché esaminando questi documenti e facendo riferimento a due lavori sospetti, in quanto suggeritimi a suo tempo da persona vicina ad un boss, fornissi elementi utili per l’individuazione di detto boss».
    Al processo Mori, Junior ha giurato di aver visto coi suoi occhi il padre incontrare Bernardo Provenzano, e che quella del ’93 era una versione di comodo. Eppure lo stesso Junior il 7 aprile 2008 aveva detto ai pm Ingroia e Nino Di Matteo: «Io dentro di me penso che (la trattativa) sia stata fatta col Provenzano», ma «queste sono deduzioni mie». Quanto alle mappe di Palermo consegnate a Provenzano affinché questi indicasse l’abitazione di Riina, Ciancimino oggi dice di essere stato egli stesso il “postino”. Ma nel 2008 raccontava a Ingroia e Di Matteo: «Le mappe (a Palermo) non sono scese sicuro, glielo assicuro, perché mio padre, quando De Donno mi consegnò le mappe, mi disse di nasconderle… Credo che ci fu un incontro dove mio padre nelle mappe indicò al capitano De Donno una zona». E solo dopo le domande dei pm quel 7 aprile Ciancimino spiegava che il padre aveva indicato la zona sulla base di informazioni acquisite da Provenzano: «Mi sembra che lo ha incontrato».
    Cosa è accaduto tra il 2008 e il 2010? C’entra qualcosa il fatto che Massimo, condannato nel marzo 2007 per riciclaggio e tentata estorsione, il 30 dicembre 2009 si sia guadagnato una riduzione della pena in appello (due anni e quattro mesi di reclusione in meno)? E il fatto che da quando ha iniziato a parlare Junior abbia guadagnato una certa visibilità mediatica (oltre che la scorta)?
    Quello delle mappe è un punto debole della deposizione di Junior anche per Lino Jannuzzi, giornalista ed ex senatore di Forza Italia. Jannuzzi ebbe cinque incontri con Vito Ciancimino. E a Tempi assicura: «A me raccontò i fatti per come li sostiene da sempre il generale Mori». E la teoria della trattativa? «Solo fango che non si può provare. Che bisogno c’era di mappe catastali e delle utenze di luce e gas se i carabinieri potevano chiedere direttamente al “collaborante occulto” Provenzano dove si trovava Riina? La verità è che Ciancimino conosceva i proprietari della casa di Riina, ecco perché trafficava con le mappe, cercando di localizzare la zona attraverso le intestazioni di luce e acqua».
    Jannuzzi scava nella memoria: «Nella sua casa romana di via San Sebastianello, Vito Ciancimino mi raccontò che aveva tentato di aiutare i carabinieri ad arrestare Riina, ma non ci riuscì, perché lui stesso fu arrestato. Alluse anche a Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, a cui chiese più volte un incontro. Secondo lui Violante voleva impedire che Andreotti diventasse presidente della Repubblica, e voleva processarlo. Ecco perché, sempre a suo dire, Violante non lo aveva incontrato». Di queste cose, ribadisce Jannuzzi, «la procura di Palermo è a conoscenza da anni. Ma da anni cerca disperatamente di andare contro i carabinieri. Il motivo di questo rancore? I teoremi della procura. Il generale Mori ha difeso Bruno Contrada dicendo chiaramente che era impossibile fosse colluso con la mafia. E furono i carabinieri a tentare di riportare in Italia dagli Usa Tano Badalamenti, che poteva sbugiardare Tommaso Buscetta al processo Andreotti». E poi fu il capitano dei carabinieri De Donno ad accusare la procura palermitana di aver insabbiato, dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, l’inchiesta “Mafia e appalti”, ritenuta decisiva dai due giudici.

    Il capro espiatorio
    «Non si può processare Mori per le lunghe latitanze dei boss: come Provenzano, anche Riina è stato latitante a lungo, e questo perché c’era un sistema politico. Mori è un capro espiatorio per processare un sistema», argomenta Emanuele Macaluso, ex senatore Pds e direttore di Le ragioni del socialismo. Per Macaluso bisogna distinguere: «Sulla questione della trattativa, ritengo ci sia stata una fase del contrasto alla mafia in cui si usavano le fonti per arrivare agli arresti. Erano i metodi usati da carabinieri e polizia per colpire la mafia. Secondo me fu un errore. Ma detto ciò, io non vedo collusione, e neanche trattative. Che razza di trattativa ci poteva essere se poi si è arrivati all’arresto di Riina e dello stesso Ciancimino?». Macaluso chiarisce: «Se parliamo della lunga latitanza di Provenzano dobbiamo pensare anche a cos’era la Sicilia della Prima Repubblica. Giuseppe Alessi, in un’intervista sul Corriere della Sera, prima della morte ha ammesso: dovevamo scegliere se tollerare la mafia o rassegnarci al comunismo. E lo stesso Andreotti ha parlato più volte di “convivenza” fino a quando la mafia non ha attaccato lo Stato, alla fine degli anni Settanta. Penso sia stata una precisa scelta politica».
    E sulle accuse di Junior «occorre che i giudici valutino a mente fredda. Sui morti si può dire di tutto, ma fa fede ciò che Vito Ciancimino disse in vita. Purtroppo i magistrati ritengono di non poter sbagliare, perciò si accaniscono contro Mori, già assolto per la mancata perquisizione del covo di Riina». Ma il teorema della trattativa continua.

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     
    • anonimo 10:34 on 15 February 2010 Permalink | Rispondi

      A proposito della volontà dei carabinieri di far deporre Badalamenti, ho sentito Jannuzzi ad un convegno dire che tra quei carabinieri c’era anche Mauro Obinu, il quale, mi pare, avrebbe addirittura redatto un verbale o comunque un documento nel quale menzionava la risposta datagli da un magistrato, che gli avrebbe detto di lasciar stare Badalamenti perchè se no rovinava il processo ad Andreotti. Il nome del magistrato dovrebbe essere fatto nel libro "Lo sbirro e lo stato". Però, non so fino a che punto è credibile che un magistrato confessi così apertamente ed in via confidenziale ad un carabiniere il suo terrore che Badalamenti smentisca Buscetta.

      Moritz

    • anonimo 10:45 on 15 February 2010 Permalink | Rispondi

      Comunque, sarebbe interessante sapere quali furono le esatte indicazioni che Vito Ciancimino diede ai carabinieri. Ricordo infatti che fino a pochi giorni prima della cattura di Riina, essi non sapevano nemmeno chi erano i Sansone, individuati poi con l’aiuto di Balduccio di Maggio. Quindi, quali proprietari di casa conosceva Ciancimino?

      Moritz

  • Avatar di enrix

    enrix 10:21 on 27 January 2010 Permalink | Rispondi
    Tags: , , , , carlo alberto dalla chiesa, fabio repici, , , mafia, , sonia alfano,   

    Nel nome dell'antimafia 

    Nel nome dell’antimafia.

    di Angelo Jannone

    Non smetto mai di stupirmi di fronte ai sillogismi perversi che tempestano il web. Già, il bello del web. Ognuno può dire la sua. E così si può conoscere l’Italia e capire il perché di alcune componenti politiche. Sono solo l’espressione di quello che c’è. E possiamo ben dire "abbiamo l’Italia che ci meritiamo".
    Dopo le stragi siciliane dei giudici Falcone e Borsellino, la Sicilia è stata pervasa da un furente moto sociale. La società civile esasperata dal superamento della soglia di tolleranza, ha reagito in maniera coraggiosa contro la mafia.
    E molti hanno trovato nel moto dell’Antimafia un loro spazio, un loro ruolo, hanno potuto giustificare la propria esistenza, finalmente.
    Quando sono tornato a Palermo dopo qualche anno, nel dicembre 2000, in occasione della Convenzione ONU sul Crimine Transnazionale, ho visto una città diversa, caratterizzato da uno strano folclorismo: il folclorismo dell’Antimafia.
    Feste, convegni, seminari, organizzati a latere della Convenzione, da miriadi di sigle ed associazioni sorte in nome della lotta alla mafia.
    Eppoi gli uffici semivuoti della Procura, perchè in questa grande orgia dell’antimafia i magistrati erano variamente impegnati nel prendere la parola in questo o in quell’altro convegno. Insomma un antimafia a tavolino.
    E negli interventi, alzavano la voce, si dimenavano, contro la mafia, contro le collusioni politiche, contro i servizi deviati, insomma l’importante era avere un nemico. E poi tutti mangiavano e bevevano, con camerieri che servivano da mangiare e da bere.
    E poi anche gran mangiate di pesce a Mondello.
    Si passava da un convegno all’altro, come a fine anno si passa da una festa all’altra.
    E frattanto i delegati di tutto il mondo, passeggiavano e visitavano Palermo.
    All’epoca io comandavo il Reparto Analisi del ROS Centrale ed avevo suscitato la delusione di alcuni CosaNostracentrici, in quanto segnalavo, ancora inascoltato, le nuove minacce, quelle delle mafie multietniche.
    Da quegli anni, sono oramai 10, una serie di personaggi ben collegati tra di loro, cavalcando la scia della lotta alla Mafia, hanno girato l’Italia, come fenomeni da baraccone, facendo la lista dei buoni e dei cattivi, secondo logiche molto discutibili ma che hanno dalla loro il dono empatico della suggestività, facendo leva sul desiderio giacobino mai sopito di una piccola fetta del popolo italiano.
    Ma veniamo a ciò che mi ha sorpreso questa volta. Un convegno, l’ennesimo, organizzato dall’europarlamentare di pietrista, Sonia Alfano, a Palermo, dal titolo suggestivo ed evocativo L’alba di una nuova Resistenza svoltosi il 12 dicembre 2009. L’Avvocato Fabio Repici è intervenuto come relatore.
    E come la resistenza partigiana, in nome dell’Antifascismo ha saccheggiato, violentato, depredato, coperta dalla storia, qui il rischio sempre immanente, a volte già reale è che chi confonde il contrasto alla Mafia o alle mafie, con una nuova resistenza, in nome dell’Antimafia violenti le coscienze altrui, depredandone la reputazione ed alterando la storia.
    E ciò che fa, tra gli altri, l’avvocato REPICI, che pur esordisce reclamando la disinformazione diffusa e definendosi ironicamente difensore di pericolosi incensurati, mentre non si preoccupa affatto di diffamarne altri di incensurati.
    Mori, De Donno, Obinu, Subranni, entrano tutti nel suo mirino, con una concatenazione artefatta di eventi, fatta, con il tipico stile del “guarda caso” o “chissa perché”.
    Allora Le mutuo un po’ il linguaggio, avvocato REPICI per dire “guarda caso” al Convegno vi era tra i relatori anche Peter Gomez, giornalista de “IL FATTO”.
    Di lui avevo cercato oltre che di Travaglio, all’indomani dell’uscita di un anticipazione del libro di Genchi.
    Avevo spiegato chi fossi e perché chiamavo. Niente. Non mi è stato concesso di parlare con nessuno.
    Eppure qualche giorno dopo Gomez firmava un articolo con il quale citava passaggi di una mia dichiarazione ai Pubblici Ministeri (non utilizzabile), senza avvertire il bisogno, che un giornalista scrupoloso dovrebbe avvertire, di sentire prima il diretto interessato. Si preoccupava invece di difendere il suo vecchio capo all’Espresso, nonché mio vecchio capo in Telecom Brasile, Paolo Dal Pino.
    E parliamo di disinformazione o di carente informazione?
    E con queste premesse che REPICI si esprime in termini inqualificabili nei confronti del ROS, paragonato al UAARR della seconda Repubblica, corpo deviato, dopo aver definito il primo coinvolto in qualche modo nella strage di Piazza Fontana. “L’ UAARR nella seconda Repubblica si chiamava ROS, Raggruppamento Operativo Speciale, il corpo deviato della seconda Repubblica. Il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, fondato nel 1990, alla cui guida, fin dall’inizio, ci fu il generale Subranni.E quindi il difensore di “pericolosi incensurati”, attacca non solo altri pericolosi incensurati, ma addirittura i loro figli “Il Generale Subranni non è un nome della preistoria di questo paese, perché, è vero che è in pensione, però, vedete, quel ministro della Repubblica Angelino Alfano, oggi tante volte ricordato, ha una portavoce. Parla con la voce di tale Danila Subranni che del generale Subranni è la figlia.”
    Che brutto guaio questo! E che grave peccato!
    Ovviamente non poteva mancare la solita trattativa con lo Stato per ricordare che il Generale Subranni era comandante del ROS dell’epoca.
    E tra i relatori al Convegno anche il senatore Beppe Lumia, che addirittura del caso ne ha fatto oggetto di un interpellanza parlamentare.
    E poi via, raffiche di sproloqui, di sintesi ad effetto, sul Generale Ganzer, non poteva mancare anche lui.
    Certo, ha ragione quando afferma che nessun politico mai ha pensato di rimuoverlo dal Comando del ROS, così come nessun politico avrebbe mai pensato di rimuovere il prefetto De Gennaro dal suo delicatissimo incarico nonostante indagato a Genova per fatti del G8.
    Ma questo dovrebbe far riflettere su quanta credibilità abbiano certe indagini della magistratura infarcite spesso delle stesse impostazioni da Nuova Resistenza.
    Ma il REPICI supera ogni attesa quando afferma, ormai nella sbornia convegnistica:
    Altro personaggio – qui rasentiamo il cabaret – che ha contraddistinto il ROS nella seconda Repubblica, è un personaggio che avrebbe un nome e un cognome, che però, come nei fumetti, si fa chiamare per pseudonimo. Ora, ci sono stati esimi esempi di ufficiali nobili ed integerrimi nella storia dell’arma dei carabinieri: Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Capitano D’Aleo, il Capitano Basile. Ma voi ve lo immaginereste uno di questi personaggi che si fosse fatto chiamare con uno pseudonimo? Gli avrebbero riso in faccia. Non lo fecero. C’è invece un personaggio, che in teoria all’anagrafe si chiama Sergio De Caprio, che però è conosciuto con lo pseudonimo di Capitano Ultimo perché si sente evidentemente un personaggio dei fumetti. E’ un altro dei responsabili della mancata perquisizione al covo di Riina ed è uno dei personaggi – è un poveretto da come si propone – sui quali è però più difficile parlare, perché appena si cerca di mettere il dito sulle gravissime pecche di quell’ufficiale, ci sono personaggi, anche dell’antimafia ufficiale, che subito saltano in piedi e gridano allo scandalo. Perdonatemi, ma, con i personaggi da fumetti, investigazioni serie non se ne fanno e la storia del ROS è la prova di questo.
    Apprendiamo così che vi è anche un Antimafia Ufficiale contrapposta all’Antimafia Ufficiosa, quella della Resistenza .
    Quella che qui con il REPICI fa proprio un bel regalo a Cosa Nostra.
    Ricordo che l’allora capitano Ultimo- è conclamato processualmente – è stato condannato a morte proprio da Bernardo Provenzano, all’indomani dell’arresto di RIINA, ritenuto responsabile di aver umiliato “u curtu” posandolo e facendolo fotografare sotto la foto del Gen. Dalla Chiesa.
    E per qualche hanno, De Caprio, ha girato non in comode auto blindate, ma nel retro di un furgone come bestie, per sfuggire alle attenzioni di Cosa Nostra. Ed il generale Subranni, Mori e Obinu “tutti favoreggiatori di Provenzano” , secondo REPICI, ne era a ben conoscenza.
    Ricordo anche al REPICI che gli pseudonimi come li chiama lui, sono stati introdotti nella struttura anticrimine dell’Arma proprio dal Generale Dalla Chiesa, e non sono una scelta individuale, ma obbligatori, per ragioni di sicurezza. (Se non lo comprende glielo spiego in altra occasione)
    Ed è vergognoso che il REPICI si spinga a definire “porcate” le vicende del ROS, “ A proposito delle porcate del ROS, io vi segnalo questo che voi ancora non avete mai letto. Nell’anno 1993 Benedetto Santapaola era latitante a Terme Vigliatore. Era intercettato dal ROS con intercettazioni ambientali, i militari del ROS lo ascoltavano, veniva fatto anche il nome di Benedetto Santapaola, sapevano dov’era, avevano il nome, il cognome, l’indirizzo e nessuno è andato a prenderlo. Ancora nessuno è stato messo sotto processo per quella gravissima condotta.”
    REPICI non sa che su quell’episodio vi fu ampio chiarimento. Vi furono incidenti stradali durante il tentativo di catturare Santapaola.
    Cose che accadono quando si lavora.
    Ma veniamo alla conclusione di REPICI “Non è un caso, per altro, che i supporter di quegli ufficiali del ROS, di questi tempi, sono gli stessi supporter di Bruno Contrada, o gli stessi supporter dei servizi deviati.
    Ebbene si, caro REPICI. Ha ragione, non è un caso. Perché in realtà sono le persone come Lei che stanno spaccando in due l’Italia. Da una parte chi difende persone che hanno una storia di vero servizio per lo Stato e per la gente, con tutti gli umani errori di chi lavora sul serio, sacrificando la famiglia, rischiando la vita, saltando le notti, le domeniche e le feste e masticando polvere. Dall’altra chi, per fini politici legati al vecchio, atavico vizio di non accettare il metodo democratico, ma di pensare a rivoluzioni e resistenza, non esita ad immolare all’altare di una pseudo giustizia i primi, purché ciò sia utile a sostenere suggestivi teoremi, IN NOME DELL’ANTIMAFIA.
    *******

    * Su Facebook il fan’s club di Angelo Jannone a questo link:
    http://www.facebook.com/inbox/?tid=1191572478558#/pages/Angelo-Jannone/228461479037?ref=ts

     
    • poliscor 11:53 on 27 January 2010 Permalink | Rispondi

      Grazie, enrix.

    • Sympatros 17:03 on 27 January 2010 Permalink | Rispondi

      E la mafia sta a guardare…. divertita però…. ed è un bel divertimento godersi lo spettacolo, lo spettacolo gratuito dei detrattori critici, ironici e sdegnati dell’Antimafia…. l’antimafia modaiola…. fra i due litiganti il terzo gode… ma secondo voi dove si può nascondere e mimetizzare la mafia, nell’antimafia, nei detrattori dell’antimafia o in tutte e due?

      Sympatros

    • anonimo 17:49 on 27 January 2010 Permalink | Rispondi

      Caro Sympa se dire la verità significa essere detrattori dell’antimafia .. cosi’ sia. Accusare,  chi dopo aver scartabellato ogni carta, spiega i reali fatti come sembrano essere andati (seguendo quanto dicono i documenti ufficiali), di essere complice della Mafia, lo reputo gravissimo, anches eposto solo come presunto interrogativo.

      Si spera che nel tempo i Travaglio, i Barbaceto, i Gomez, tutti i magistrati che si stanno occupando di questi fatti, facciano giustizia e ci spieghino il perchè di tutte queste contraddizioni.

      Io, penso anche i vari Enrix, e tanti altri saremmo felicissimi, visto che qui la battaglia non è contro nessuno in particolare, si tratta esclusivamente DI FAR TRIONFARE LA VERITA’ DOVUNQUE QUESTA CI PORTI.

      Non ho mai capito se ci sei o ci fai, fatto sta che quando la verità sembra andare verso una direzione ECCO USCIRE SYMPRA/ERUZ , a volte mi sembri in buona fede altre e meglio che non lo scrivo ….. cmq è poco importante capire cosa sei e cosa vuoi, semplicemente è curioso che spunti sempre fuori in queste situazioni.

      Gianluca

    • anonimo 18:16 on 27 January 2010 Permalink | Rispondi

      Complimenti per il blog.
      Sosteniamo con serietà di giudizio e con tenacia, la vacuità di certi giustizialisti dell’ultima ora.
      Angelo Jannone

    • Sympatros 18:50 on 27 January 2010 Permalink | Rispondi

      E’ veramente comico, direbbe il Baffino perdente di D’Alema, Gianluca mi vedeva come fumo nell’occhio nel sito di Guzzanti e si è pure adoperato, anche con dispendio di energia, a che io venissi espulso… adesso mi insegue negli altri siti e vuol dialogare con me.. è comica caro Gianluca, mi sei pure simpatico, ma ti ho detto che tu spesso non decodifichi molto bene i miei post. Non fa niente va. Non mi metterò a discutere con te su questo blog…. dove i documenti la fanno da padrone ed io non ho voglia di affaticarmi a leggere tanti a tali documenti… legiucchio qualcosa e poi faccio delle riflessioni… questo è il senso dei miei interventi, non altro.

      Salutami il Senatore, che ringrazio per avermi fatto passare, nel suo blog, momenti interessanti, seri e sicuramente divertenti.

      Sympatros

    • anonimo 21:15 on 27 January 2010 Permalink | Rispondi

      Caro Sympra io non inseguo nessuno. Ti ho più volte spiegato che mi sembrava corretto mandare via chi non rispettava le regole, e tu le trasgredivi sistematicamente. Guzzanti non ci sentiva da quell’orecchio ed ha aspettato che lo esasperassi per mandarti via. Da liberale qual’è non voleva censurare, ma avendo fatto un regolamento che tu puntualmente violavi lo hai costretto.

      E’ tutto più semplice di quel che sembra, bastava che da parte tua ci fosse un comportamento consono e stavi ancora in Rivoluzione Italiana. Riguardo quello che hai scritto ora ti chiedo solo una cosa, chiamiamolo consiglio, se vuoi scrivere e commentare non leggiucchiare qualcosa e poi rifletti, leggi tutto quello che Enrix ti mette a disosizione e poi dicci tutto quello che vuoi.

      Poi naturalmente fai come preferisci ma di certo è antipatico dialogare e confrontarsi con chi AMMETTE CHE SI INFORMA SOLO PARZIALMENTE.

      Gianluca

      P.S. Giuro a volte non riesco proprio a comprenderti.

    • enrix007 00:34 on 28 January 2010 Permalink | Rispondi

      Momento, prego.

      No Sympatros, niente giochino delle tre carte o suoi succedanei coi bicchierini o coi campanellini.
      Qui non ci sono due litiganti, e la mafia che gode e sta a guardare, perchè il terzo è tutt’uno con uno dei due litiganti.
      C’è un’alleanza di cervelli che muove accuse infamanti contro i carabinieri che arrestarono Riina, che li vuole vedere puniti, sostenendo che furono alleati con Provenzano.
      Allora qui la mafia non è fuori che guarda, Sympatros, chiaro?
      E’ parte attiva,non facciamo i furbi,
      Delle due, una: o ha mosso il ROS, o muove i suoi detrattori. La mafia.
      Non è che tribunali, pentiti , giornalisti, parenti stretti si son mossi tutti insieme perchè è scoppiata tipo una moda delle figurine.
      Per questo io vado a caccia della menzogna. Basta snidare quella, e la verità prende forma per contrasto e chiaroscuro.
      Io quando faccio a pugni con un manoscritto apocrifo, dall’altra parte il mio antagonista non è un semplice appassionato di enigmi e cruciverba, o un falsario per hobby. Mi sono spiegato Sympatros?

      Ora, Sympatros…perchè io ti sto per bannare esattamente come ha fatto Guzzanti?
      Non perchè hai scritto il messaggio n°2, ma perchè ho come una vaga sensazione che tu lo abbia scritto nella perfetta lucida consapevolezza che le cose stanno come le ho scritte io qui sopra, e che tu abbia invece voluto fare il trucchetto dei tre bicchierini pensando che questo blog sia come il tavolino nel vicolo a fianco di Roma Termini.
      Nossignore. Qui non è la stazione, è casa mia, come ti ho già detto.

      Niente cortine fumogene. Niente giochino delle tre carte.

      Chi oggi colpisce il ROS e chi ieri e/o l’altro ieri è stato colpito dal ROS, è una carta sola. Intendiamoci bene, non sto parlando della maggioranza sprovveduta, quei poveracci che scendono in piazza a manifestare contro la mafia convinti che chi ha arrestato il capo dei capi lo abbia fatto in virtù di un accordo con altri mafiosi, ma dei burattinai, sto parlando.

      Comunque prendila come un’ammonizione seria, nel caso si ripeta, ecc..ecc.

    • Sympatros 08:51 on 28 January 2010 Permalink | Rispondi

      Io non reputo dei "poveracci" coloro che manifestano contro la mafia e poi non ho capito, secondo quale logica, la mafia non si possa nascondere in tutte e due o in nessuno dei due.

      "<i> Il terzo è tutt’uno con uno dei due litiganti</i>"

      Tu stai snidando la mafia nella cosiddetta antimafia e.. ne sei sicuro.

      Ti lascio alle tue sicurezze. Io resto con i miei dubbi e siccome  non è piacevole stare con la mannaia dell’ammonizione sul collo, lascerò tranquillo il tuo blog. Ciao Enrix.

    • anonimo 01:07 on 1 February 2010 Permalink | Rispondi

      Caro Sympatros,
      scusa se mi inserisco in questo vostro scambio  di pareri.
      I punti di vista sono tutti leggittimi, purchè non offensivi. Capisco che anche la definizione di ciò che possa essere "offensivo" è cosa non agevole, come può sembrare.
      Ma certamente qui in discussione non è in generele il leggittimo quanto lodevole dissenso contro la Mafia, ma il senso della verità. E qui permettimi di essere d’accordo con Enrix che, aldilà dei toni a volte forti, sta svolgendo il compito egregio di far vedere l’altra faccia dei fatti ed in maniera documentata.
      Non si può fare dell’Antimafia, con le stesse metodologie con cui si esprime l’"agire mafioso". Ossia con un "vincolo associativo" fatto di magistrati, giornalisti ed intellettuali, pronti a distruggere o ad oscurare chi non la pensa allo stesso modo, tanto da indurre al silenzio voci fuori coro, per l"’intimidazione" che deriva dal timore di essere additati come amico degli amici, solo perchè si ha  un approccio diverso ai fatti.
      O solo perchè passare sul tuo cadavere è utile per sostenere delle teorie che alla fine portano ad un nemico politico. 
      Questo è il punto vero. Mori e Obinu, tanto per fare degli esempi, hanno scelto, con la loro cultura istituzionale, di tacere mediaticamente e di difendersi nel processo. Allora le armi sono impari. perchè il processo mediatico nei loro confronti è già stato consumato, da un uomo da spettacolo come Ciancimino Massimo, ad esempio, e non solo.
      Riflettiamo su questo.
      Angelo Jannone
      p.s. ma che significa "bannare"

    • anonimo 02:18 on 1 February 2010 Permalink | Rispondi

      Caro Angelo non la conosco ma le dico subito che approvo i suoi ragionamenti riguardo l’antimafia all’Italiana.

      Approfitto della sua presenza su questo blog per chiederle alcune cose. Ho scoperto per la prima volta il suo nome accentrando l’attenzione su di lei pochi giorni fa leggendo il libro di Montolli "Il caso Genchi". Si parla di lei e del fatto che l’ha vista protagonista, l’inchiesta su Telecom Brasile

      Nel libro a pagina 328 trovo scritto che quanto riportato su Wikipedia non è affatto vero. Lei non è vittima di un complotto  ed i fatti non sono come spiegati su Wiki e come lei li descrive nel suo blog. Montolli spiega che lei ha evitato la galera proprio per aver confessato le proprie responsabilità.

      Il gip di Milano Giuseppe Gennari scrive che non la mandava in galera per la sua collaborazione, collaborazione che la portava a cambiare versione ed alla fine a dichiarare "Ho ceduto invece alla proposta di attacchi informatici perchè pensavo di rendermi in qualche modo utile, vista la mia situazione. Mi rivolsi a GHIONI chiedendogli se poteva mettermi in contatto con qualche Kacker per fare un lavoro di questo genere." (Tutto scritto nell’ordinanza di applicazione di misura cautelare e personale del gip del tribunale civile e penale di MIlano Giuseppe Gennari, del 25 ottobre 2007).

      Affermazioni che su Wikipedia sarebbero riportate al contario. Ho controllato ed effettivamente è così.

      Visto che è il diretto interessato riguardo questo specifico fatto, come sono andate veramente le cose? Le sarò grato se potrà dare un contributo alla verità.

      Gianluca

    • enrix007 16:11 on 1 February 2010 Permalink | Rispondi

      Ringrazio Angelo Jannone per il suo ottimo intervento.

      Nota tecnica: "bannare" significa inserire un filtro, in questo caso dello splinder , che impedisca ad un determinato PC, identificato dall’IP e dai coockies, di accedere ai commenti. 

    • anonimo 21:05 on 1 February 2010 Permalink | Rispondi

      Caro Enrix,
      non ti saranno certo sfuggite la dichiarazioni odierne di Massimino:

      http://www.repubblica.it/cronaca/2010/02/01/news/ciancimino_depone-2151180

      e la replica di Ghedini:

      http://www.apcom.net/newspolitica/20100201_184059_532fa2e_81838.html

      Nei giorni scorsi, mi stavo giusto chiedendo quando sarebbe arrivato un riferimento ai soldi di Berlusconi ed eccomi accontentato.
      Un  dichiarante così, "informato" a 360 gradi su tutti i misteri d’Italia  non si era ancora visto.

      anton

    • anonimo 17:01 on 3 February 2010 Permalink | Rispondi

      […]Le ultime rivelazioni di Ciancimino stanno facendo tremare i vetri dei Palazzi: quando Toto’ Riina fu “venduto” allo Stato da ‘o binnu, la condizione era che il covo di via Bernini non fosse perquisito. Perche’ quel “salvacondotto” che aveva garantito la latitanza di Toto’ ‘u curtu doveva passare direttamente nelle mani di Provenzano. Cosa c’era in quel famoso archivio che – dice Massimo Ciancimino – se venisse alla luce ora potrebbe far saltare il Paese? E dove e’ ora?
      Le domande si rincorrono. Ma l’unica, vera risposta sul punto l’aveva data involontariamente proprio il carabiniere che quel covo lo lascio’ incustodito: lui, il Capitano Ultimo Sergio De Caprio, agli ordini del generale Mori.

      I MORI E GLI ULTIMI
      Torna cosi’ in primo piano quanto la Voce aveva rivelato in esclusiva per la prima volta a maggio del 2005. E’ il 20 febbraio 2003. Dinanzi al giudice Gaetano Brusa, chiamato a pronunciarsi sulle presunte diffamazioni a De Caprio contenute nel libro di Attilio Bolzoni e Saverio Lodato “C’era una volta la mafia”, lo stesso Capitano Ultimo spiega le ragioni del suo risentimento: «leggendo il libro viene presentata in maniera sistematica la presenza di accordi illeciti tra Carabinieri e grandissimi personaggi mafiosi come Bernardo Provenzano, che e’ ancora latitante; attraverso questi accordi si sarebbe sviluppata tutta una serie di dinamiche che avrebbero consentito l’arresto di Riina, che ho operato io personalmente (…) si dice chiaramente che non e’ stato voluto perquisire il covo di Riina perche’ c’era un fantoma… un archivio, viene introdotta la presenza di un archivio di Riina, che e’ un fatto gravissimo perche’ a me non risulta da nessuna parte, l’esistenza di questo archivio e praticamente la … il patto e’: Riina e’ stato preso per strada perche’ in cambio gli hanno dato la possibilita’ di nascondere questo archivio, che l’avrebbe preso Provenzano per poter ricattare 3000 perso… ah, grosse personalita’». Ma «nel libro di Bolzoni – confermo’ alla Voce Caterina Malavenda, difensore dei due giornalisti – non si parlava di dossier e non si precisava alcun numero». Dalla viva voce del Capitano Ultimo, insomma, oggi sappiamo che quei nomi erano tremila. E che Massimo Ciancimino, almeno su quel punto, sta dicendo la verita’.
      Dopo essersi scagliato con violente invettive contro i giornalisti della Voce, “rei” di aver rivelato quel suo “lapsus”, quella “excusatio non petita”, oggi Ultimo torna in campo. Lo ha fatto alla grande, organizzando un’imponente manifestazione a Palermo per celebrare la Crimor, l’unita’ militare combattente del Ros cui aveva dato vita dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio e che fu disciolta nel ‘97 in seguito alle accuse di favoreggiamento della mafia a carico di De Caprio e Mori (dalle quali furono poi entrambi assolti in primo grado). C’erano proprio tutti: il suo vice Arciere, che fu trasferito alla “Territoriale” di Pinerolo (nel 2008 finito agli arresti domiciliari con l’accusa di concorso in estorsione per la vicenda del tesoro rubato dalla Palazzina di Caccia di Stupinigi), e poi Aspide, Barbaro, Nello, Omar, Vichingo e tutti gli altri. In carne e ossa mancava solo lui, Ultimo, collegato in videoconferenza “per motivi di sicurezza”. Il tuto condito dall’ugola d’oro di Gigi D’Alessio, «condannato il 2 aprile 2008 in primo grado – ricorda polemica la Associazione familiari vittime della mafia – a nove mesi di reclusione per il reato di lesioni aggravate dall’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (pena sospesa)».[…]
       

       

      Moritz
      http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=259

  • Avatar di enrix

    enrix 18:30 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi
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    Note ed appunti sui verbali di M. Ciancimino – 1 

    Note ed appunti sui verbali di Massimo Ciancimino

    teatrino2 Par. 1

    A pag. 95 del primo verbale, in data 7 aprile 2008, Massimo Ciancimino racconta di come suo padre, avute delle “piantine“, delle mappe, dal Capitano de Donno, le restituì dopo circa una settimana con le annotazioni relative alla presunta ubicazione del covo di Riina.

    CIANCIMINO: Questo me lo raccontò in carcere dopo alla fine, dice: non è difficile catturare RIINA, dopo che gli dico la pianta di dovè, gli segno la zona

    INGROIA: E allora suo padre come lo sapeva?

    CIANCIMINO: Mio padre me le diede io DE DONNO le diede a mio padre le piantine, io le diedi DE DONNO le diede a me, io le diedi a mio padre e mio padre le diede a me e io le diedi a DE DONNO.

    Quindi Vito Ciancimino affidò  nelle fidate mani del figlio “spaccone” (vedi pag. 103 del verbale) le mappe con le annotazioni per individuare il covo di Salvatore Riina (niente niente), perché le passasse a De Donno.

    INGROIA: E cerano annotazioni?

    CIANCIMINO: Sì, annotazioni, sì.

    INGROIA: Quindi allora

    A questo punto Ciancimino gioca d’anticipo sulla domanda che Ingroia sta per riformulare per la seconda volta, fornendo sin da subito una netta risposta: egli invita Ingroia a non domandargli come suo padre potesse essere a conoscenza dell’ubicazione del covo, poiché afferma di non saperlo.

    CIANCIMINO: Non mi chieda se come lo sapeva mio padre non lo so.

    Quindi Massimo Ciancimino, non lo sa, come suo padre aveva potuto indicare la localizzazione del covo sulle piantine. Pertanto chiede di non domandarglielo.

    Ma il magistrato incalza, e qualche secondo dopo domanda:

    INGROIA: io le domando se quello che suo padre indicò era frutto di conoscenza di suo padre o era frutto di  unacquisizione di informazione che suo padre fece

    CIANCIMINO: Di acquisizione di informazioni.

    Quindi lo junior invece lo sapeva, come suo padre aveva potuto indicare la localizzazione del covo sulle piantine: da informazioni acquisite. E non solo, spiega anche come fa a saperlo.

    INGROIA: con altri?

    CIANCIMINO: Di acquisizione di informazioni perché mio padre si è preso 24 ore di tempo.

     

    A questo punto, una volta spiegato e motivato di come suo padre aveva acquisito l’informazione da altri, cosa che dapprima Junior pensava di non sapere,  non resta che da chiarire da chi l’aveva acquisita, e perciò si da il via al ragionamento.

    INGROIA: Se lei sforzandosi riesce a individuare chi può avere incontrato suo padre

    CIANCIMINO: No.

    INGROIA: e potere avergli chiesto informazioni.

    E a questo punto, spunta il nome di Provenzano. Non ancora una certezza, ma solo un nome che lui “pensa dentro di sé”:

    CIANCIMINO: No, io dico che la seconda, la seconda fase proprio è stata fatta cioè non ha voluto escludere, è stata fatta per questo io dentro di me penso che sia stata fatta col, col diciamo col PROVENZANO, perché è stata fatta molto diretta, siccome so, mi ha sempre raccontato e come ho visto, neanche questo soggetto era uno che cera cioè era molto diretto lincontro, telefono, arrivo, non arrivo come ho detto a PANORAMA, questo telefonava: sto venendo cioè se telefonava questo mio padre doveva essere svegliato

    Allora i magistrati insistono perché ricordi meglio:

    DI MATTEO: lei a PANORAMA, credo di non sbagliare nel ricordo

    CIANCIMINO: Prego.

    DI MATTEO: anche se non ce lho qua larticolo, mi pare che affermò pure, comunque le faccio la domanda, che comunque in quel periodo del 92 suo padre ebbe modo di incontrare il PROVENZANO, o no? Cioè le ora sta dicendo: i contatti sono stati molto diretti

    CIANCIMINO: Sì, guardi

    DI MATTEO: Io, io chiedo, ma nel 92

    CIANCIMINO: Sì, sì

    DI MATTEO: o nel periodo

    CIANCIMINO: non so

    DI MATTEO: precedentemente alle stragi, successivamente, a cavallo

    CIANCIMINO: Sa cosè dottore, che non mi veniva più facile ricordare una faccia nuova come quel soggetto, una faccia nuova come il CINA che non uno che mi vedevo dai tempi di quando avevo 7 anni a casa, (Provenzano ndr) cioè

    DI MATTEO: Sì, però signor CIANCIMINO

    CIANCIMINO: Sì, capisco benissimo

    DI MATTEO: poi ovviamente quello è un periodo che anche nella sua memoria sarà rimasto più focalizzato rispetto a quando

     Ed ecco quindi che lo junior, stimolato,  comincia a focalizzare.

    CIANCIMINO: Mi sembra che lha incontrato      

    DI MATTEO: E questo come

    CIANCIMINO: o che abbia detto che aveva intenzione di vederlo, cioè mi sembra di aver capito questo però sa, non riesco a (inc.) glielo potrei man mano

    Quindi ci siamo quasi.  Partiti da una cosa da non chiedergli perché a lui ignota, si è dunque arrivati ad un probabile (…mi sembra…) incontro con Provenzano, od alla probabile intenzione di incontrarlo.

    Ma per il magistrato tanto basta per dar le cose come cotte e mangiate, perché alla domanda successiva procede dando per scontati gli incontri fra Vito Ciancimino e Provenzano:

    DI MATTEO: E anche fino a quando, fino a quando sono hanno avuto luogo questi incontri di suo padre con PROVENZANO?

    E a questo punto, quale interrogato si sentirebbe di contraddire quel PM?

    Abbiamo quindi assistito, in diretta, a come Provenzano sta diventando  un possibile suggeritore dell’ubicazione del covo di Riina  nella lucida deposizione di Massimo Ciancimino, uno dai ricordi e dalle idee chiare. Alla prossima puntata.    (1 – continua)

     
    • anonimo 12:51 on 26 January 2010 Permalink | Rispondi

      Siamo in buone mani……
      Maury

    • anonimo 14:27 on 26 January 2010 Permalink | Rispondi

      Se non ci fossero i verbali scritti pubblici, non crederei ad una riga … PURA FOLLIA.

    • anonimo 21:04 on 28 January 2010 Permalink | Rispondi

      In seguito alle rivelazioni di Massimo Ciancimino sulla presunta consegna di Riina alle forze dell’ordine da parte di Provenzano, ho trovato questo virgolettato, tratto da Repubblica del  5 novembre 2009, attribuito a De Caprio.


      In serata arriva la dura risposta del colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, il famoso "Capitano Ultimo" che, nel 1993 condusse le indagini che portarono alla cattura di Riina:
      "Ciancimino è uno dei tanti servi di Riina. Infatti è chiaramente falso che il boss sia stato arrestato in seguito alle dichiarazioni di Bernardo Provenzano. Ma la cosa più grave – aggiunge ‘Ultimo’ – è che ci sia qualcuno all’interno delle istituzioni che legittima questo servo di Riina. Questo significa evidentemente che i servi di Riina sono anche all’interno delle Istituzioni e certamente non sono il generale Mori e il capitano De Donno: forse sono gli stessi che hanno isolato e delegittimato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino".

      Anton Egger

    • anonimo 20:50 on 6 February 2010 Permalink | Rispondi

      Posso sapere dove hai preso i verbali? Grazie…

    • anonimo 21:28 on 6 February 2010 Permalink | Rispondi

      trovati grazie, comunque nell’archivio che hai sul tuo sito questo file non c’e', l’ho recuperato da censurati.it

    • anonimo 03:39 on 7 February 2010 Permalink | Rispondi

      Sempre su Censurati.it c’è riportata la replica di Ultimo alle dichiarzioni di novembre 2009 di Ciancimino Junior ad Annozero, Ultimo oltre a ripetere per l’ennesima volta le tante cose specificate nella SENTENZA, CHE ASSOLVE DEFINITIVAMENTE (la procura non ha fatto nessun ricorso in appello) LUI E MORI  PERCHE’ IL FATTO NON COSTITUISCE REATO, racconta alcune info che reputo interessantissime e che fanno capire meglio a tutti i fatti riguardo la mancata perquisizione del covo (ancora da trovare, visto che sapevano che stava in quella zona tra le villette di quel complesso).

      http://www.censurati.it/?q=node/3910

      Gianluca

    • MicheleElle 20:35 on 21 February 2010 Permalink | Rispondi

      Forse per i PM queste deposizioni sono ormai un inutile perdita di tempo. Ci sono le interviste ai giornali (Panorama, in questo caso)..quindi, perchè chiedergli le stesse cose?! Ormai i processi li fa la stampa.
      Lo sa bene Marco Travaglino, il più famoso GhostWriter delle Procure.

  • Avatar di enrix

    enrix 23:00 on 13 January 2010 Permalink | Rispondi
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    LA VERA STORIA DEL GENERALE MORI 

    © 2009 – FOGLIO QUOTIDIANO

    La vera storia di un grande carabiniere sotto processo, Mario Mori

    di Claudio Cerasa

     

    Se Leonardo Sciascia avesse conosciuto il generale Mario Mori prima di scrivere “Il giorno della civetta” il suo capitan Bellodi non sarebbe stato un giovane poliziotto con gli occhi chiari, i capelli scuri, il viso tirato e l’accento emiliano, ma sarebbe stato piuttosto un piccolo brigadiere triestino con i capelli bianchi, i baffi corti, la voce bassa, gli occhi azzurri, un curriculum da sballo, il vaffanculo facile facile e sei numeri che hanno cambiato la sua vita: 2789/90. Quelle del generale Mori e del capitan Bellodi sono due storie che viaggiano su binari paralleli: un uomo sceso dal nord per andare in Sicilia disposto a rompersi la testa per combattere la mafia, e che dopo essere riuscito ad arrestare il più temuto dei capi-cosca improvvisamente si ritrova contro ora i politici, ora gli avvocati, ora i magistrati, ora i giudici, ora le procure e ora naturalmente i giornali. E i giornali ne riparleranno presto del generale, e c’è da scommettere che non ne parleranno bene. Il 16 giugno del 2008 la procura di Palermo ha aperto un’indagine contro Mori per “favoreggiamento aggravato” a Cosa Nostra, e gran parte delle prossime settimane il generale le dedicherà a quel processo. Sarà in aula alla fine di gennaio, quando i giudici dovranno valutare se rinviarlo a giudizio oppure no.

    Di che cosa è accusato il capitan Bellodi? La procura di Palermo ha indagato Mori come responsabile della mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, ma il processo per favoreggiamento nasconde una storia molto particolare. A Mori è successa la stessa cosa capitata all’eroe di Sciascia: si è ritrovato di fronte a qualcuno che vuole riscrivere la storia di un periodo cruciale per l’Italia e che vuole offrire a uno dei protagonisti di quei giorni la parte dell’antagonista brutto, sporco, cattivo e, perché no?, pure compromesso. Il processo a Mori è un modo come un altro per tentare di dimostrare che una parte della stagione delle stragi, nel 1992, in particolare quella che coinvolse il giudice Paolo Borsellino, fu causata dallo stesso generale che “voleva a tutti i costi trattare con la mafia”. Ma molti non conoscono un particolare. In quegli anni Mori iniziò a raccogliere i suoi giorni in 29 agende a righe con la copertina rigida: dagli anni 80 a oggi non c’è appuntamento che Mori non abbia segnato su questi fogli, e dalla lettura di quelle pagine, tenute segrete per molto tempo, emergono delle verità molto interessanti.

    Roma, due dicembre 2009. Mario Mori siede dietro la scrivania al terzo piano di un ufficio che si affaccia a strapiombo su Piazza Venezia: ha lo sguardo vispo, gli occhi un po’ scavati, i capelli tagliati corti, le mani distese poggiate sulle cosce e un libricino aperto a pagina 37 con una “x” segnata a matita accanto a un aforisma di uno degli scrittori più amati dal generale, Giacomo Leopardi. Il dettato piace molto a Mori: “La schiettezza allora può giovare, quando è usata ad arte, o quando, per la sua rarità, non l’è data fede”.
    Il generale accetta di riceverci nel suo piccolo studio privato e inizia a raccontare come è cambiata la sua vita. Sono tante le ragioni per cui la carriera di Mori risulta affascinante ma vi è un aspetto che rende la sua storia molto significativa. Ed è la prima cosa che ti colpisce quando ti ritrovi di fronte a lui: ma come è possibile che un super sbirro, un grande carabiniere che ha acciuffato i capi di Cosa Nostra, che ha messo in galera tipacci come Toto Riina e che ha contribuito a smantellare numerose cupole mafiose sia, e sia stato, processato con le stesse accuse degli stessi criminali che per anni ha perseguito e arrestato? Vuoi vedere che forse c’è qualcosa, qualcosa della sua vita, qualcosa dei suoi anni a Palermo, qualcosa della sua esperienza al Sisde, che sfugge ai grandi accusatori di Mario Mori? Mori si è chiesto più volte le ragioni per cui la magistratura siciliana gli si è accanita contro, il perché di quelle pesantissime inchieste costruite con le parole di pentiti non proprio affidabili, i motivi per cui, dovendo scegliere se credere alle sue parole o a quelle di un pentito, i pm tendano a dare retta al secondo anziché al primo. E quando glielo chiedi il generale Mori che fa? Alza un po’ lo sguardo, gioca con i polsini della camicia, si dà un colpetto all’indietro sulla poltrona, allarga le braccia e poi sussurra: “Non so. Davvero. Proprio non so”.

    A Roma il generale c’è tornato da qualche mese: alla fine del 2008 il sindaco Gianni Alemanno gli ha offerto la direzione delle Politiche della sicurezza della Capitale e Mori ha accettato di tornare in quella città dove ha studiato per cinque anni al liceo classico (era al Virgilio nella sezione C negli stessi anni in cui Adriano Sofri era nella sezione D), dove ha seguito le lezioni dell’accademia delle Armi, dove ha lavorato con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e da dove ha iniziato a costruire la sua carriera, diventando nel corso degli anni prima comandante del gruppo carabinieri di Palermo (dal 1986 al 1990), poi comandante dei Ros (dal ’96 al 2000) e infine numero uno del Sisde (fino al 2006). Sono proprio questi – gli anni del Sisde, gli anni dei servizi segreti, gli anni in cui condusse le indagini sulla morte di Massimo D’Antona, sull’omicidio di Marco Biagi, sulle conseguenze italiane dell’undici settembre – i tempi in cui Mori rimase affascinato da alcune sottili ma importanti differenze tra il combattere la mafia e combattere il terrorismo. Mori era sorpreso dalla capacità di fare gruppo dei brigatisti, e da quel loro cerchio chiuso, quasi impenetrabile. Nei brigatisti – racconta Mori – vi era un livello culturale superiore alla media della criminalità e il loro era un legame ideologico non un legame familistico, di cosca o di sangue.

    Era proprio per questo che Mori riteneva fosse più semplice combattere il terrorismo piuttosto che Cosa nostra. “La mafia è come un tumore che si autoriproduce: è un mondo che resiste da molto tempo non tanto per la sua forza ma perché è una forma di costume che è legata a certe forme di cultura. I poliziotti e i magistrati potevano e possono arrestare tutti i mafiosi del mondo ma l’unico modo per distruggere alle radici la mafia – come già scritto anche da Marcelle Padovani in Cose di Cosa Nostra – è il tempo, la trasformazione dei costumi, la rivoluzione della cultura”.
    “Le Brigate rosse e tutte le forme di terrorismo italiane sono state invece una cosa diversa: una malattia circoscritta difficile sì da individuare ma per cui una cura esisteva: bastava solo trovarla”. Quando nella primavera del 2001 Claudio Scajola, ministro dell’Interno per un anno, chiamò Mario Mori per comunicargli che Silvio Berlusconi lo aveva appena nominato a capo dei servizi segreti, il generale pensava fosse uno scherzo. E lo credeva per due ragioni.

    La prima è che il presidente del Consiglio che l’aveva appena scelto Mori non lo aveva mai visto prima, se non una sera alla fine di una cena a Monza. La seconda era invece una ragione caratteriale. Il generale sostiene che le tecniche strategiche di chi lavora nell’arma e di chi lavora nell’intelligence presentano pochi punti di contatto, e offrire dunque a uno sbirro la gestione dell’intelligence nazionale, in teoria, potrebbe nascondere alcune difficoltà non solo metodologiche. “Siete pazzi! – disse senza neanche scherzare troppo Mori a Scajola – io di intelligence non ne so nulla, al massimo, se volete, potrei guidare il Sismi”.
    Racconta chi con Mori al Sisde ha lavorato a lungo che “il modo più semplice per spiegare i due diversi approcci alla criminalità che hanno forze dell’ordine e intelligence è che il poliziotto spera di catturare Osama bin Laden mentre l’uomo di intelligence, semplicemente, spera di acquisirlo come fonte. Sono due piani paralleli che non si vanno mai a incontrare. Perché l’immagine del James Bond che si arrampica sulle gru per sconfiggere le forze del male non esiste. Semmai, il rischio maggiore per un uomo di intelligence che passa le giornate a colazione, a pranzo e a cena per coltivare le fonti è quello di prendersi una cirrosi epatica”.
    Mori ha sempre sostenuto che individuare un grosso criminale, pedinarlo, poterne seguire le tracce e circoscriverne il raggio d’azione nasconde un problema non da poco. Che si fa? Si arresta subito il bandito o lo si segue per un po’ usandolo come esca per intrappolare nella rete della giustizia tutto ciò che lo circonda? Mori non lo confesserà mai, ma tra la prima e la seconda opzione lui sotto sotto ha sempre preferito la seconda.

    Chi ha vissuto a lungo a fianco di Mario Mori racconta che quando il generale arrivò al Sisde fu rivoluzionata l’intera impostazione del lavoro. Prima di Mori, i servizi segreti tendevano a lavorare con quella che in gergo è definita “pesca a strascico”: una gigantesca rete che intrappola tutti i pesci, grandi e piccoli, che nuotano nel raggio d’azione dell’intelligence. Quando Mori arrivò al Sisde spiegò che la pesca doveva diventare subacquea. Perché la tecnica a strascico – era questa l’idea del generale – funziona quando un servizio segreto dispone di centinaia di migliaia di uomini, ma quando il numero delle truppe è parecchio inferiore la raccolta di informazioni deve essere più precisa, più mirata. E così, non appena arrivato, Mori scrisse un libriccino di cento pagine di procedura investigativa, lo fece pubblicare e lo inviò ai dirigenti dei servizi. A poco a poco, i risultati iniziarono ad arrivare.

    Negli anni passati al Sisde c’è un arresto particolare che il generale ricorda più degli altri. Il 13 luglio 1979 una scarica di pallettoni sparati da un’auto in corsa ferì a morte il comandante del Nucleo carabinieri del tribunale di Roma Antonio Varisco; e quel comandante Mori lo conosceva molto bene. Per anni e anni, i servizi segreti italiani hanno tentato di arrestare il killer, e il 15 gennaio del 2004 il Sisde diede istruzione a venti poliziotti egiziani di fermare due persone all’aeroporto del Cairo: i nomi erano quelli di Rita Algranati e Maurizio Falessi, ricercati, tra le altre cose, per l’omicidio di Varisco. Fu uno dei giorni più gratificanti della carriera del generale. Il perché lo spiega lui stesso: “Non dobbiamo essere sciocchi. Chi dice che la pretesa punitiva dello stato non esiste non capisce nulla. Quel giorno passò un messaggio molto importante. Fu un arresto chiave per disgregare la rete terroristica ma fu un anche un segnale chiaro: ci sono alcuni reati che più degli altri non possono essere impuniti. E uccidere un carabiniere è esattamente uno di quelli”.

    Gli anni che però formarono davvero il generale Mori furono altri. Furono quelli che trascorse in Sicilia: prima nel nucleo provinciale dei carabinieri e poi nei Ros. Non appena arrivato a Palermo, il generale comprese subito quanto fosse importante riuscire a creare una sorta di sintonia linguistica tra sbirri e mafiosi. Mori ci riuscì, ma solo dopo aver preso una piccola batosta. La prima lezione per Mori arrivò da un piccolo appartamento sulla costa occidente della Sicilia: ad Altavilla. Dopo aver ricevuto la notizia della morte di un carabiniere, i suoi uomini andarono sul posto, entrarono con i guanti di paraffina dentro una vecchia casa colonica, perquisirono le stanze, fecero perizie, raccolsero più notizie possibili e interrogarono molti testimoni: la maggior parte dei quali diceva di non aver visto nulla. Alla fine della giornata, Mori si ritrovò a parlare con un vecchio abitante del paese che al termine del colloquio – a lui che era un triestino con mamma casalinga emiliana, padre ufficiale dei carabinieri a La Spezia, bisnonni inglesi e, come ama ripetere il generale, una formazione culturale sfacciatamente mitteleuropea – gli disse: “Piemontese, chi minchia voi da noi?”. Quelle parole Mori se le ricorderà a lungo e il significato profondo dell’essersi sentito dare del piemontese lo comprese poco più avanti quando fu nominato comandante del primo comando territoriale di Palermo.

    Mori ricorda infatti che in quegli anni capitava spesso che la notte le pareti della caserma non trattenessero le parole degli sbirri che interrogavano i mafiosi, e ascoltando quei dialoghi, dagli accenti così marcatamente differenti, si rese improvvisamente conto che in quel nucleo operativo che lavorava nella Sicilia occidentale, beh, il più meridionale tra i suoi colleghi era un campano. Non parlare il linguaggio della Sicilia, e più in particolare non entrare a fondo nel lessico dei mafiosi, secondo il generale era il modo migliore per non capire come portare avanti un’indagine, e questo Mori se lo mise bene in testa: lavorò molto sulla sua pronuncia, iniziò a studiare il siciliano e alla fine ottenne buoni risultati, riuscendo a poco a poco a entrare sempre di più a contatto anche con la grammatica della mafia.
    “In quegli anni – racconta un uomo che ha lavorato a lungo a fianco di Mori nei Ros – il generale diceva che far proprio il linguaggio dei mafiosi significava non solo avere le carte in regola per lavorare con maggiore efficienza ma anche avere la possibilità concreta di salvare con un certo successo il culo.

    Le lezioni di Mori erano due. Lui, che aveva imparato a non fidarsi eccessivamente dei collaboratori di giustizia, diceva che per definizione il pentito mafioso va preso con le pinze perché un pentito resta sempre un mafioso, e alla fine – qualsiasi cosa ti dirà e qualsiasi verità racconterà – in un modo o in un altro tenterà sempre di compiere un atto utilitaristico per la sua famiglia. La seconda cosa che ripeteva era che il mafioso ti faceva ammazzare solo quando il, chiamiamolo così, rapporto tra sbirri e criminale diventava un rapporto personale: tra me e te. Per questo, Mori ci diceva che tu puoi umiliare un mafioso magari ammanettandolo davanti a una moglie ma non era il caso di farlo quando veniva acciuffato nel cuore della sua vera intimità: per esempio davanti alla sua amante”.
    Il più grande successo ottenuto da Mori arrivò il 15 gennaio 1993 di fronte al numero 54 di via Bernini, a Palermo, quando il generale fece arrestare lui, il capo dei capi: Totò Riina. Paradossalmente, però, accadde che l’arresto del mafioso più ricercato al mondo coincise con la proiezione delle prime ombre attorno alla carriera del generale. Tutto cominciò poco dopo l’arresto. Per quindici giorni, l’abitazione del boss corleonese non fu perquisita e in molti sostennero che la mancata perlustrazione di quelle stanze fosse un modo come un altro per dare la possibilità ai mafiosi di ripulire l’abitazione e cancellare le proprie tracce. Mori – ricordando che le indagini vengono sempre coordinate dalla procura e che qualsiasi imput, prima ancora che dai capi dell’arma, deve arrivare da lì – sostiene che fu la procura a non dare l’ordine di perquisire, ma nonostante ciò nel 1997 la procura di Palermo aprì un’inchiesta sulla vicenda a carico di ignoti, “per sottrazione di documenti e favoreggiamento”.

    L’indagine andò fino in fondo: nel 2002 i magistrati chiesero l’archiviazione ma il gip dispose nuove indagini. Due anni dopo stessa storia: i pm chiesero ancora una volta l’archiviazione ma questa volta lo fecero in un modo originale: poche paginette per chiedere di archiviare e cento pagine per picchiare duro sull’indagato. A firmare quella richiesta furono i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Michele Prestipino, che chiesero di chiudere il caso con queste concilianti parole: gli indagati, non perquisendo per diversi giorni il covo, “fornirono ai magistrati indicazioni non veritiere o comunque fuorvianti”. Inoltre, la sospensione dell’attività di osservazione del covo “determinerà un’obiettiva agevolazione di Cosa nostra”. Il nome di Mario Mori entra così nel registro degli indagati il 18 marzo 2004: pochi mesi più tardi – era il 18 febbraio 2005 – Mori e il suo braccio destro Sergio De Caprio (l’ufficiale dei carabinieri che ha lavorato a lungo a fianco del generale e che il 15 gennaio 1993 ammanettò Totò Riina) vengono rinviati a giudizio e un anno dopo il processo si conclude con un’assoluzione.
    Tutto finito? Macché.

    Dopo essere stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato per non aver perquisito l’abitazione – e non il covo, che è cosa diversa – in cui è stato arrestato Salvatore Riina, Mori si trova costretto a difendersi da altre accuse. E da una in particolare. Perché il generale non ci gira attorno, e quando ha saputo di essere indagato ancora una volta per favoreggiamento dice che è stato certamente quello il giorno più brutto della sua vita: perché è come se la procura lo avesse sostanzialmente accusato di essere stato la causa scatenante della strage di via D’Amelio.
    Nel processo in cui Mori dovrà difendersi in aula il 29 e il 30 gennaio, il principale testimone dell’accusa è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio. L’eroe della procura di Palermo, nonché principale testimone del processo contro il generale Mori, è però un personaggio dal passato molto controverso. Controverso perché il grande accusatore di Mori è uno degli uomini che fu denunciato dallo stesso generale. La storia è nota ma può essere utile ricordarla. Il generale Mori contribuì all’arresto di Riccio e fu uno dei primi a denunciare i reati commessi dal colonnello a metà degli anni 90. All’origine dei guai di Riccio vi fu la famosa Operazione Pantera. In quell’occasione – erano gli anni 90 – fu sequestrata una partita di pesce congelato da 33 tonnellate. Nascosto tra il pesce vi erano 288 chili di cocaina proveniente dalla Colombia.

    Tre mesi dopo il pesce fu venduto sottobanco dai carabinieri per 54 milioni. L’operazione Pantera costò a Riccio due reati. Non soltanto contrabbando aggravato ma anche detenzione e cessione di stupefacenti: perché nel corso dell’operazione, secondo l’accusa, il colonnello occultò cinque chili di cocaina sottratti alla distruzione del reperto da uno dei suoi uomini (si chiamava Giuseppe Del Vecchio).
    Così, dopo essere stato condannato in primo grado a 9 anni e mezzo e poi, in secondo grado, a 4 anni e 10 mesi, nel 2001 Riccio chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano e la morte di Luigi Ilardo”. E’ una storia complicata quella di Riccio: l’ex colonnello sostiene che nel 1995 il suo confidente Ilardo (trovato morto pochi mesi dopo) offrì la possibilità di catturare Bernardo Provenzano; racconta che i suoi uomini avrebbero seguito Ilardo fino al bivio di Mezzojuso – un piccolo comune di 3.711 abitanti a 34 chilometri da Palermo – che si sarebbero appostati in attesa del via libera e che Mori disse di non voler agire. Mentre – dice Riccio – noi “eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire”. Le deposizioni di Riccio sono però contestate. Uno dei testimoni dell’accusa, l’ufficiale dei carabinieri Antonio Damiano che nel ’95 prestava servizio al Ros di Caltanissetta, lo scorso 10 novembre ha raccontato una versione diversa.

    Damiano sostiene infatti di essere stato incaricato da Riccio di effettuare “un’osservazione con rilievi fotografici” al bivio di Mezzojuso ma il punto è che in quello che Riccio considera il mancato arresto di Provenzano non solo era già stato concordato preventivamente che l’operazione avrebbe avuto la finalità di studiare il territorio ma il grande accusatore di Mori, nonostante la relazione di servizio di quel giorno riportasse la sua presenza, in realtà – lo ammette Damiano – non era affatto presente: era rimasto in ufficio.
    A ogni modo, le parole di Riccio hanno offerto alla procura la possibilità di fare due calcoli rapidi rapidi: la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 più la mancata cattura di Provenzano nel 1995 sarebbero “strettamente connesse” alla presunta trattativa tra apparati dello stato e Cosa nostra. E’ proprio questa la tesi di uno degli uomini che alla fine di gennaio verrà ascoltato come teste dell’accusa nell’aula bunker del carcere Ucciardone: Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. Tesi che in sostanza si potrebbe riassumere così: Borsellino sarebbe stato ucciso dopo che il giudice venne a conoscenza della trattativa portata avanti tra la mafia e lo stato condotta in prima persona da suo padre e dal generale Mori. Borsellino era contrario alla trattativa e per questo, per evitare problemi, la mafia lo fece saltare in aria.

    La cronaca di quei mesi offre però una storia un po’ diversa e gran parte della verità di tutta la vicenda sembrerebbe proprio girare attorno a quel codice lì: 2789/90. Il codice fa riferimento a una delle inchieste più delicate che le forze dell’ordine portarono avanti durante gli anni 90 in Sicilia. Tutto nacque nel corso del 1989: in quegli anni Mori era già a capo del gruppo dei carabinieri di Palermo e sotto la direzione di Giovanni Falcone avviò l’inchiesta sul sistema di condizionamento degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra. Il primo plico contenente le informative sull’indagine fu consegnato il 20 febbraio del 1991 da Mori al procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. Ancora oggi Mori ricorda che “Giovanni sollecitò insistentemente il deposito dell’informativa rispetto ai tempi che ci eravamo prefissati per una ragione semplice: perché – diceva Falcone – non tutti vedevano di buon occhio l’indagine, e alcuni sicuramente la temevano”. In quei giorni, il giudice stava però per essere trasferito alla direzione degli affari penali del ministero della giustizia, e da Palermo dunque si stava spostando a Roma. Ma quell’inchiesta – ricorda il generale – lui voleva seguirla lo stesso e per questo Mori continuò a mantenere i contatti con Falcone. E fu proprio il giudice a riferire al generale che l’inchiesta “Mafia e appalti” non interessava più di tanto al nuovo procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco. Era davvero così?

    Fatto sta che al termine dell’inchiesta “Mafia e appalti” i Ros di Mori avevano evidenziato 44 posizioni da prendere in esame per un provvedimento restrittivo ma il 7 luglio del 1991 la procura ottenne soltanto cinque provvedimenti di custodia cautelare. Mori si arrabbiò e chiamò subito Falcone. La reazione del giudice è riportata dai diari consegnati alla giornalista di Repubblica Liana Milella, e fu questa: “Sono state scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”.
    Non solo. Pochi giorni dopo che Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno consegnarono il rapporto alla procura di Palermo vi fu una fuga di notizie. De Donno ne venne a conoscenza attraverso il suo informatore Angelo Siino (il così detto ex ministro dei Trasporti pubblici di Cosa nostra) che raccontò ai Ros di aver saputo dell’inchiesta da fonti vicine alla procura. “Mai come in quei mesi – racconta Mori – ebbi la sensazione di agire da solo e senza referenti certi a livello giudiziario”. Successivamente, ci furono altre due valutazioni che fecero infuriare il capitano dei Ros. La prima fu quando il Tribunale del riesame consegnò agli avvocati difensori degli indagati e degli arrestati non uno stralcio dell’informativa relativa ai singoli indagati, come da prassi, ma qualcosa di più: ovvero tutte le 890 pagine di testo. “In quel modo – ricorda Mori – furono svelati i dati investigativi fino a quel momento posseduti dall’inquirente e furono chiare le direzioni che le indagini stavano prendendo”.

    La seconda fu quando la procura di Palermo – ravvisando la competenza sul caso di più procure – inviò i fascicoli in mezza Sicilia ottenendo il risultato di moltiplicare il numero di occhi che osservavano da vicino quell’inchiesta. Ecco: secondo Mori il filo che lega le stragi di quell’anno – l’anno in cui furono uccisi nel giro di poche settimane prima Falcone e poi Borsellino e poi ancora un comandante della sezione di Perugia che insieme con i Ros aveva iniziato a lavorare su “Mafia e appalti”: Giuliano Guazzelli – sarebbe legato all’attenzione che Mori e Borsellino credevano fosse opportuno dare a quell’inchiesta, a quel codice maledetto. Poco prima di essere ucciso, infine, Borsellino partecipò a un incontro molto importante. Era il 25 giugno 1992 e il magistrato convocò in gran segreto nella caserma di Palermo – dunque negli uffici dei Ros – Mario Mori e il capitano De Donno. Borsellino confessò ai due che riteneva fondamentale riprendere l’inchiesta “Mafia e appalti”. Perché – sosteneva Borsellino – quello “era uno strumento per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra e gli ambienti esterni con cui essa si relazionava”. Qualche anno più tardi, nel novembre 1997, nel corso di un’audizione alla Corte d’assise di Caltanissetta, a confermare che Paolo Borsellino credeva che studiando il filone “Mafia e appalti” si poteva giungere “all’individuazione dei moventi della strage di Capaci” fu uno dei pm che oggi indaga su Mori: il dottor Antonio Ingroia.

    Le ragioni per cui l’incontro nella caserma dei carabinieri di Palermo fu mantenuto segreto vennero ammesse in quelle ore dallo stesso Borsellino. Ricorda Mori che Borsellino “non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell’incontro”. “E nel salutarci – prosegue Mori – il dottor Borsellino ci raccomandò la massima riservatezza sull’incontro e sui suoi contenuti, in particolare nei confronti dei colleghi della procura della Repubblica di Palermo”. Secondo il generale, in quei giorni Borsellino era molto preoccupato per una serie di fatti accaduti. Uno in particolare era legato a una data precisa. Il 13 giugno 1992 uno dei mafiosi arrestati dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta “Mafia e appalti” – il geometra Giuseppe Li Pera – si mise a disposizione degli inquirenti dicendo di essere disposto a svelare “gli illeciti meccanismi di manipolazione dei pubblici appalti”, ma i magistrati di Palermo risposero dicendo di non essere interessati. “Sì, è vero: i fatti di quei tempi – ricorda Mori – mi portarono a ritenere che anche una parte di quella magistratura temesse la prosecuzione dell’indagine che stavamo conducendo”.

    Pochi giorni dopo l’attentato in cui rimase ucciso Paolo Borsellino, Mori iniziò a stabilire contatti con l’uomo che all’epoca impersonificava meglio di tutti la sintesi perfetta dei legami collusivi tra mafia, politica e imprenditoria: l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Tra il 5 agosto e il 18 ottobre 1992, Ciancimino e Mori si incontrarono quattro volte (prima di quella data con Ciancimino vi furono dei contatti preliminari del braccio destro di Mori, De Donno) e iniziarono così a costruire un rapporto confidenziale senza renderlo però noto alla procura di Palermo. Mori non comunicò subito i contatti che aveva stabilito con Ciancimino per tre ragioni. Primo perché – e lo dice la legge – i confidenti delle forze dell’ordine non devono essere necessariamente rivelati alla procura. In secondo luogo – e queste sono parole di Mori – fu fatto “per evitare premature e indesiderate attenzioni sulla persona e per tentare di acquisire elementi informativi sicuramente nella disponibilità del Ciancinimo e cercare di giungere a una piena e formale collaborazione”. Infine, è ovvio: se ci fosse stato Borsellino, dice Mori, “glielo avrei detto subito”. Ma quando Mori parlò con Ciancimino, Borsellino era già stato ammazzato.

    Nonostante in molti sostengano che Mori avesse mantenuto a lungo segreti quei colloqui, in realtà gli incontri tra Mori e Ciancimino non sono una novità di oggi. Nell’autunno 1993 fu lo stesso Mori a raccontare all’allora presidente della Commissione antimafia Luciano Violante non soltanto dei suoi incontri con Ciancimino ma anche della volontà di quest’ultimo di essere ascoltato dalla commissione. Mori lo disse più volte a Violante e ogni volta che Violante se lo sentiva ripetere gli rispondeva più o meno allo stesso modo. Ponendo una condizione: “L’interessato – disse Violante il 20 ottobre 1992 nel corso di un incontro riservato con Mori – deve presentare un’istanza formale a riguardo”. Il 29 ottobre 1992, quindi, Violante convocò la commissione per spiegare qual era il suo programma di lavoro sulla materia che riguardava le inchieste sulla mafia e la politica. Nel verbale di quella seduta, tra le altre cose, si legge quanto segue: “E’ necessario sentire quei collaboratori che possono essere particolarmente utili”.

    Violante fece un lungo elenco di “collaboratori”, e tra questi c’era anche Vito Ciancimino. Ecco però il giallo: giusto tre giorni prima che Violante riunisse la commissione, Ciancimino si decise a scrivere una lettera. Una lettera datata 26 ottobre 1992 indirizzata a Roma, alla sede della commissione antimafia di Palazzo San Macuto. In calce alla lettera – che negli archivi della commissione sarà registrata solo diversi anni dopo con il numero di protocollo 0356 – c’è la firma di Vito Ciancimino. Il quale sostiene di essersi messo a disposizione della commissione già dal 27 luglio 1990, e di aver ormai accettato le condizioni che aveva posto per l’audizione il predecessore di Violante (Gerardo Chiaromonte): audizione sì ma senza quella diretta televisiva che secondo Ciancimino era necessaria per essere “giudicato direttamente e non per interposta persona”. Scrive l’ex sindaco di Palermo: “Sono convinto che questo delitto (quello di Lima, ex sindaco di Palermo ed ex eurodeputato della Democrazia cristiana che il 12 marzo 1992 fu ucciso a colpi di pistola di fronte la sua villa di Mondello) faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta commissione antimafia, se vorrà ascoltarmi”. Nonostante Violante avesse detto che avrebbe ascoltato Ciancimino solo se questi avesse fatto una richiesta formale alla Commissione, la commissione antimafia ricevette la lettera ma decise di non ascoltarlo.

    C’è poi un altro aspetto che della storia di Mori non può essere trascurato. Perché la storia di Mori è l’esempio di come una visione burocratica della lotta alla mafia non contempli la possibilità che un super sbirro possa imparare a combattere il nemico studiandolo, osservandolo da vicino, tentando persino di parlare con il suo stesso linguaggio. E con ogni probabilità il grande peccato originale di Mori è stato quello di essere diventato un simbolo della lotta alla mafia senza aver avuto bisogno di indossare l’abito del professionista dell’antimafia. Anzi, quell’antimafia con cui Mori ha lavorato fianco a fianco per anni è stata spesso ferocemente criticata dallo stesso generale. E sulla testa di Mori la scomunica dell’antimafia palermitana arrivò quando il generale testimoniò nel processo Contrada: l’ex agente del Sisde è stato arrestato il 24 dicembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quando Mori fu sentito come teste non si scompose affatto e, dopo aver detto che Contrada era il “miglior poliziotto antimafia che abbia mai avuto a Palermo”, il generale disse quello che la procura di Palermo non voleva sentire. Gli chiesero se Giovanni Falcone avesse mai sospettato di Contrada e lui rispose secco così: no. La procura aveva un’altra idea e indagò persino Mori per falsa testimonianza.

    Ma dietro alle accuse di connivenza fatte nei confronti del lavoro siciliano di Mori esiste anche un filone di critica culturale di cui ultimamente si è fatto portavoce lo scrittore Andrea Camilleri. La visione burocratica della lotta alla mafia ti trascina spesso anche verso conclusioni molto avventate e ti porta a credere che stabilire contatti con il nemico, studiare da dentro il suo mondo, arrivando persino a parlare il suo lessico, significhi sostanzialmente diventare suo complice. In una recente intervista, Camilleri sostiene che Leonardo Sciascia era molto affascinato da quella mafia che sembrava invece combattere. La dimostrazione pratica è nascosta dietro alcune parole del protagonista del Giorno della civetta. Sempre lui: il capitano Bellodi. “Sciascia – dice Camilleri – non avrebbe mai dovuto scrivere ‘Il giorno della civetta’: non si può fare di un mafioso un protagonista perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del romanzo, invece giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – ‘omini, sott’omini, ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce coll’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue.

    E il fatto che Sciascia faccia dire dal capitano Bellodi a don Mariano mentre lo va ad arrestare ‘Anche lei è un uomo’ è la dimostrazione che in fondo Sciascia la mafia l’ammira e la stima”.
    La mafia sembra invece che non apprezzò le inchieste portate avanti da Borsellino e da Mori. Pochi giorni dopo aver tentato di accelerare le indagini sull’inchiesta “Mafia e appalti”, in una 126 rossa parcheggiata in via d’Amelio, nel cuore ovest di Palermo, esplosero cento chili di tritolo e uccisero il giudice Borsellino e i suoi cinque agenti della scorta. Era il 19 luglio 1992. Solo un giorno dopo, quando ancora la camera ardente di Paolo Borsellino non era stata neppure aperta, la procura di Palermo depositò un fascicolo con una richiesta di archiviazione. Sopra quel fascicolo c’era un codice fatto di sei numeri: 2789/90.
    Era l’inchiesta “Mafia e appalti”.

    © 2009 – FOGLIO QUOTIDIANO

     
    • anonimo 13:29 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      Grazie paolo della precisazione che non conoscevo, sul resto delle mie domande sai qualcosa?

      Gianluca

    • anonimo 15:34 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      PER COMMENTO 3

      Grazie dell’interessantissimo articolo che mi hai postato, nello stesso Mori intervistato dice:

      "Non perquisimmo subito l’ appartamento di Riina perche’ , e me ne assumo tutta la responsabilita’ , il capitano Ultimo pensava che potesse essere ancora "caldo". Quel che resta sono stupidi sospetti all’ italiana"

      Che significa ancora caldo? E poi nell’immediato subito dopo l’arresto si conosceva o no con precisione qual’era l’appartamento?

      Riguardo Canale è stato assolto in appello con motivazioni mandate dopo 13 mesi … ed è news di novembre ricorso in cassazione, che schifo!

      ASSOLUZIONE IN APPELLO

      http://www.siciliainformazioni.com/giornale/cronaca/italia/23841/assolto-tenente-canale-braccio-destro-borsellino-appello-stato-accusato-concorso-esterno-associazione-mafiosa.htm

      RICORSO IN CASSAZIONE
      http://www.antimafiaduemila.com/content/view/21520/48/

      Gianluca

      P.S. La news del ricorso in cassazione è così allucinante che è anche complicata da trovare in rete ed a riguardo ci sono pochi link .

    • anonimo 17:59 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ciao Gianluca,
      Vado di fretta e mi sembra mancanza di rispetto per il titolare del blog postare " amemoria", come fatto per la risposta precedente,

      ad ogni modo.
      1, corretto, quando fu arrestato riina si conosceva il- grande-  complesso immobiliare ma non l’esatta ubicazione dell’appartamento.
      2. scrivi bene, caselli si era insediato il giorno stesso: ha avallato il parere anzitutto di Ultimo. Al processo ha confermato il tutto.
      La perquisizione era tecnicamente impossibile anche per il fatto che quasi subito l’ingresso del complesso immobiliare era pieno di giornalisti, informati da Ripollino, malgrado la cattura fosse avvenuta in altro luogo.
      3. non ricordo bene il particolare. Posso solo dire che è coerente con una assoluzione con formula piena sulla quanle uno a caso, travaglio, spende parole durissime dopo averci dilettato di lampioni e cassaforti.

      Mi scuso nuovamente se per fretta vado un po’ a memoria e non indico fonti specifiche.
      Posso dire con certezza che buona parte se non gran parte delle informazioni derivano dalla lettura delle analisi di enrix :)
      Ciao. Paolo

    • anonimo 19:20 on 17 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ciao Enrix, sono Moritz, una segnalazione.
      Un tale avvocato Fabio Repici dice, ripreso anche dal sito di Borsellino (ammazza che dichiarazioni!):
       
      “Del ROS dopo la guida del generale Subranni è arrivato il momento del Generale Mario Mori. Il Generale Mario Mori è il responsabile della mancata perquisizione al covo di Riina. Tanti blaterano di una sentenza di assoluzione che gli ha restituito l’onore. Allora, per chiarire, il Generale Mori e il colonnello Sergio De Caprio dalla sentenza di assoluzione sono rimasti definitivamente svergognati perché, con quella sentenza di assoluzione, si è sancito che essi hanno omesso di perquisire il covo di Riina, sono assolti non per non aver commesso il fatto, ma solo perché il tribunale ha ritenuto che non era stato provato il dolo. L’hanno fatto, ma solo per colpa, inavvertitamente.”
      "Altro personaggio – qui rasentiamo il cabaret – che ha contraddistinto il ROS nella seconda Repubblica, è un personaggio che avrebbe un nome e un cognome, che però, come nei fumetti, si fa chiamare per pseudonimo. Ora, ci sono stati esimi esempi di ufficiali nobili ed integerrimi nella storia dell’arma dei carabinieri: Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Capitano D’Aleo, il Capitano Basile. Ma voi ve lo immaginereste uno di questi personaggi che si fosse fatto chiamare con uno pseudonimo? Gli avrebbero riso in faccia. Non lo fecero. C’è invece un personaggio, che in teoria all’anagrafe si chiama Sergio De Caprio, che però è conosciuto con lo pseudonimo di Capitano Ultimo perché si sente evidentemente un personaggio dei fumetti. E’ un altro dei responsabili della mancata perquisizione al covo di Riina ed è uno dei personaggi – è un poveretto da come si propone – sui quali è però più difficile parlare, perché appena si cerca di mettere il dito sulle gravissime pecche di quell’ufficiale, ci sono personaggi, anche dell’antimafia ufficiale, che subito saltano in piedi e gridano allo scandalo. Perdonatemi, ma, con i personaggi da fumetti, investigazioni serie non se ne fanno e la storia del ROS è la prova di questo. Non è un caso, per altro, che i supporter di quegli ufficiali del ROS, di questi tempi, sono gli stessi supporter di Bruno Contrada, o gli stessi supporter dei servizi deviati."
       
      http://www.antimafiaduemila.com/content/view/23762/48/

    • anonimo 00:16 on 18 January 2010 Permalink | Rispondi

      Per Moritz

      Penso che basta leggere quello che scrive per capire il livello di questo avvocato. Tra l’altro sulla sentenza conclude con il comunicare che i giudici hanno confermato che il covo non è stato perquisito (cosa vera) ma non c’era dolo COME DIRE CHE E’ UNA STUPIDAGGINE IL MANCATO DOLO, peccato non ci racconti pure che Caselli diede l’ok e sapeva tutto, peccato non ci racconti che la presunta cassaforte rimase intatta, peccato non ci racconti che al momento dell’arresto non si sapeva con precisione quale era l’appartamento dove stava Riina, peccato non ci dice che causa soffiate alcuni giornalisti erano nella zona con il rischio di bruciare futuri indagini … ma per l’avvocato queste sono piccolezze da cartone animato …

      Gianluca

    • enrix007 12:41 on 18 January 2010 Permalink | Rispondi

      E’ incredibile la mobilitazione generale contro questi carabinieri che hanno catturato Riina.  Molto utile soprattutto per dare una buona immagine della lotta contro il crimine della loro città ai giovani palermitani.

      Questa serà probabilmente posterò un articolo, per rispondere a tutte queste bassezze, questo pattume.

    • anonimo 21:49 on 24 January 2010 Permalink | Rispondi

      Post di Angelo Jannone che parla dell’avvocato Repici.

      http://ilblogdiangelojannone.blogspot.com/2010/01/nel-nome-dellantimafia.html

    • anonimo 21:51 on 24 January 2010 Permalink | Rispondi

      Scusate, dimentico sempre la firma, chiamiamola così.
      Allora aggiungo un documento un po’ datato, la lettera di Olindo Canali, magistrato, in cui si parla anche dell’avvocato Repici.

      http://blog.libero.it/lavocedimegaride/6781985.html

      bart_simpson

    • anonimo 00:16 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ho letto sul libro di Montolli "il caso Genchi" alcune dichiarazioni fatte da Jannone ai magistrati che sono delle auto accuse, sempre però nascoste ai media.

      Viene anche descritto come persona molto abile a gestire le news on line (riportando notizie non vere a suo riguardo su Wikipedia) e sullo stesso ancora non mi sono dilettato a cercare in rete. Tu lo hai fatto? Sai qualcosa relativi i processi che aveva in corso?

      Gianluca

    • enrix007 09:26 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi

      Guardate, a me non frega niente chi sia ‘sto Repici. E semplicenente uno che ha scritto che i cc che arrestarono il capo dei capi della mafia latitante da decenni, sarebbero stati "svergognati" dal fatto che nella sentenza c’è scritto che non hanno comunque rispettato il regolamento di polizia, anche se tale infrazione è stata commessa senza dolo e non ha avuto, nè poteva avere, alcuna conseguenza sulle indagini.

      Quindi è semplicemente n’ommem-bip-.

    • anonimo 14:07 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi

      Su Repici sono assolutamente d’accordo con te Enrix. Sarebbe interessante capire qualcosa anche su Jannone visto che da ex ROS viene utilizzato per attaccare gli stessi accostandolo  a Mori ad Ultimo ed ai tanti che NON DEVONO VERGOGNARSI DI NULLA (almeno fino a prova contraria e nonostante gli stiano facendo le pulci, queste prove contrarie ancora non sono uscite fuori).

      Gianluca

    • anonimo 18:15 on 14 January 2010 Permalink | Rispondi

      Articolo molto interessante.  Vorrei chiederti caro Enrix alcune precisazioni.

      1- L’articolo quando introduce per la prima volta l ‘argomento mancata perquisizione del covo o appartamento, fa passare un piccolo particolare che E’ ERRATO SE MI RICORDO BENE. All’inizio nell’immediato post arresto di Riina, arresto avvenuto per strada (nella zona presidiata) e dentro NESSUN APPARTAMENTO, non si sapeva neanche con precisione quale fosse l’appartamento in questione. Si sapeva che era in quella zona, basta. Mi ricordo bene Enrix ho in testa i miei ricordi sono sbagliati?

      2- Ho letto sempre nello stesso paragrafo che Mori afferma che avrebbe avuto l’input dalla procura di non fare la perquisizione, mentre i ricordo tutt’altra cosa e precisamente che ritenevano (Mori ed Ultimo) più corretto agire così ed informarono del loro piano Caselli (appena insediatosi) che diede l’ok, visto che la parola finale spettava a Caselli.  E’ un imprecisazione del giornalista che ha scritto il pezzo o ricordo male io?

      3- A seguire trovo scritto che Ingroia e Prestipino  in una prima inchiesta scagionarono Mori chiedendo l’archivazione ma cmq scrissero 100 pagine di motivazioni per picchiare duro, sostenendo che le news date alla procura erano non veritieri e fuorvianti. Immaggino avranno scritto a quale dichiarazioni si riferivano, quali sono?

      4- Infine si parla che vengono di nuovo messi sotto inchiesta e che questa volta il processo viene fatto E VENGONO DEFINITIVAMENTE ASSOLTI, ti chiedo Enrix, su cosa si basò la richiesta di una nuova indagine dopo che nel primo caso sullo stesso argomento Ingroia e Prestipino chiesero l’archivazione? Anche perchè, se non sbaglio, saranno proprio Prestipino ed Ingroia i PM dell’accusa.

      Gianluca

    • anonimo 03:09 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      @Gianluca.
      Richiesta di archiviazione dei Pm ma la Gip (non ricordo il nome) ha rinvato a giudizio ugualmente.
      Paolo

    • anonimo 10:43 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      http://archiviostorico.corriere.it/1999/gennaio/03/miei_uomini_prenderanno_Provenzano__co_0_9901031113.shtml

      Tutto e’ cominciato il 13 ottobre 1997 quando Caselli e il suo aggiunto Guido Lo Forte vanno a Torino a interrogare Mori: la Procura vuole capire quale crepa si fosse aperta nel sistema di vigilanza sull’ ex pentito Balduccio Di Maggio, tornato in Sicilia per ricostituire la cosca e compiere omicidi. L’ indagine si addentrava su presunte "distrazioni" del Ros.

      IL CASO SIINO – DE DONNO Alcuni giorni dopo il maggiore Giuseppe De Donno si presenta ai magistrati di Caltanissetta per accusare Lo Forte: il magistrato sarebbe stato una talpa delle cosche e avrebbe passato nel 1991 un rapporto Ros su mafia e appalti. La fonte era il "ministro dei Lavori pubblici" di Cosa nostra, Angelo Siino, che avrebbe fatto quelle rivelazioni a De Donno e al colonnello Giancarlo Meli. Sia lo Lo Forte che Siino smentiscono i due ufficiali.

      IL CASO CANALE Lo Forte denuncia De Donno per calunnia, sostenendo, tra l’ altro, che nei colloqui registrati a sua insaputa Siino non ha mai sollevato ombre sul procuratore aggiunto. Il pentito ha anzi accusato di collusioni mafiose il tenente Carmelo Canale e il maresciallo suo cognato, Antonino Lombardo, suicida nel 1995.

      Poi però Canale per quelle accuse è stato assolto, sbaglio?

      http://cronachedallimbecillario.splinder.com/archive/2009-08

    • anonimo 10:54 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      L’articolo finiva così

      LA RAPPACIFICAZIONE Nell’ aprile 1998 il nome di Mori finisce nel registro degli indagati a Palermo: con altri ufficiali e funzionari di polizia avrebbe reso una falsa testimonianza nel processo all’ ex funzionario del Sisde Bruno Contrada. Ma proprio in quel momento la guerra tra Ros e Procura e’ entrata in una fase di rapido raffreddamento fino a una cena "pacificatrice" svolta a Palermo tra Caselli, Mori e altri ufficiali 

      L’ INCHIESTA Intanto la Procura di Caltanissetta chiede l’ archiviazione sia per Lo Forte che per De Donno. Solo per Canale richiesta di rinvio a giudizio.
      R. R., D’ Avanzo Giuseppe
      Pagina 13
      (3 gennaio 1999) – Corriere della Sera

      bart_simpson

  • Avatar di enrix

    enrix 09:06 on 31 December 2009 Permalink | Rispondi
    Tags: , , mafia, , , ,   

    CARO MARCO, FACCI SAPERE 

    Le verità sull’intervista a Paolo Borsellino – 2

    "CARO MARCO, FACCI SAPERE". Ecco il secondo video che abbiamo prodotto per illustrare le manipolazioni effettuate sul girato della famosa intervista rilasciata da Paolo Borsellino a due giornalisti francesi il 21 maggio 1992. Questo secondo capitolo contiene una lettera aperta a Marco Travaglio.


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    CARO MARCO, FACCI SAPERE.

    Per il secondo capitolo sulle manipolazioni della famosa intervista al magistrato Paolo Borsellino, realizzata due mesi prima che egli fosse barbaramente assassinato insieme agli uomini della sua scorta a Palermo, in via D’Amelio, dobbiamo ancora chiamare in causa il giornalista Marco Travaglio.

    Marco Travaglio ha realizzato la prefazione e la postfazione, per una durata totale di circa tre quarti d’ora, alla versione “integrale” dell’intervista a Paolo Borsellino pubblicata su DVD ed allegata in edicola, al prezzo di 9 euro e 90 cents,  a “Il Fatto Quotidiano”, giornale che vede fra i protagonisti della sua redazione lo stesso Marco Travaglio.

    Marco, fra le altre cose, nella prefazione dice questo:

    La versione integrale di TUTTO il girato dei due giornalisti francesi a casa di Borsellino invece è quella che stiamo per vedere insieme. NON ABBIAMO TAGLIATO NULLA, nemmeno i momenti preparatori, nemmeno i momenti in cui la telecamera, PUR  ACCESA, rimane appoggiata per terra (che sbadati – ndr) e inquadra i piedi del giudice Borsellino prima dell’inizio del colloquio ufficiale”.

    Ma caro Marco, se il DVD che noi abbiamo acquistato con il Fatto Quotidiano è veramente “integrale” come dici tu, con TUTTO il girato, e non avete tagliato nulla, “nemmeno i momenti preparatori”, allora dovresti cortesemente spiegarci che fine ha fatto questa domanda:

    (Dal video “RaiNews24): F. CALVI:  Non le sembra strano che certi personaggi, grossi industriali come Berlusconi, Dell’Utri, siano collegati a uomini d’onore tipo Vittorio Mangano?

    Caro Marco, non è una domanda di poco conto. E’ una domanda centrale per capire il pensiero di Borsellino su questo argomento, potendo disporre della risposta del magistrato. Il problema, caro Marco, è che questa domanda è presente nel video “demo”  dell’intervista trasmesso da RAINEWS24 mentre invece sul tuo DVD “integrale e senza tagli”, non c’è. Non c’è proprio, fidati.

    Il secondo problema è che nello stesso video di RAINEWS24 a questa domanda risulta appiccicata una risposta che invece, come già è avvenuto per altre manipolazioni, nell’intervista originale Paolo Borsellino formulava a seguito di un’altra domanda, e cioè, questa risposta:

    All’inizio degli anni Settanta, Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa anch’essa, un’impresa nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole, che ad un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti , Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali, una massa enorme di capitali, dei quali naturalmente cercò lo sbocco, cercò lo sbocco perchè questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza tra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali

    Ed ecco la domanda e la risposta nella versione originale:

    F. CALVI: “Lei in quanto uomo, non più in quanto giudice, come giudica la fusione che si opera, che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconì o Dell’Utri e uomini d’onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s’interessa all’industria, o com’è?”

    PAOLO BORSELLINO:  Beh, a prescindere da ogni riferimento personale, PERCHÉ RIPETO CON RIFERIMENTO A QUESTI NOMINATIVI CHE LEI FA, CHE LEI HA FATTO,  IO NON HO PERSONALI ELEMENTI TALI DA POTER ESPRIMERE OPINIONI, ma considerando la faccenda nel suo atteggiarsi generale: allorché l’organizzazione mafiosa, la quale sino agli anni 70, sino all’inizio degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. Dall’inizio degli anni Settanta in poi, Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa anch’essa. Un’impresa nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali,..contestualmente cosa nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare degli investimenti leciti o paraleciti, come noi li chiamiamo, di capitali. Naturalmente per questa ragione, cominciò a seguire vie parallele, e talvolta tangenziali all’industria operante anche nel nord, della quale, in certo qual modo… alla quale in certo qual modo si avvicinò per potere utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali al fine di far fruttare questi capitali dei quali si era trovata in possesso.”

    Ora, caro Marco, noi vorremmo che tu, insieme a noi, ti concentrassi sul problema.

    I casi possono essere soltanto due:

    O  questa domanda, la quale è scomparsa dal tuo DVD “integrale” era stata veramente formulata al magistrato nell’intervista originale, ed in questo caso doveva avere avuto per forza dal giudice una risposta diversa da quella appiccicata nel video trasmesso dalla RAI… oppure questa domanda nell’intervista originale non è mai esistita, ma è stata inventata di sana pianta e recitata da Fabrizio Calvi davanti ad un microfono, in fase di post produzione e quindi quando il giudice era già morto, per poi essere appiccicata a delle immagini video “fuori campo” nella versione breve trasmessa dalla RAI.

    Se fosse vero il primo caso, caro Marco, ti pregheremmo cortesemente di cacciar fuori sia la domanda che la risposta originali tagliate non si sa perché dal DVD di cui ti sei preso cura, soprattutto la risposta, perché moriamo dalla voglia di sentire che cosa non avete voluto o potuto farci sentire. Grazie Marco.

    Se fosse invece vero il secondo caso, allora non soltanto saremmo davanti ad un nuovo episodio di grave manipolazione (addirittura domande registrate in studio a giudice sepolto), ma, ciò che è importante, saremmo davanti finalmente alla prima prova documentale che a tali manipolazioni furbette, rimaste sino ad oggi di autore ignoto, il francese  Fabrizio Calvi,  alias Jean-Claude Zagdoun , per mezzo della sua viva voce, avrebbe partecipato in prima persona.

    Caro Marco, facci sapere.

    Enrix
     
    • anonimo 10:58 on 7 January 2010 Permalink | Rispondi

      Dimenticavo: Paolo.

    • enrix007 12:51 on 7 January 2010 Permalink | Rispondi

      Conosco benissimo quello ed altri "neri", l’ho già trattato in un video che sto per pubblicare. tant’è vero che ne illustro l’importanza nella risposta che ho dato a Travaglio su voglioscendere (commento n°300), che anticipo qui di seguito, anche se a breve credo che ci farò un articolo:

      "Sono l’autore dei video "Le verità sull’intervista a Paolo Borsellino" e rispondo al commento n°62 di Marco Travaglio e successivi.
      Caro Travaglio,
      innanzitutto "noti manipolatori" te lo tieni per te che per il trattamento furbo di un testo vanti già una condanna per diffamazione, privilegio che per il momento ancora mi manca.
      Detto questo, e letti gli interessanti commenti di Renzo e le tue repliche, ti dico che le chiacchiere stanno a zero.
      Le due "sfumate" di cui parla Renzo producono la scomparsa di parti dell’intervista che invece sulla trascrizione dell’espresso proseguivano ancora per un pezzo, sino a tre fantomatici puntini (e son quei puntini, che ci interessano) , con compiute domande e compiute risposte del magistrato che nel DVD del Fatto non esistono. Quindi, o se le è inventate di sana pianta l’Espresso, o il tuo "girato" non è integrale. Io credo la seconda. E siccome dopo lo sfumo c’erano delle domande (erano francesi, e facevano domande) e delle riposte che sull’espresso sono state invece trascritte, la spiegazione è una sola: qualcuno in uno studio, col culo su un sedia, si è messo lì e ha tagliato.
      Non è dato sapere, come al solito, chi l’ha fatto, e son convinto che non l’hai fatto tu.
      Ma è stato fatto. E se quacuno l’ha fatto, ha tagliato, e perchè li c’era qualcosa che andava tagliato, e non per portarsi a casa un pezzo di nastro come ricordino.
      Possiamo dichiararci pelomeno curiosi di sapere che cosa è stato tagliato senza che tu ti precipiti ad insultare con epiteti tipo"imbecille"?
      Grazie ancora e sempre.
      Segugio.

    • anonimo 13:31 on 7 January 2010 Permalink | Rispondi

      Non avevo dubbi, vista la tua capacità di analisi.  Mi pareva il caso di segnalare le dolci parole – e null’altro- utilizzate da Travaglio.
      Letto il #300, aspetto l’articolo.
      Un saluto.
      Paolo

    • anonimo 15:46 on 7 January 2010 Permalink | Rispondi

      Aspetto con ansia nuove :-)
      Il film che lei cita ce l’ho ben presente, per una curiosa coincidenza, ma purtroppo non l’ho mai visto. Se mi capita lo faro’.
      Buon lavoro e congratulazioni.
      Luigi

    • anonimo 20:18 on 7 January 2010 Permalink | Rispondi

       # 388    commento di   Marco Travaglio  – utente certificato  lasciato il 7/1/2010 alle 18:9

      Non so chi sia il tizio che sostiene che gli avrei dato del manipolatore. Non lo conosco nè ci ho mai avuto a che fare. I manipolatori a cui mi riferivo stanno in certi siti che manipolano da anni quello che scrivo sulle stragi e sull’eroica cattura di Riina,….

      Se interessa, naturalmente.
      Buon lavoro.
      Paolo

    • anonimo 20:19 on 7 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ma Travaglio nega anche le condanne?Ti ha lasciato un altro commento, il #388 credo:


      Non so chi sia il tizio che sostiene che gli avrei dato del manipolatore. Non lo conosco nè ci ho mai avuto a che fare. I manipolatori a cui mi riferivo stanno in certi siti che manipolano da anni quello che scrivo sulle stragi e sull’eroica cattura di Riina, e ad essi mi riferivo nel mio commento precedente. Quanto a questo signore, che cita presunte mie condanne per miei presunti articoli diffamatori e manipolatori, gli rammento che il mio casellario giudiziale è immacolato e che Vittorio Sgarbi è stato appena condannato dal Tribunale civile di Torino a risarcirmi i danni per avermi dato del diffamatore ad "Annozero". Quanto al dvd di Borsellino, confermo per l’ultima volta che esso riporta il filmato integrale dell’intervista fatta dai giornalisti francesi nel 1992, che ci hanno riversato l’intera pellicola girata in quell’occasione. Chi non si rassegna e continua a sproloquiare con domandine insinuanti, scambiando normali stop di ripresa per tagli o censure, lo farà d’ora in poi in beata solitudine. ho cose più serie da fare che star dietro alle loro elucubrazioni. e torno a consigliare un bravo specialista.
      mt

       

       

       

       

       

      #388

    • anonimo 13:42 on 9 January 2010 Permalink | Rispondi

       sono Marco Ottanelli di http://www.democrazialegalita.it

      Seguo con vivo interesse la questione da tempo, e non posso che fare i miei complimenti a Enrico e Gabriele per il loro attento lavoro.

    • anonimo 16:43 on 9 January 2010 Permalink | Rispondi

      la seconda che hai detto, mi pare l’ipotesi piu’ probabile, anche perche’ nella versione rn24 la domanda coincide con una ripresa da dietro, che viene riutilizzata piu’ volte. Quindi e’ il giornalista che ridoppia la domanda e taglia la risposta. In questo secondo me ne’ RN24 ne’ travaglio centrano nulla. Del resto lo stesso Travaglio dice chiaro e tondo, che Canal+ puntava a colpire berlusconi, per cui e’ comprensibile (per quanto affatto condivisibile) che cerchino di mettere lui e dell’utri nella peggiore luce possibile.

      Per come la vedo io Travaglio e’ stato abbastanza onesto nel precisare il particolare del “mandato” di canal+, anche se avrebbe potuto insistere di piu’ su questa cosa.

      Comunque, se e’ vero che il borsellino autentico e’ molto piu’ prudente del borsellino rimontato della versione breve, e sta sempre bene attento a non legare le sue affermazioni a nomi eccellenti, e’ altrettanto vero che non si fa scrupoli quando parla di mangano, definendolo una testa di ponte tra il mondo della mafia e quello dell’imprenditoria, con mandato di investire e riciclare.

      Insomma, se “unisci i puntini”, l’immagine che ne esce non e’ molto differente. Non e’ una questione di mera lana caprina, ma non e’ neppure un sovvertimento completo. Borsellino conferma il quadro presentato dai giornalisti dove puo’ farlo senza rischiare la denuncia per diffamazione, e lascia allo spettatore le conclusioni. Io le mie le ho tratte.

      satanetto

    • anonimo 21:42 on 9 January 2010 Permalink | Rispondi

    • anonimo 19:03 on 1 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ciao Segugio,

      hai visto come Elio Veltri ha ultimamente preso le distanze da Travaglio e la precedebte propaganda che si faceva sul’lintervista? Eppure lui era co-autore di Travaglio.

      http://www.democrazialegalita.it/redazione/redazione_vere_parole_borsellino=24novembre2009.htm

      Il noto quotidiano a cui si riferiscono credo che sia "Il Fatto Quotidiano":
      http://antefatto.ilcannocchiale.it/print/2386824.html

    • anonimo 19:05 on 1 January 2010 Permalink | Rispondi

      Scusa, ho dimenticato di firmarmi

      Moritz

    • anonimo 17:56 on 4 January 2010 Permalink | Rispondi

      Bentornato Enrix
      Buon anno e i migliori auguri con tutto il cuore.
      Dal pensatore ci sono due vecchie sue conoscenze che si stanno coprendo di ridicolo. Uno addirittura sulla relatività
      Se vuole farsi due risate faccia un salto. Magari ne viene fuori un bell’alrticolo dell’imbecillario.
      Buone cose.

    • anonimo 14:57 on 5 January 2010 Permalink | Rispondi

      Il commento sopra era mio.
      Luigi

    • enrix007 22:34 on 5 January 2010 Permalink | Rispondi

      Sulla relatività?  Credo di sapere di chi si tratta.

      Mi dica, caro Luigi: lei ha per caso visto mai il film "La cena dei cretini"?
      (Le diner des cons).

    • enrix007 22:47 on 5 January 2010 Permalink | Rispondi

      Caro Moritz, fra meno di un mese su "Liberoreporter" uscirà un articolo sull’argomento, a firma Gabriele paradisi e Cielilimpidi..
      Si parlerà anche di una lettera di Veltri, al quale abbiamo scritto, e che ci ha risposto (pubblicheremo   la risposta, o comunque quasi tutta). Veltri fa anche qualche rivelazione clamorosa, sulla quale ahimè non posso anticipare nulla per riguardo nei confronti del mensile che ci ospita.

      Grazie di tutto.

    • anonimo 14:05 on 6 January 2010 Permalink | Rispondi

      Solo per informare che Travaglio è intervenuto sull’argomento, al solito non rispondendo ma utilizzando le solite 4 parole insultanti.

      Don’t give ip, Enrix. Never
      P.

    • anonimo 14:06 on 6 January 2010 Permalink | Rispondi

      Sorry, Don’t give Up

    • enrix007 10:35 on 7 January 2010 Permalink | Rispondi

      anonimo, potresti darmi un link dell’intervento di travaglio?

    • anonimo 10:51 on 7 January 2010 Permalink | Rispondi

      scusa, ho letto in ritardo:
      http://snipurl.com/tznap &nbsp; [voglioscendere_ilcannocchiale_it]

      è il n. 62, che risponde al n.14 e ad altre sollecitazioni dei giorni precedenti.

      E’ emerso che c’è (commento 92) un velocissimo "nero" al min 2.16 in questo pezzo:
      http://www.youtube.com/watch?v=yJS0aVJHbXg   

      seguito da una pletora di commenti.

      Mi si perdoni il rirardo.

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