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    enrix 09:47 on 15 February 2010 Permalink | Rispondi
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    La trattativa Stato-mafia ha le gambe corte

    Ecco tutte le contraddizioni di Ciancimino jr, il teste superstar che ha dato lustro al processo di Palermo. E i motivi del rancore che spinge i pm antimafia a inseguire un teorema «indimostrabile» pur di «incastrare i carabinieri». Parlano Jannuzzi e Macaluso

    di Chiara Rizzo

    È durato tre giorni lo show di Massimo Ciancimino dall’aula bunker dell’Ucciardone l’1, il 2 e l’8 febbraio. Junior (come ormai lo chiamano) ha parlato al processo contro il generale Mario Mori, accusato di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Il cuore della deposizione sta nella presunta trattativa che i carabinieri (Mori e l’allora capitano Giuseppe De Donno) avrebbero intavolato con lo stesso Provenzano e Vito Ciancimino, il sindaco di Palermo condannato per mafia, per la cattura di superlatitanti (in cambio dell’impunità per il boss Binnu ’u Tratturi). La deposizione fiume di Junior, però, è andata oltre: inforcati gli occhiali nuovi modello Grillini, Ciancimino ha parlato di servizi deviati e grandi architetti, del sequestro Moro, di Ustica. E soprattutto ha descritto Marcello Dell’Utri come referente politico della mafia. Risultato? Telecamere, flash, perfino un libro.
    E fin qui, il circo mediatico. Ma i fatti? Massimo Ciancimino ha raccontato che il padre chiese ai carabinieri le mappe catastali di Palermo e le utenze di luce, acqua e gas. Poi le consegnò a Provenzano, il quale gliele restituì dopo aver cerchiato con un pennarello la zona di Palermo dove si trovava la casa di Riina e annotando alcune utenze. Peccato che nel 1993, davanti a Ingroia e Caselli, papà Ciancimino spiegava di aver chiesto le mappe «perché esaminando questi documenti e facendo riferimento a due lavori sospetti, in quanto suggeritimi a suo tempo da persona vicina ad un boss, fornissi elementi utili per l’individuazione di detto boss».
    Al processo Mori, Junior ha giurato di aver visto coi suoi occhi il padre incontrare Bernardo Provenzano, e che quella del ’93 era una versione di comodo. Eppure lo stesso Junior il 7 aprile 2008 aveva detto ai pm Ingroia e Nino Di Matteo: «Io dentro di me penso che (la trattativa) sia stata fatta col Provenzano», ma «queste sono deduzioni mie». Quanto alle mappe di Palermo consegnate a Provenzano affinché questi indicasse l’abitazione di Riina, Ciancimino oggi dice di essere stato egli stesso il “postino”. Ma nel 2008 raccontava a Ingroia e Di Matteo: «Le mappe (a Palermo) non sono scese sicuro, glielo assicuro, perché mio padre, quando De Donno mi consegnò le mappe, mi disse di nasconderle… Credo che ci fu un incontro dove mio padre nelle mappe indicò al capitano De Donno una zona». E solo dopo le domande dei pm quel 7 aprile Ciancimino spiegava che il padre aveva indicato la zona sulla base di informazioni acquisite da Provenzano: «Mi sembra che lo ha incontrato».
    Cosa è accaduto tra il 2008 e il 2010? C’entra qualcosa il fatto che Massimo, condannato nel marzo 2007 per riciclaggio e tentata estorsione, il 30 dicembre 2009 si sia guadagnato una riduzione della pena in appello (due anni e quattro mesi di reclusione in meno)? E il fatto che da quando ha iniziato a parlare Junior abbia guadagnato una certa visibilità mediatica (oltre che la scorta)?
    Quello delle mappe è un punto debole della deposizione di Junior anche per Lino Jannuzzi, giornalista ed ex senatore di Forza Italia. Jannuzzi ebbe cinque incontri con Vito Ciancimino. E a Tempi assicura: «A me raccontò i fatti per come li sostiene da sempre il generale Mori». E la teoria della trattativa? «Solo fango che non si può provare. Che bisogno c’era di mappe catastali e delle utenze di luce e gas se i carabinieri potevano chiedere direttamente al “collaborante occulto” Provenzano dove si trovava Riina? La verità è che Ciancimino conosceva i proprietari della casa di Riina, ecco perché trafficava con le mappe, cercando di localizzare la zona attraverso le intestazioni di luce e acqua».
    Jannuzzi scava nella memoria: «Nella sua casa romana di via San Sebastianello, Vito Ciancimino mi raccontò che aveva tentato di aiutare i carabinieri ad arrestare Riina, ma non ci riuscì, perché lui stesso fu arrestato. Alluse anche a Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, a cui chiese più volte un incontro. Secondo lui Violante voleva impedire che Andreotti diventasse presidente della Repubblica, e voleva processarlo. Ecco perché, sempre a suo dire, Violante non lo aveva incontrato». Di queste cose, ribadisce Jannuzzi, «la procura di Palermo è a conoscenza da anni. Ma da anni cerca disperatamente di andare contro i carabinieri. Il motivo di questo rancore? I teoremi della procura. Il generale Mori ha difeso Bruno Contrada dicendo chiaramente che era impossibile fosse colluso con la mafia. E furono i carabinieri a tentare di riportare in Italia dagli Usa Tano Badalamenti, che poteva sbugiardare Tommaso Buscetta al processo Andreotti». E poi fu il capitano dei carabinieri De Donno ad accusare la procura palermitana di aver insabbiato, dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, l’inchiesta “Mafia e appalti”, ritenuta decisiva dai due giudici.

    Il capro espiatorio
    «Non si può processare Mori per le lunghe latitanze dei boss: come Provenzano, anche Riina è stato latitante a lungo, e questo perché c’era un sistema politico. Mori è un capro espiatorio per processare un sistema», argomenta Emanuele Macaluso, ex senatore Pds e direttore di Le ragioni del socialismo. Per Macaluso bisogna distinguere: «Sulla questione della trattativa, ritengo ci sia stata una fase del contrasto alla mafia in cui si usavano le fonti per arrivare agli arresti. Erano i metodi usati da carabinieri e polizia per colpire la mafia. Secondo me fu un errore. Ma detto ciò, io non vedo collusione, e neanche trattative. Che razza di trattativa ci poteva essere se poi si è arrivati all’arresto di Riina e dello stesso Ciancimino?». Macaluso chiarisce: «Se parliamo della lunga latitanza di Provenzano dobbiamo pensare anche a cos’era la Sicilia della Prima Repubblica. Giuseppe Alessi, in un’intervista sul Corriere della Sera, prima della morte ha ammesso: dovevamo scegliere se tollerare la mafia o rassegnarci al comunismo. E lo stesso Andreotti ha parlato più volte di “convivenza” fino a quando la mafia non ha attaccato lo Stato, alla fine degli anni Settanta. Penso sia stata una precisa scelta politica».
    E sulle accuse di Junior «occorre che i giudici valutino a mente fredda. Sui morti si può dire di tutto, ma fa fede ciò che Vito Ciancimino disse in vita. Purtroppo i magistrati ritengono di non poter sbagliare, perciò si accaniscono contro Mori, già assolto per la mancata perquisizione del covo di Riina». Ma il teorema della trattativa continua.

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     
    • anonimo 10:34 on 15 February 2010 Permalink | Rispondi

      A proposito della volontà dei carabinieri di far deporre Badalamenti, ho sentito Jannuzzi ad un convegno dire che tra quei carabinieri c’era anche Mauro Obinu, il quale, mi pare, avrebbe addirittura redatto un verbale o comunque un documento nel quale menzionava la risposta datagli da un magistrato, che gli avrebbe detto di lasciar stare Badalamenti perchè se no rovinava il processo ad Andreotti. Il nome del magistrato dovrebbe essere fatto nel libro "Lo sbirro e lo stato". Però, non so fino a che punto è credibile che un magistrato confessi così apertamente ed in via confidenziale ad un carabiniere il suo terrore che Badalamenti smentisca Buscetta.

      Moritz

    • anonimo 10:45 on 15 February 2010 Permalink | Rispondi

      Comunque, sarebbe interessante sapere quali furono le esatte indicazioni che Vito Ciancimino diede ai carabinieri. Ricordo infatti che fino a pochi giorni prima della cattura di Riina, essi non sapevano nemmeno chi erano i Sansone, individuati poi con l’aiuto di Balduccio di Maggio. Quindi, quali proprietari di casa conosceva Ciancimino?

      Moritz

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    enrix 23:00 on 13 January 2010 Permalink | Rispondi
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    LA VERA STORIA DEL GENERALE MORI 

    © 2009 – FOGLIO QUOTIDIANO

    La vera storia di un grande carabiniere sotto processo, Mario Mori

    di Claudio Cerasa

     

    Se Leonardo Sciascia avesse conosciuto il generale Mario Mori prima di scrivere “Il giorno della civetta” il suo capitan Bellodi non sarebbe stato un giovane poliziotto con gli occhi chiari, i capelli scuri, il viso tirato e l’accento emiliano, ma sarebbe stato piuttosto un piccolo brigadiere triestino con i capelli bianchi, i baffi corti, la voce bassa, gli occhi azzurri, un curriculum da sballo, il vaffanculo facile facile e sei numeri che hanno cambiato la sua vita: 2789/90. Quelle del generale Mori e del capitan Bellodi sono due storie che viaggiano su binari paralleli: un uomo sceso dal nord per andare in Sicilia disposto a rompersi la testa per combattere la mafia, e che dopo essere riuscito ad arrestare il più temuto dei capi-cosca improvvisamente si ritrova contro ora i politici, ora gli avvocati, ora i magistrati, ora i giudici, ora le procure e ora naturalmente i giornali. E i giornali ne riparleranno presto del generale, e c’è da scommettere che non ne parleranno bene. Il 16 giugno del 2008 la procura di Palermo ha aperto un’indagine contro Mori per “favoreggiamento aggravato” a Cosa Nostra, e gran parte delle prossime settimane il generale le dedicherà a quel processo. Sarà in aula alla fine di gennaio, quando i giudici dovranno valutare se rinviarlo a giudizio oppure no.

    Di che cosa è accusato il capitan Bellodi? La procura di Palermo ha indagato Mori come responsabile della mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, ma il processo per favoreggiamento nasconde una storia molto particolare. A Mori è successa la stessa cosa capitata all’eroe di Sciascia: si è ritrovato di fronte a qualcuno che vuole riscrivere la storia di un periodo cruciale per l’Italia e che vuole offrire a uno dei protagonisti di quei giorni la parte dell’antagonista brutto, sporco, cattivo e, perché no?, pure compromesso. Il processo a Mori è un modo come un altro per tentare di dimostrare che una parte della stagione delle stragi, nel 1992, in particolare quella che coinvolse il giudice Paolo Borsellino, fu causata dallo stesso generale che “voleva a tutti i costi trattare con la mafia”. Ma molti non conoscono un particolare. In quegli anni Mori iniziò a raccogliere i suoi giorni in 29 agende a righe con la copertina rigida: dagli anni 80 a oggi non c’è appuntamento che Mori non abbia segnato su questi fogli, e dalla lettura di quelle pagine, tenute segrete per molto tempo, emergono delle verità molto interessanti.

    Roma, due dicembre 2009. Mario Mori siede dietro la scrivania al terzo piano di un ufficio che si affaccia a strapiombo su Piazza Venezia: ha lo sguardo vispo, gli occhi un po’ scavati, i capelli tagliati corti, le mani distese poggiate sulle cosce e un libricino aperto a pagina 37 con una “x” segnata a matita accanto a un aforisma di uno degli scrittori più amati dal generale, Giacomo Leopardi. Il dettato piace molto a Mori: “La schiettezza allora può giovare, quando è usata ad arte, o quando, per la sua rarità, non l’è data fede”.
    Il generale accetta di riceverci nel suo piccolo studio privato e inizia a raccontare come è cambiata la sua vita. Sono tante le ragioni per cui la carriera di Mori risulta affascinante ma vi è un aspetto che rende la sua storia molto significativa. Ed è la prima cosa che ti colpisce quando ti ritrovi di fronte a lui: ma come è possibile che un super sbirro, un grande carabiniere che ha acciuffato i capi di Cosa Nostra, che ha messo in galera tipacci come Toto Riina e che ha contribuito a smantellare numerose cupole mafiose sia, e sia stato, processato con le stesse accuse degli stessi criminali che per anni ha perseguito e arrestato? Vuoi vedere che forse c’è qualcosa, qualcosa della sua vita, qualcosa dei suoi anni a Palermo, qualcosa della sua esperienza al Sisde, che sfugge ai grandi accusatori di Mario Mori? Mori si è chiesto più volte le ragioni per cui la magistratura siciliana gli si è accanita contro, il perché di quelle pesantissime inchieste costruite con le parole di pentiti non proprio affidabili, i motivi per cui, dovendo scegliere se credere alle sue parole o a quelle di un pentito, i pm tendano a dare retta al secondo anziché al primo. E quando glielo chiedi il generale Mori che fa? Alza un po’ lo sguardo, gioca con i polsini della camicia, si dà un colpetto all’indietro sulla poltrona, allarga le braccia e poi sussurra: “Non so. Davvero. Proprio non so”.

    A Roma il generale c’è tornato da qualche mese: alla fine del 2008 il sindaco Gianni Alemanno gli ha offerto la direzione delle Politiche della sicurezza della Capitale e Mori ha accettato di tornare in quella città dove ha studiato per cinque anni al liceo classico (era al Virgilio nella sezione C negli stessi anni in cui Adriano Sofri era nella sezione D), dove ha seguito le lezioni dell’accademia delle Armi, dove ha lavorato con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e da dove ha iniziato a costruire la sua carriera, diventando nel corso degli anni prima comandante del gruppo carabinieri di Palermo (dal 1986 al 1990), poi comandante dei Ros (dal ’96 al 2000) e infine numero uno del Sisde (fino al 2006). Sono proprio questi – gli anni del Sisde, gli anni dei servizi segreti, gli anni in cui condusse le indagini sulla morte di Massimo D’Antona, sull’omicidio di Marco Biagi, sulle conseguenze italiane dell’undici settembre – i tempi in cui Mori rimase affascinato da alcune sottili ma importanti differenze tra il combattere la mafia e combattere il terrorismo. Mori era sorpreso dalla capacità di fare gruppo dei brigatisti, e da quel loro cerchio chiuso, quasi impenetrabile. Nei brigatisti – racconta Mori – vi era un livello culturale superiore alla media della criminalità e il loro era un legame ideologico non un legame familistico, di cosca o di sangue.

    Era proprio per questo che Mori riteneva fosse più semplice combattere il terrorismo piuttosto che Cosa nostra. “La mafia è come un tumore che si autoriproduce: è un mondo che resiste da molto tempo non tanto per la sua forza ma perché è una forma di costume che è legata a certe forme di cultura. I poliziotti e i magistrati potevano e possono arrestare tutti i mafiosi del mondo ma l’unico modo per distruggere alle radici la mafia – come già scritto anche da Marcelle Padovani in Cose di Cosa Nostra – è il tempo, la trasformazione dei costumi, la rivoluzione della cultura”.
    “Le Brigate rosse e tutte le forme di terrorismo italiane sono state invece una cosa diversa: una malattia circoscritta difficile sì da individuare ma per cui una cura esisteva: bastava solo trovarla”. Quando nella primavera del 2001 Claudio Scajola, ministro dell’Interno per un anno, chiamò Mario Mori per comunicargli che Silvio Berlusconi lo aveva appena nominato a capo dei servizi segreti, il generale pensava fosse uno scherzo. E lo credeva per due ragioni.

    La prima è che il presidente del Consiglio che l’aveva appena scelto Mori non lo aveva mai visto prima, se non una sera alla fine di una cena a Monza. La seconda era invece una ragione caratteriale. Il generale sostiene che le tecniche strategiche di chi lavora nell’arma e di chi lavora nell’intelligence presentano pochi punti di contatto, e offrire dunque a uno sbirro la gestione dell’intelligence nazionale, in teoria, potrebbe nascondere alcune difficoltà non solo metodologiche. “Siete pazzi! – disse senza neanche scherzare troppo Mori a Scajola – io di intelligence non ne so nulla, al massimo, se volete, potrei guidare il Sismi”.
    Racconta chi con Mori al Sisde ha lavorato a lungo che “il modo più semplice per spiegare i due diversi approcci alla criminalità che hanno forze dell’ordine e intelligence è che il poliziotto spera di catturare Osama bin Laden mentre l’uomo di intelligence, semplicemente, spera di acquisirlo come fonte. Sono due piani paralleli che non si vanno mai a incontrare. Perché l’immagine del James Bond che si arrampica sulle gru per sconfiggere le forze del male non esiste. Semmai, il rischio maggiore per un uomo di intelligence che passa le giornate a colazione, a pranzo e a cena per coltivare le fonti è quello di prendersi una cirrosi epatica”.
    Mori ha sempre sostenuto che individuare un grosso criminale, pedinarlo, poterne seguire le tracce e circoscriverne il raggio d’azione nasconde un problema non da poco. Che si fa? Si arresta subito il bandito o lo si segue per un po’ usandolo come esca per intrappolare nella rete della giustizia tutto ciò che lo circonda? Mori non lo confesserà mai, ma tra la prima e la seconda opzione lui sotto sotto ha sempre preferito la seconda.

    Chi ha vissuto a lungo a fianco di Mario Mori racconta che quando il generale arrivò al Sisde fu rivoluzionata l’intera impostazione del lavoro. Prima di Mori, i servizi segreti tendevano a lavorare con quella che in gergo è definita “pesca a strascico”: una gigantesca rete che intrappola tutti i pesci, grandi e piccoli, che nuotano nel raggio d’azione dell’intelligence. Quando Mori arrivò al Sisde spiegò che la pesca doveva diventare subacquea. Perché la tecnica a strascico – era questa l’idea del generale – funziona quando un servizio segreto dispone di centinaia di migliaia di uomini, ma quando il numero delle truppe è parecchio inferiore la raccolta di informazioni deve essere più precisa, più mirata. E così, non appena arrivato, Mori scrisse un libriccino di cento pagine di procedura investigativa, lo fece pubblicare e lo inviò ai dirigenti dei servizi. A poco a poco, i risultati iniziarono ad arrivare.

    Negli anni passati al Sisde c’è un arresto particolare che il generale ricorda più degli altri. Il 13 luglio 1979 una scarica di pallettoni sparati da un’auto in corsa ferì a morte il comandante del Nucleo carabinieri del tribunale di Roma Antonio Varisco; e quel comandante Mori lo conosceva molto bene. Per anni e anni, i servizi segreti italiani hanno tentato di arrestare il killer, e il 15 gennaio del 2004 il Sisde diede istruzione a venti poliziotti egiziani di fermare due persone all’aeroporto del Cairo: i nomi erano quelli di Rita Algranati e Maurizio Falessi, ricercati, tra le altre cose, per l’omicidio di Varisco. Fu uno dei giorni più gratificanti della carriera del generale. Il perché lo spiega lui stesso: “Non dobbiamo essere sciocchi. Chi dice che la pretesa punitiva dello stato non esiste non capisce nulla. Quel giorno passò un messaggio molto importante. Fu un arresto chiave per disgregare la rete terroristica ma fu un anche un segnale chiaro: ci sono alcuni reati che più degli altri non possono essere impuniti. E uccidere un carabiniere è esattamente uno di quelli”.

    Gli anni che però formarono davvero il generale Mori furono altri. Furono quelli che trascorse in Sicilia: prima nel nucleo provinciale dei carabinieri e poi nei Ros. Non appena arrivato a Palermo, il generale comprese subito quanto fosse importante riuscire a creare una sorta di sintonia linguistica tra sbirri e mafiosi. Mori ci riuscì, ma solo dopo aver preso una piccola batosta. La prima lezione per Mori arrivò da un piccolo appartamento sulla costa occidente della Sicilia: ad Altavilla. Dopo aver ricevuto la notizia della morte di un carabiniere, i suoi uomini andarono sul posto, entrarono con i guanti di paraffina dentro una vecchia casa colonica, perquisirono le stanze, fecero perizie, raccolsero più notizie possibili e interrogarono molti testimoni: la maggior parte dei quali diceva di non aver visto nulla. Alla fine della giornata, Mori si ritrovò a parlare con un vecchio abitante del paese che al termine del colloquio – a lui che era un triestino con mamma casalinga emiliana, padre ufficiale dei carabinieri a La Spezia, bisnonni inglesi e, come ama ripetere il generale, una formazione culturale sfacciatamente mitteleuropea – gli disse: “Piemontese, chi minchia voi da noi?”. Quelle parole Mori se le ricorderà a lungo e il significato profondo dell’essersi sentito dare del piemontese lo comprese poco più avanti quando fu nominato comandante del primo comando territoriale di Palermo.

    Mori ricorda infatti che in quegli anni capitava spesso che la notte le pareti della caserma non trattenessero le parole degli sbirri che interrogavano i mafiosi, e ascoltando quei dialoghi, dagli accenti così marcatamente differenti, si rese improvvisamente conto che in quel nucleo operativo che lavorava nella Sicilia occidentale, beh, il più meridionale tra i suoi colleghi era un campano. Non parlare il linguaggio della Sicilia, e più in particolare non entrare a fondo nel lessico dei mafiosi, secondo il generale era il modo migliore per non capire come portare avanti un’indagine, e questo Mori se lo mise bene in testa: lavorò molto sulla sua pronuncia, iniziò a studiare il siciliano e alla fine ottenne buoni risultati, riuscendo a poco a poco a entrare sempre di più a contatto anche con la grammatica della mafia.
    “In quegli anni – racconta un uomo che ha lavorato a lungo a fianco di Mori nei Ros – il generale diceva che far proprio il linguaggio dei mafiosi significava non solo avere le carte in regola per lavorare con maggiore efficienza ma anche avere la possibilità concreta di salvare con un certo successo il culo.

    Le lezioni di Mori erano due. Lui, che aveva imparato a non fidarsi eccessivamente dei collaboratori di giustizia, diceva che per definizione il pentito mafioso va preso con le pinze perché un pentito resta sempre un mafioso, e alla fine – qualsiasi cosa ti dirà e qualsiasi verità racconterà – in un modo o in un altro tenterà sempre di compiere un atto utilitaristico per la sua famiglia. La seconda cosa che ripeteva era che il mafioso ti faceva ammazzare solo quando il, chiamiamolo così, rapporto tra sbirri e criminale diventava un rapporto personale: tra me e te. Per questo, Mori ci diceva che tu puoi umiliare un mafioso magari ammanettandolo davanti a una moglie ma non era il caso di farlo quando veniva acciuffato nel cuore della sua vera intimità: per esempio davanti alla sua amante”.
    Il più grande successo ottenuto da Mori arrivò il 15 gennaio 1993 di fronte al numero 54 di via Bernini, a Palermo, quando il generale fece arrestare lui, il capo dei capi: Totò Riina. Paradossalmente, però, accadde che l’arresto del mafioso più ricercato al mondo coincise con la proiezione delle prime ombre attorno alla carriera del generale. Tutto cominciò poco dopo l’arresto. Per quindici giorni, l’abitazione del boss corleonese non fu perquisita e in molti sostennero che la mancata perlustrazione di quelle stanze fosse un modo come un altro per dare la possibilità ai mafiosi di ripulire l’abitazione e cancellare le proprie tracce. Mori – ricordando che le indagini vengono sempre coordinate dalla procura e che qualsiasi imput, prima ancora che dai capi dell’arma, deve arrivare da lì – sostiene che fu la procura a non dare l’ordine di perquisire, ma nonostante ciò nel 1997 la procura di Palermo aprì un’inchiesta sulla vicenda a carico di ignoti, “per sottrazione di documenti e favoreggiamento”.

    L’indagine andò fino in fondo: nel 2002 i magistrati chiesero l’archiviazione ma il gip dispose nuove indagini. Due anni dopo stessa storia: i pm chiesero ancora una volta l’archiviazione ma questa volta lo fecero in un modo originale: poche paginette per chiedere di archiviare e cento pagine per picchiare duro sull’indagato. A firmare quella richiesta furono i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Michele Prestipino, che chiesero di chiudere il caso con queste concilianti parole: gli indagati, non perquisendo per diversi giorni il covo, “fornirono ai magistrati indicazioni non veritiere o comunque fuorvianti”. Inoltre, la sospensione dell’attività di osservazione del covo “determinerà un’obiettiva agevolazione di Cosa nostra”. Il nome di Mario Mori entra così nel registro degli indagati il 18 marzo 2004: pochi mesi più tardi – era il 18 febbraio 2005 – Mori e il suo braccio destro Sergio De Caprio (l’ufficiale dei carabinieri che ha lavorato a lungo a fianco del generale e che il 15 gennaio 1993 ammanettò Totò Riina) vengono rinviati a giudizio e un anno dopo il processo si conclude con un’assoluzione.
    Tutto finito? Macché.

    Dopo essere stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato per non aver perquisito l’abitazione – e non il covo, che è cosa diversa – in cui è stato arrestato Salvatore Riina, Mori si trova costretto a difendersi da altre accuse. E da una in particolare. Perché il generale non ci gira attorno, e quando ha saputo di essere indagato ancora una volta per favoreggiamento dice che è stato certamente quello il giorno più brutto della sua vita: perché è come se la procura lo avesse sostanzialmente accusato di essere stato la causa scatenante della strage di via D’Amelio.
    Nel processo in cui Mori dovrà difendersi in aula il 29 e il 30 gennaio, il principale testimone dell’accusa è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio. L’eroe della procura di Palermo, nonché principale testimone del processo contro il generale Mori, è però un personaggio dal passato molto controverso. Controverso perché il grande accusatore di Mori è uno degli uomini che fu denunciato dallo stesso generale. La storia è nota ma può essere utile ricordarla. Il generale Mori contribuì all’arresto di Riccio e fu uno dei primi a denunciare i reati commessi dal colonnello a metà degli anni 90. All’origine dei guai di Riccio vi fu la famosa Operazione Pantera. In quell’occasione – erano gli anni 90 – fu sequestrata una partita di pesce congelato da 33 tonnellate. Nascosto tra il pesce vi erano 288 chili di cocaina proveniente dalla Colombia.

    Tre mesi dopo il pesce fu venduto sottobanco dai carabinieri per 54 milioni. L’operazione Pantera costò a Riccio due reati. Non soltanto contrabbando aggravato ma anche detenzione e cessione di stupefacenti: perché nel corso dell’operazione, secondo l’accusa, il colonnello occultò cinque chili di cocaina sottratti alla distruzione del reperto da uno dei suoi uomini (si chiamava Giuseppe Del Vecchio).
    Così, dopo essere stato condannato in primo grado a 9 anni e mezzo e poi, in secondo grado, a 4 anni e 10 mesi, nel 2001 Riccio chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano e la morte di Luigi Ilardo”. E’ una storia complicata quella di Riccio: l’ex colonnello sostiene che nel 1995 il suo confidente Ilardo (trovato morto pochi mesi dopo) offrì la possibilità di catturare Bernardo Provenzano; racconta che i suoi uomini avrebbero seguito Ilardo fino al bivio di Mezzojuso – un piccolo comune di 3.711 abitanti a 34 chilometri da Palermo – che si sarebbero appostati in attesa del via libera e che Mori disse di non voler agire. Mentre – dice Riccio – noi “eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire”. Le deposizioni di Riccio sono però contestate. Uno dei testimoni dell’accusa, l’ufficiale dei carabinieri Antonio Damiano che nel ’95 prestava servizio al Ros di Caltanissetta, lo scorso 10 novembre ha raccontato una versione diversa.

    Damiano sostiene infatti di essere stato incaricato da Riccio di effettuare “un’osservazione con rilievi fotografici” al bivio di Mezzojuso ma il punto è che in quello che Riccio considera il mancato arresto di Provenzano non solo era già stato concordato preventivamente che l’operazione avrebbe avuto la finalità di studiare il territorio ma il grande accusatore di Mori, nonostante la relazione di servizio di quel giorno riportasse la sua presenza, in realtà – lo ammette Damiano – non era affatto presente: era rimasto in ufficio.
    A ogni modo, le parole di Riccio hanno offerto alla procura la possibilità di fare due calcoli rapidi rapidi: la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 più la mancata cattura di Provenzano nel 1995 sarebbero “strettamente connesse” alla presunta trattativa tra apparati dello stato e Cosa nostra. E’ proprio questa la tesi di uno degli uomini che alla fine di gennaio verrà ascoltato come teste dell’accusa nell’aula bunker del carcere Ucciardone: Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. Tesi che in sostanza si potrebbe riassumere così: Borsellino sarebbe stato ucciso dopo che il giudice venne a conoscenza della trattativa portata avanti tra la mafia e lo stato condotta in prima persona da suo padre e dal generale Mori. Borsellino era contrario alla trattativa e per questo, per evitare problemi, la mafia lo fece saltare in aria.

    La cronaca di quei mesi offre però una storia un po’ diversa e gran parte della verità di tutta la vicenda sembrerebbe proprio girare attorno a quel codice lì: 2789/90. Il codice fa riferimento a una delle inchieste più delicate che le forze dell’ordine portarono avanti durante gli anni 90 in Sicilia. Tutto nacque nel corso del 1989: in quegli anni Mori era già a capo del gruppo dei carabinieri di Palermo e sotto la direzione di Giovanni Falcone avviò l’inchiesta sul sistema di condizionamento degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra. Il primo plico contenente le informative sull’indagine fu consegnato il 20 febbraio del 1991 da Mori al procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. Ancora oggi Mori ricorda che “Giovanni sollecitò insistentemente il deposito dell’informativa rispetto ai tempi che ci eravamo prefissati per una ragione semplice: perché – diceva Falcone – non tutti vedevano di buon occhio l’indagine, e alcuni sicuramente la temevano”. In quei giorni, il giudice stava però per essere trasferito alla direzione degli affari penali del ministero della giustizia, e da Palermo dunque si stava spostando a Roma. Ma quell’inchiesta – ricorda il generale – lui voleva seguirla lo stesso e per questo Mori continuò a mantenere i contatti con Falcone. E fu proprio il giudice a riferire al generale che l’inchiesta “Mafia e appalti” non interessava più di tanto al nuovo procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco. Era davvero così?

    Fatto sta che al termine dell’inchiesta “Mafia e appalti” i Ros di Mori avevano evidenziato 44 posizioni da prendere in esame per un provvedimento restrittivo ma il 7 luglio del 1991 la procura ottenne soltanto cinque provvedimenti di custodia cautelare. Mori si arrabbiò e chiamò subito Falcone. La reazione del giudice è riportata dai diari consegnati alla giornalista di Repubblica Liana Milella, e fu questa: “Sono state scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”.
    Non solo. Pochi giorni dopo che Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno consegnarono il rapporto alla procura di Palermo vi fu una fuga di notizie. De Donno ne venne a conoscenza attraverso il suo informatore Angelo Siino (il così detto ex ministro dei Trasporti pubblici di Cosa nostra) che raccontò ai Ros di aver saputo dell’inchiesta da fonti vicine alla procura. “Mai come in quei mesi – racconta Mori – ebbi la sensazione di agire da solo e senza referenti certi a livello giudiziario”. Successivamente, ci furono altre due valutazioni che fecero infuriare il capitano dei Ros. La prima fu quando il Tribunale del riesame consegnò agli avvocati difensori degli indagati e degli arrestati non uno stralcio dell’informativa relativa ai singoli indagati, come da prassi, ma qualcosa di più: ovvero tutte le 890 pagine di testo. “In quel modo – ricorda Mori – furono svelati i dati investigativi fino a quel momento posseduti dall’inquirente e furono chiare le direzioni che le indagini stavano prendendo”.

    La seconda fu quando la procura di Palermo – ravvisando la competenza sul caso di più procure – inviò i fascicoli in mezza Sicilia ottenendo il risultato di moltiplicare il numero di occhi che osservavano da vicino quell’inchiesta. Ecco: secondo Mori il filo che lega le stragi di quell’anno – l’anno in cui furono uccisi nel giro di poche settimane prima Falcone e poi Borsellino e poi ancora un comandante della sezione di Perugia che insieme con i Ros aveva iniziato a lavorare su “Mafia e appalti”: Giuliano Guazzelli – sarebbe legato all’attenzione che Mori e Borsellino credevano fosse opportuno dare a quell’inchiesta, a quel codice maledetto. Poco prima di essere ucciso, infine, Borsellino partecipò a un incontro molto importante. Era il 25 giugno 1992 e il magistrato convocò in gran segreto nella caserma di Palermo – dunque negli uffici dei Ros – Mario Mori e il capitano De Donno. Borsellino confessò ai due che riteneva fondamentale riprendere l’inchiesta “Mafia e appalti”. Perché – sosteneva Borsellino – quello “era uno strumento per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra e gli ambienti esterni con cui essa si relazionava”. Qualche anno più tardi, nel novembre 1997, nel corso di un’audizione alla Corte d’assise di Caltanissetta, a confermare che Paolo Borsellino credeva che studiando il filone “Mafia e appalti” si poteva giungere “all’individuazione dei moventi della strage di Capaci” fu uno dei pm che oggi indaga su Mori: il dottor Antonio Ingroia.

    Le ragioni per cui l’incontro nella caserma dei carabinieri di Palermo fu mantenuto segreto vennero ammesse in quelle ore dallo stesso Borsellino. Ricorda Mori che Borsellino “non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell’incontro”. “E nel salutarci – prosegue Mori – il dottor Borsellino ci raccomandò la massima riservatezza sull’incontro e sui suoi contenuti, in particolare nei confronti dei colleghi della procura della Repubblica di Palermo”. Secondo il generale, in quei giorni Borsellino era molto preoccupato per una serie di fatti accaduti. Uno in particolare era legato a una data precisa. Il 13 giugno 1992 uno dei mafiosi arrestati dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta “Mafia e appalti” – il geometra Giuseppe Li Pera – si mise a disposizione degli inquirenti dicendo di essere disposto a svelare “gli illeciti meccanismi di manipolazione dei pubblici appalti”, ma i magistrati di Palermo risposero dicendo di non essere interessati. “Sì, è vero: i fatti di quei tempi – ricorda Mori – mi portarono a ritenere che anche una parte di quella magistratura temesse la prosecuzione dell’indagine che stavamo conducendo”.

    Pochi giorni dopo l’attentato in cui rimase ucciso Paolo Borsellino, Mori iniziò a stabilire contatti con l’uomo che all’epoca impersonificava meglio di tutti la sintesi perfetta dei legami collusivi tra mafia, politica e imprenditoria: l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Tra il 5 agosto e il 18 ottobre 1992, Ciancimino e Mori si incontrarono quattro volte (prima di quella data con Ciancimino vi furono dei contatti preliminari del braccio destro di Mori, De Donno) e iniziarono così a costruire un rapporto confidenziale senza renderlo però noto alla procura di Palermo. Mori non comunicò subito i contatti che aveva stabilito con Ciancimino per tre ragioni. Primo perché – e lo dice la legge – i confidenti delle forze dell’ordine non devono essere necessariamente rivelati alla procura. In secondo luogo – e queste sono parole di Mori – fu fatto “per evitare premature e indesiderate attenzioni sulla persona e per tentare di acquisire elementi informativi sicuramente nella disponibilità del Ciancinimo e cercare di giungere a una piena e formale collaborazione”. Infine, è ovvio: se ci fosse stato Borsellino, dice Mori, “glielo avrei detto subito”. Ma quando Mori parlò con Ciancimino, Borsellino era già stato ammazzato.

    Nonostante in molti sostengano che Mori avesse mantenuto a lungo segreti quei colloqui, in realtà gli incontri tra Mori e Ciancimino non sono una novità di oggi. Nell’autunno 1993 fu lo stesso Mori a raccontare all’allora presidente della Commissione antimafia Luciano Violante non soltanto dei suoi incontri con Ciancimino ma anche della volontà di quest’ultimo di essere ascoltato dalla commissione. Mori lo disse più volte a Violante e ogni volta che Violante se lo sentiva ripetere gli rispondeva più o meno allo stesso modo. Ponendo una condizione: “L’interessato – disse Violante il 20 ottobre 1992 nel corso di un incontro riservato con Mori – deve presentare un’istanza formale a riguardo”. Il 29 ottobre 1992, quindi, Violante convocò la commissione per spiegare qual era il suo programma di lavoro sulla materia che riguardava le inchieste sulla mafia e la politica. Nel verbale di quella seduta, tra le altre cose, si legge quanto segue: “E’ necessario sentire quei collaboratori che possono essere particolarmente utili”.

    Violante fece un lungo elenco di “collaboratori”, e tra questi c’era anche Vito Ciancimino. Ecco però il giallo: giusto tre giorni prima che Violante riunisse la commissione, Ciancimino si decise a scrivere una lettera. Una lettera datata 26 ottobre 1992 indirizzata a Roma, alla sede della commissione antimafia di Palazzo San Macuto. In calce alla lettera – che negli archivi della commissione sarà registrata solo diversi anni dopo con il numero di protocollo 0356 – c’è la firma di Vito Ciancimino. Il quale sostiene di essersi messo a disposizione della commissione già dal 27 luglio 1990, e di aver ormai accettato le condizioni che aveva posto per l’audizione il predecessore di Violante (Gerardo Chiaromonte): audizione sì ma senza quella diretta televisiva che secondo Ciancimino era necessaria per essere “giudicato direttamente e non per interposta persona”. Scrive l’ex sindaco di Palermo: “Sono convinto che questo delitto (quello di Lima, ex sindaco di Palermo ed ex eurodeputato della Democrazia cristiana che il 12 marzo 1992 fu ucciso a colpi di pistola di fronte la sua villa di Mondello) faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta commissione antimafia, se vorrà ascoltarmi”. Nonostante Violante avesse detto che avrebbe ascoltato Ciancimino solo se questi avesse fatto una richiesta formale alla Commissione, la commissione antimafia ricevette la lettera ma decise di non ascoltarlo.

    C’è poi un altro aspetto che della storia di Mori non può essere trascurato. Perché la storia di Mori è l’esempio di come una visione burocratica della lotta alla mafia non contempli la possibilità che un super sbirro possa imparare a combattere il nemico studiandolo, osservandolo da vicino, tentando persino di parlare con il suo stesso linguaggio. E con ogni probabilità il grande peccato originale di Mori è stato quello di essere diventato un simbolo della lotta alla mafia senza aver avuto bisogno di indossare l’abito del professionista dell’antimafia. Anzi, quell’antimafia con cui Mori ha lavorato fianco a fianco per anni è stata spesso ferocemente criticata dallo stesso generale. E sulla testa di Mori la scomunica dell’antimafia palermitana arrivò quando il generale testimoniò nel processo Contrada: l’ex agente del Sisde è stato arrestato il 24 dicembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quando Mori fu sentito come teste non si scompose affatto e, dopo aver detto che Contrada era il “miglior poliziotto antimafia che abbia mai avuto a Palermo”, il generale disse quello che la procura di Palermo non voleva sentire. Gli chiesero se Giovanni Falcone avesse mai sospettato di Contrada e lui rispose secco così: no. La procura aveva un’altra idea e indagò persino Mori per falsa testimonianza.

    Ma dietro alle accuse di connivenza fatte nei confronti del lavoro siciliano di Mori esiste anche un filone di critica culturale di cui ultimamente si è fatto portavoce lo scrittore Andrea Camilleri. La visione burocratica della lotta alla mafia ti trascina spesso anche verso conclusioni molto avventate e ti porta a credere che stabilire contatti con il nemico, studiare da dentro il suo mondo, arrivando persino a parlare il suo lessico, significhi sostanzialmente diventare suo complice. In una recente intervista, Camilleri sostiene che Leonardo Sciascia era molto affascinato da quella mafia che sembrava invece combattere. La dimostrazione pratica è nascosta dietro alcune parole del protagonista del Giorno della civetta. Sempre lui: il capitano Bellodi. “Sciascia – dice Camilleri – non avrebbe mai dovuto scrivere ‘Il giorno della civetta’: non si può fare di un mafioso un protagonista perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del romanzo, invece giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – ‘omini, sott’omini, ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce coll’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue.

    E il fatto che Sciascia faccia dire dal capitano Bellodi a don Mariano mentre lo va ad arrestare ‘Anche lei è un uomo’ è la dimostrazione che in fondo Sciascia la mafia l’ammira e la stima”.
    La mafia sembra invece che non apprezzò le inchieste portate avanti da Borsellino e da Mori. Pochi giorni dopo aver tentato di accelerare le indagini sull’inchiesta “Mafia e appalti”, in una 126 rossa parcheggiata in via d’Amelio, nel cuore ovest di Palermo, esplosero cento chili di tritolo e uccisero il giudice Borsellino e i suoi cinque agenti della scorta. Era il 19 luglio 1992. Solo un giorno dopo, quando ancora la camera ardente di Paolo Borsellino non era stata neppure aperta, la procura di Palermo depositò un fascicolo con una richiesta di archiviazione. Sopra quel fascicolo c’era un codice fatto di sei numeri: 2789/90.
    Era l’inchiesta “Mafia e appalti”.

    © 2009 – FOGLIO QUOTIDIANO

     
    • anonimo 13:29 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      Grazie paolo della precisazione che non conoscevo, sul resto delle mie domande sai qualcosa?

      Gianluca

    • anonimo 15:34 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      PER COMMENTO 3

      Grazie dell’interessantissimo articolo che mi hai postato, nello stesso Mori intervistato dice:

      "Non perquisimmo subito l’ appartamento di Riina perche’ , e me ne assumo tutta la responsabilita’ , il capitano Ultimo pensava che potesse essere ancora "caldo". Quel che resta sono stupidi sospetti all’ italiana"

      Che significa ancora caldo? E poi nell’immediato subito dopo l’arresto si conosceva o no con precisione qual’era l’appartamento?

      Riguardo Canale è stato assolto in appello con motivazioni mandate dopo 13 mesi … ed è news di novembre ricorso in cassazione, che schifo!

      ASSOLUZIONE IN APPELLO

      http://www.siciliainformazioni.com/giornale/cronaca/italia/23841/assolto-tenente-canale-braccio-destro-borsellino-appello-stato-accusato-concorso-esterno-associazione-mafiosa.htm

      RICORSO IN CASSAZIONE
      http://www.antimafiaduemila.com/content/view/21520/48/

      Gianluca

      P.S. La news del ricorso in cassazione è così allucinante che è anche complicata da trovare in rete ed a riguardo ci sono pochi link .

    • anonimo 17:59 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ciao Gianluca,
      Vado di fretta e mi sembra mancanza di rispetto per il titolare del blog postare " amemoria", come fatto per la risposta precedente,

      ad ogni modo.
      1, corretto, quando fu arrestato riina si conosceva il- grande-  complesso immobiliare ma non l’esatta ubicazione dell’appartamento.
      2. scrivi bene, caselli si era insediato il giorno stesso: ha avallato il parere anzitutto di Ultimo. Al processo ha confermato il tutto.
      La perquisizione era tecnicamente impossibile anche per il fatto che quasi subito l’ingresso del complesso immobiliare era pieno di giornalisti, informati da Ripollino, malgrado la cattura fosse avvenuta in altro luogo.
      3. non ricordo bene il particolare. Posso solo dire che è coerente con una assoluzione con formula piena sulla quanle uno a caso, travaglio, spende parole durissime dopo averci dilettato di lampioni e cassaforti.

      Mi scuso nuovamente se per fretta vado un po’ a memoria e non indico fonti specifiche.
      Posso dire con certezza che buona parte se non gran parte delle informazioni derivano dalla lettura delle analisi di enrix :)
      Ciao. Paolo

    • anonimo 19:20 on 17 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ciao Enrix, sono Moritz, una segnalazione.
      Un tale avvocato Fabio Repici dice, ripreso anche dal sito di Borsellino (ammazza che dichiarazioni!):
       
      “Del ROS dopo la guida del generale Subranni è arrivato il momento del Generale Mario Mori. Il Generale Mario Mori è il responsabile della mancata perquisizione al covo di Riina. Tanti blaterano di una sentenza di assoluzione che gli ha restituito l’onore. Allora, per chiarire, il Generale Mori e il colonnello Sergio De Caprio dalla sentenza di assoluzione sono rimasti definitivamente svergognati perché, con quella sentenza di assoluzione, si è sancito che essi hanno omesso di perquisire il covo di Riina, sono assolti non per non aver commesso il fatto, ma solo perché il tribunale ha ritenuto che non era stato provato il dolo. L’hanno fatto, ma solo per colpa, inavvertitamente.”
      "Altro personaggio – qui rasentiamo il cabaret – che ha contraddistinto il ROS nella seconda Repubblica, è un personaggio che avrebbe un nome e un cognome, che però, come nei fumetti, si fa chiamare per pseudonimo. Ora, ci sono stati esimi esempi di ufficiali nobili ed integerrimi nella storia dell’arma dei carabinieri: Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Capitano D’Aleo, il Capitano Basile. Ma voi ve lo immaginereste uno di questi personaggi che si fosse fatto chiamare con uno pseudonimo? Gli avrebbero riso in faccia. Non lo fecero. C’è invece un personaggio, che in teoria all’anagrafe si chiama Sergio De Caprio, che però è conosciuto con lo pseudonimo di Capitano Ultimo perché si sente evidentemente un personaggio dei fumetti. E’ un altro dei responsabili della mancata perquisizione al covo di Riina ed è uno dei personaggi – è un poveretto da come si propone – sui quali è però più difficile parlare, perché appena si cerca di mettere il dito sulle gravissime pecche di quell’ufficiale, ci sono personaggi, anche dell’antimafia ufficiale, che subito saltano in piedi e gridano allo scandalo. Perdonatemi, ma, con i personaggi da fumetti, investigazioni serie non se ne fanno e la storia del ROS è la prova di questo. Non è un caso, per altro, che i supporter di quegli ufficiali del ROS, di questi tempi, sono gli stessi supporter di Bruno Contrada, o gli stessi supporter dei servizi deviati."
       
      http://www.antimafiaduemila.com/content/view/23762/48/

    • anonimo 00:16 on 18 January 2010 Permalink | Rispondi

      Per Moritz

      Penso che basta leggere quello che scrive per capire il livello di questo avvocato. Tra l’altro sulla sentenza conclude con il comunicare che i giudici hanno confermato che il covo non è stato perquisito (cosa vera) ma non c’era dolo COME DIRE CHE E’ UNA STUPIDAGGINE IL MANCATO DOLO, peccato non ci racconti pure che Caselli diede l’ok e sapeva tutto, peccato non ci racconti che la presunta cassaforte rimase intatta, peccato non ci racconti che al momento dell’arresto non si sapeva con precisione quale era l’appartamento dove stava Riina, peccato non ci dice che causa soffiate alcuni giornalisti erano nella zona con il rischio di bruciare futuri indagini … ma per l’avvocato queste sono piccolezze da cartone animato …

      Gianluca

    • enrix007 12:41 on 18 January 2010 Permalink | Rispondi

      E’ incredibile la mobilitazione generale contro questi carabinieri che hanno catturato Riina.  Molto utile soprattutto per dare una buona immagine della lotta contro il crimine della loro città ai giovani palermitani.

      Questa serà probabilmente posterò un articolo, per rispondere a tutte queste bassezze, questo pattume.

    • anonimo 21:49 on 24 January 2010 Permalink | Rispondi

      Post di Angelo Jannone che parla dell’avvocato Repici.

      http://ilblogdiangelojannone.blogspot.com/2010/01/nel-nome-dellantimafia.html

    • anonimo 21:51 on 24 January 2010 Permalink | Rispondi

      Scusate, dimentico sempre la firma, chiamiamola così.
      Allora aggiungo un documento un po’ datato, la lettera di Olindo Canali, magistrato, in cui si parla anche dell’avvocato Repici.

      http://blog.libero.it/lavocedimegaride/6781985.html

      bart_simpson

    • anonimo 00:16 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi

      Ho letto sul libro di Montolli "il caso Genchi" alcune dichiarazioni fatte da Jannone ai magistrati che sono delle auto accuse, sempre però nascoste ai media.

      Viene anche descritto come persona molto abile a gestire le news on line (riportando notizie non vere a suo riguardo su Wikipedia) e sullo stesso ancora non mi sono dilettato a cercare in rete. Tu lo hai fatto? Sai qualcosa relativi i processi che aveva in corso?

      Gianluca

    • enrix007 09:26 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi

      Guardate, a me non frega niente chi sia ‘sto Repici. E semplicenente uno che ha scritto che i cc che arrestarono il capo dei capi della mafia latitante da decenni, sarebbero stati "svergognati" dal fatto che nella sentenza c’è scritto che non hanno comunque rispettato il regolamento di polizia, anche se tale infrazione è stata commessa senza dolo e non ha avuto, nè poteva avere, alcuna conseguenza sulle indagini.

      Quindi è semplicemente n’ommem-bip-.

    • anonimo 14:07 on 25 January 2010 Permalink | Rispondi

      Su Repici sono assolutamente d’accordo con te Enrix. Sarebbe interessante capire qualcosa anche su Jannone visto che da ex ROS viene utilizzato per attaccare gli stessi accostandolo  a Mori ad Ultimo ed ai tanti che NON DEVONO VERGOGNARSI DI NULLA (almeno fino a prova contraria e nonostante gli stiano facendo le pulci, queste prove contrarie ancora non sono uscite fuori).

      Gianluca

    • anonimo 18:15 on 14 January 2010 Permalink | Rispondi

      Articolo molto interessante.  Vorrei chiederti caro Enrix alcune precisazioni.

      1- L’articolo quando introduce per la prima volta l ‘argomento mancata perquisizione del covo o appartamento, fa passare un piccolo particolare che E’ ERRATO SE MI RICORDO BENE. All’inizio nell’immediato post arresto di Riina, arresto avvenuto per strada (nella zona presidiata) e dentro NESSUN APPARTAMENTO, non si sapeva neanche con precisione quale fosse l’appartamento in questione. Si sapeva che era in quella zona, basta. Mi ricordo bene Enrix ho in testa i miei ricordi sono sbagliati?

      2- Ho letto sempre nello stesso paragrafo che Mori afferma che avrebbe avuto l’input dalla procura di non fare la perquisizione, mentre i ricordo tutt’altra cosa e precisamente che ritenevano (Mori ed Ultimo) più corretto agire così ed informarono del loro piano Caselli (appena insediatosi) che diede l’ok, visto che la parola finale spettava a Caselli.  E’ un imprecisazione del giornalista che ha scritto il pezzo o ricordo male io?

      3- A seguire trovo scritto che Ingroia e Prestipino  in una prima inchiesta scagionarono Mori chiedendo l’archivazione ma cmq scrissero 100 pagine di motivazioni per picchiare duro, sostenendo che le news date alla procura erano non veritieri e fuorvianti. Immaggino avranno scritto a quale dichiarazioni si riferivano, quali sono?

      4- Infine si parla che vengono di nuovo messi sotto inchiesta e che questa volta il processo viene fatto E VENGONO DEFINITIVAMENTE ASSOLTI, ti chiedo Enrix, su cosa si basò la richiesta di una nuova indagine dopo che nel primo caso sullo stesso argomento Ingroia e Prestipino chiesero l’archivazione? Anche perchè, se non sbaglio, saranno proprio Prestipino ed Ingroia i PM dell’accusa.

      Gianluca

    • anonimo 03:09 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      @Gianluca.
      Richiesta di archiviazione dei Pm ma la Gip (non ricordo il nome) ha rinvato a giudizio ugualmente.
      Paolo

    • anonimo 10:43 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      http://archiviostorico.corriere.it/1999/gennaio/03/miei_uomini_prenderanno_Provenzano__co_0_9901031113.shtml

      Tutto e’ cominciato il 13 ottobre 1997 quando Caselli e il suo aggiunto Guido Lo Forte vanno a Torino a interrogare Mori: la Procura vuole capire quale crepa si fosse aperta nel sistema di vigilanza sull’ ex pentito Balduccio Di Maggio, tornato in Sicilia per ricostituire la cosca e compiere omicidi. L’ indagine si addentrava su presunte "distrazioni" del Ros.

      IL CASO SIINO – DE DONNO Alcuni giorni dopo il maggiore Giuseppe De Donno si presenta ai magistrati di Caltanissetta per accusare Lo Forte: il magistrato sarebbe stato una talpa delle cosche e avrebbe passato nel 1991 un rapporto Ros su mafia e appalti. La fonte era il "ministro dei Lavori pubblici" di Cosa nostra, Angelo Siino, che avrebbe fatto quelle rivelazioni a De Donno e al colonnello Giancarlo Meli. Sia lo Lo Forte che Siino smentiscono i due ufficiali.

      IL CASO CANALE Lo Forte denuncia De Donno per calunnia, sostenendo, tra l’ altro, che nei colloqui registrati a sua insaputa Siino non ha mai sollevato ombre sul procuratore aggiunto. Il pentito ha anzi accusato di collusioni mafiose il tenente Carmelo Canale e il maresciallo suo cognato, Antonino Lombardo, suicida nel 1995.

      Poi però Canale per quelle accuse è stato assolto, sbaglio?

      http://cronachedallimbecillario.splinder.com/archive/2009-08

    • anonimo 10:54 on 15 January 2010 Permalink | Rispondi

      L’articolo finiva così

      LA RAPPACIFICAZIONE Nell’ aprile 1998 il nome di Mori finisce nel registro degli indagati a Palermo: con altri ufficiali e funzionari di polizia avrebbe reso una falsa testimonianza nel processo all’ ex funzionario del Sisde Bruno Contrada. Ma proprio in quel momento la guerra tra Ros e Procura e’ entrata in una fase di rapido raffreddamento fino a una cena "pacificatrice" svolta a Palermo tra Caselli, Mori e altri ufficiali 

      L’ INCHIESTA Intanto la Procura di Caltanissetta chiede l’ archiviazione sia per Lo Forte che per De Donno. Solo per Canale richiesta di rinvio a giudizio.
      R. R., D’ Avanzo Giuseppe
      Pagina 13
      (3 gennaio 1999) – Corriere della Sera

      bart_simpson

  • Avatar di enrix

    enrix 02:44 on 23 November 2009 Permalink | Rispondi
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    I manoscritti sulla "trattativa" tra stato e mafia 

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    1) Premessa

    Prima di partire con la prima puntata del nostro telefilm, debbo fare una precisazione   doverosa.

    Quando per carburare il Truman Show si da il via ad una campagna mediatica, non è detto che tutti coloro che vi partecipano facciano parte della regia.

    Molti giornalisti, magistrati, politici, ecc…ecc… partecipano alla messa in onda del “rumor” , vale a dire quel suono, quel vociare che parte nel giornale del mattino e si conclude con le serate televisive, a volte persino inconsapevolmente, e vale a dire semplicemente ripetendo o facendo da eco alla colonna sonora dello show, e cioè ai virus informativi lanciati dai registi, convinti di fare cosa giusta e, certe volte, persino di avere a che fare con cose veritiere.

    Ergo, quando in questo sito, analizzando un testo od una trasmissione televisiva, scopriremo qualche cumulo di sciocchezze, occorre ribadire che tali sciocchezze non sempre, per chi le enuncia,  rappresentano qualcosa di scritto o pronunciato in stato di coscienza e consapevolezza, e quindi di dolo, ma che si può trattare semplicemente e giustappunto di sciocchezze, corbellerie, bufale, proposte al pubblico per mera superficialità ed approssimazione, da qualcuno che non ha verificato né approfondito la notizia innestata nello show da chi sta in cabina di regia, o da chi si è lasciato semplicemente trasportare dall’enfasi e dal noto metodo del “più o meno”.

    In sintesi: proponendo una teoria di imprecisioni, falsità e corbellerie, non è vero che intendiamo significare allo stesso tempo che gli autori delle stesse siano dei falsari di mestiere o dei criminali.

    Molte  volte, anziché di paraculi,  si tratta di gente pasticciona e poco professionale,  od anche ingenua , così come ingenua ed innocente è la schiera dei lettori o telespettatori che recepisce le notizie così come sono, senza alcuno spirito critico.

    Altre volte invece, pizzicheremo i veri e propri mascalzoni, i cervelli criminali. (Non distante da qui, negli articoli di Segugio dei giorni scorsi, abbiamo parlato di uno di questi, e bello grosso).

    Buona lettura.
     

    2) I manoscritti sulla "trattativa" tra stato e mafia


    C’eran tre papelli,
    vergati da Don Vito.
    Ma, di tre, due son patacche, ahimè.
    Lui non ci ha mai messo dito.

    truman show avatar.bmp Da  molti anni ormai si parla del famigerato papello, il foglio contenete l’elenco delle pretese avanzate allo Stato dalla mafia per allentare la morsa degli attentati e delle stragi.  Su questo blog abbiamo già trattato diffusamente dell’argomento, nell’articolo  “De papellibus”.

    A metà dello scorso mese di ottobre, il presunto papello è saltato fuori, consegnato prima in fotocopia, e quindi in originale, da massimo Ciancimino ai PM di Palermo.

    Insieme al papello, son saltati fuori altri due documenti.

    Il primo, è un papello-bis, un altro foglio contenente richieste che lo stato avrebbe dovuto esaminare per trattare con la mafia, sulla base delle stesse, onde fermare gli attentati.

    Il secondo, è un memoriale di 13 pagine, sulla trattativa, manoscritte da Vito Ciancimino nel 1993 e pubblicate integralmente e per la prima volta il 21 ottobre scorso, contemporaneamente su questo blog e sul blog “censurati.it” di Antonella Serafini, cui va il merito di avere reperito il documento. Memoriale che, come vedremo, era già in mano ai Procuratori di Palermo ancor prima che fosse manoscritto. (?….tranquilli, ora ve la spiego).

    Quindi, TRE documenti, che ho descritto in forma sintetica.

    A questo punto, per calarsi nello show provando in modo pieno ed appagante  la sensazione di essere un Mr. Truman come si deve, bisogna prima capire bene CHE COSA SIA EFFETTIVAMENTE ognuno di questi documenti.

    Così funziona. Per capire che ti è caduto un faretto cinematografico tra i piedi, bisogna prima sapere bene che cosa è e com’è realmente fatto, un faretto cinematografico.

    E quindi, ecco qua.


    —-> documento numero uno: il papello originale

    Lo vediamo in questa immagine:

     

    Come ho
    detto, è un elenco di 12 pretese numerate, scritte dalla mafia per mano di un
    non precisato scrivano (secondo Brusca si tratta del Dott. Cinà), su di un
    foglietto in possesso di Don Vito Ciancimino, da lui consegnato al generale
    Mori e custodito, in copia, in cassetta di sicurezza sino ad un mesetto fa,
    allorchè Massimo Ciancimino riuscì finalmente a recuperarlo e quindi a
    consegnarlo ai magistrati inquirenti.

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    Come ho detto, è un elenco di 12 pretese numerate, scritte dalla mafia per mano di un non precisato scrivano (secondo Brusca si tratta del Dott. Cinà, secondo Sandro Ruotolo potrebbe trattarsi di Totò Riina, secondo me di uno qualsiasi), su di un foglietto in possesso di Don Vito Ciancimino, da lui consegnato, in ori ginale o in copia, al generale Mori e custodito, in originale o in copia, in cassetta di sicurezza sino ad un mesetto fa, allorchè Massimo Ciancimino riuscì finalmente a recuperarlo e quindi a consegnarlo ai magistrati inquirenti.

    Su questa copia, come si vede dall’immagine, qualcuno ha scritto «Consegnato, spontaneamente, al colonnello dei Carabinieri Mario Mori dei Ros», e secondo Massimo Ciancimino lo scrittore sarebbe suo padre.  E quindi anche secondo la totalità dei media nazionale, Don Vito risulta essere l’autore di quella scritta. Fatto importante, quella postilla, perché essendo provato e confermato dallo stesso Mori che siano avvenuti incontri fra di lui e Vito Ciancimino, quella scritta del defunto Don Vito, sarebbe un pesante indizio contro il generale, una prima rilevante prova che egli abbia ritirato “il papello” della trattativa fra mafia e stato, fatto che egli ha sempre negato.

    In realtà noi abbiamo fatto un confronto calligrafico fra parole equivalenti, estratte le une da questo e dal secondo papello (doc. numero 2)  e  e le altre dal documento numero 3, scritto certamente da Vito Ciancimino.

    Dal confronto fra le grafie, sorgono alcuni dubbi. Anche il papello bis, come il precedente, in alcune parti suscita perplessità..

    VEDI QUI IL CONFRONTO CALLIGRAFICO

     

    —–> documento numero due: il papello originale “rivisto” da Vito Ciancimino   


    Lo vediamo in questa immagine.

     


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    Secondo quanto afferma Massimo Ciancimino, suo padre quando lesse per la prima volta il PAPELLO N°1, considerò le 12 richieste delle “richieste da testa di m….”.

    Per lui quelle richieste poste allo stato erano irricevibili, assolutamente improponibili.

    Pensò quindi di redigere un elenco di richieste alternativo, con pretese più “soft” rispetto a quelle originali, diciamo “smussate” così da renderle proponibili. Ad esempio la richiesta di eliminazione delle accise sul carburante, veniva sostituita da Don Vito con una più realistica e ragionevole: la soppressione del Monopolio di Stato sui tabacchi.

    Su questo papello-bis si possono leggere, in testa, i nomi di Virginio Rognoni e Nicola Mancino.  «Quei due nomi non sono sul papello. Mio padre li scrisse a mano su un foglio a parte (il papello-bis)  facendo i suoi ragionamenti, le sue modifiche sui 12 punti della carta principale, cioè il papello»

    Quindi questo papello sarebbe stato scritto di proprio pugno da Don Vito, così come confermato anche da suo figlio Massimo, il superteste.

    In realtà, sempre dal confronto calligrafico da noi effettuato e già citato sopra, ANCHE QUESTO SECONDO PAPELLO suscità perplesità in più punti. 

     

    —–> documento numero tre: il memoriale di vito ciancimino del 1993

    Questo documento viene definito “memoriale”, ma in realtà non è esattamente questo.

    Sarebbe invece la trascrizione testuale, fatta di proprio pugno da Don Vito Ciancimino, di un verbale di una sua stessa deposizione redatto il giorno 17 marzo 1993 nel carcere romano di Rebibbia, innanzi al Procuratore Distrettuale della Repubblica di Palermo, dott. Giancarlo CASELLI e al sostituto Procuratore dott. Antonio INGROIA.

    Vito Ciancimino, che in carcere aveva tutto il tempo per farlo, trascrisse a mano quel verbale e lo corredò di un paio di paginette di note aggiuntive.

    Il motivo dell’operazione, si spiegherebbe col fatto che il Ciancimino aveva l’intenzione di affidare ad un editore straniero un suo libro di memorie, che nella sua stesura originale doveva essere interamente manoscritto, a provarne l’autenticità anche in caso di eventuale incapacità di conferma da parte dell’autore, caso mai gli fosse capitato qualche incidente.

    E quindi Ciancimino trascrisse a mano quella parte del suo verbale di deposizione innanzi ai PM, perché aveva l’intenzione di utilizzarla per il suo libro.
    In realtà poi, rinunciò, e la ripose in un cassetto.

    Questo manoscritto NON RISULTA ESSERE MAI STATO CONSEGNATO da Ciancimino a Mori, o comunque non c’è alcuna prova che ciò sia avvenuto.  Anzi, c'è la prova contraria. Infatti il documento originale, è stato sequestrato dagli inquirenti nel 2005 a Massimo Ciancimino, nel contesto delle iniziative cautelari disposte dalla Procura di Palermo per le indagini relative alle presunte attività di riciclaggio del patrimonio illegale paterno illecitamente condotte da  Ciancimino Jr.

    Consiglio a tutti, giunti a questo punto, di leggere attentamente il testo della deposizione di Ciancimino resa dinnanzi a INGROIA e trascritta nel memoriale, testo che PER LA PRIMA VOLTA, su di un mezzo di comunicazione, qui di seguito è riportato fedelmente (compresi gli errori, l’uso delle maiuscole, e le sottolineature).

    Chi lo desiderasse, può scaricare QUI il file con l'ipertesto del memoriale, e QUI il file con le immagini ad alta risoluzione delle pagine del memoriale.

    memoriale Amemoriale Bmemoriale C

     
     
    memoriale D

    Penso che dalla lettura del testo tutti quanti si possa notare quali siano i punti salienti

    e soprattutto quanto questi siano importanti.
    Innanzitutto Ciancimino comunica la data degli incontri avuti con i carabinieri: dal 25 di agosto 92 (De Donno) al 1° settembre 92 (Mori) e oltre. Tutte date che smentiscono l’attuale teoria accusatoria dei PM contro Mori, ed escludono il coinvolgimento dei ROS e della loro trattativa, nella strage di Via D’Amelio (luglio 92).
    Ciancimino poi, spiega qual’era l’oggetto della richiesta dei ROS: collaborazione per assicurare alla giustizia i latitanti. Altra testimonianza che assolve i ROS dalle accuse di torbide trattative.

    Ciancimino dice di aver deciso di collaborare con i ROS, e di avere anche iniziato, esaminando insieme a loro carte geografiche di Palermo ed altri documenti utili per la cattura di un grosso latitante.

    Ciancimino afferma di essere stato arrestato immediatamente dopo aver dato inizio alla sua collaborazione con i carabinieri, essendo secondo lui tale circostanza una ben strana coincidenza e priva di fondate motivazioni.

    Ciancimino afferma di aver avuto una richiesta dimostrazione di “referenza” e “credibilità” da parte del suo interlocutore emissario della mafia, consistente in un aggiustamento “delle sue cose”, e cioè del suo processo (non sarà per questo che Ciancimino per mezzo di Mori, chiedeva insistentemente un incontro con Violante, a partire dell’ottobre 92?)

    Di quella deposizione di Ciancimino dinnanzi a Caselli, trascritta dallo stesso Vito Ciancimino, ci ha parlato Marco Travaglio, il 22 ottobre scorso (che è il giorno successivo alla pubblicazione sui nostri blog, di questo “memoriale”.) sul “Fatto quotidiano”:

    “(Vito Ciancimino) lo sentirà Gian Carlo Caselli, poco dopo essersi insediato alla Procura di Palermo il 15 gennaio ’93 (lo stesso giorno dell’arresto di Totò Riina e della mancata perquisizione del covo da parte del Ros, forse nel timore di trovare carte inerenti la trattativa del papello). Ma Ciancimino, a quel punto, si ritrarrà a guscio e dirà ben poco sul delitto Lima e sul caso Andreotti. Anche perché sia Violante sia Mori si sono ben guardati dal rivelare a Caselli quel che sanno sui colloqui top secret fra il Ros e Ciancimino.”  (Travaglio: Violante, don Vito e l'antimafia          di Marco Travaglio – 22 ottobre 2009)

    Così, piuttosto rozzamente,  liquida Travaglio quella deposizione, che invece, non si ha che da leggerla,  è la sola testimonianza diretta della parte interessata, di come,  quando e perché sia avvenuta la famosa trattativa. Niente niente.

    All’inizio di marzo del 2005, come ho già detto, il manoscritto viene sequestrato a Massimo Ciancimino, nella sua abitazione, nell’ambito delle indagini a suo carico per riciclaggio.

    E’ importante leggere il resoconto dato da Repubblica in quella circostanza:

    Dieci pagine firmate Vito Ciancimino

    Repubblica — 06 marzo 2005   pagina 2   sezione: PALERMO

    Inchiesta riciclaggio, all' esame dei pm c' è anche un manoscritto dell' ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino sequestrato la scorsa settimana durante la perquisizione a casa del figlio Massimo. Dieci paginette manoscritte dal titolo: "I carabinieri". Vito Ciancimino avrebbe voluto inserirle nel suo memoriale scritto negli anni passati a Rebibbia, ma alla fine decise di tenerle a parte. Anche se il tema era sempre quello: la sua «collaborazione» con lo Stato e la famosa trattativa avviata da Cosa nostra con pezzi delle istituzioni dopo la terribile stagione delle stragi del 1992. Le dieci paginette iniziano così: «Il capitano Giuseppe De Donno è coetaneo e amico di mio figlio. Da tempo cercava di convincermi a parlare, ma io ho sempre detto di no. Ora a farmi cambiare idea sono stati l' omicidio di Salvo Lima, che mi ha turbato, quello di Giovanni Falcone, che mi ha sconvolto, e quello di Paolo Borsellino che mi ha atterrito». Un rapporto rimasto misterioso quello avviato proprio dopo le stragi tra l' ex sindaco di Palermo e i carabinieri. E rievocato anche dal generale Mario Mori, capo del Sisde, nell' ambito dell' inchiesta sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina in via Bernini. Ai magistrati di Caltanissetta che lo interrogarono sul caso, Mori ricostruì così la collaborazione con Ciancimino, definito da lui "fonte confidenziale". «Il capitano De Donno aveva instaurato un buon rapporto con il figlio Massimo, durante la detenzione del padre. Fu così che invitai De Donno ad approfondire i rapporti». Il primo ottobre del '92 Ciancimino avvia la sua collaborazione, 18 giorni dopo l' incontro decisivo. «Ciancimino mi informò che i suoi interlocutori avevano accettato di portare avanti un certo tipo di trattativa… gli chiesi di avere la consegna di Riina e degli altri assicurando che le famiglie di costoro sarebbero state trattate bene. Al che Ciancimino ebbe uno scatto improvviso… "Mi vuole morto, così morite anche voi". Aggiunse che avrebbe comunicato ai suoi interlocutori che vi era stato un momento di ripensamento e ci accompagnò alla porta». Un mese dopo, il figlio di Ciancimino contatta De Donno e lo invita a tornare dal padre. «Ciancimino aveva accettato – spiega Mori – e chiese una dettagliata mappa di Palermo nella zona compresa tra viale Regione Siciliana e Monreale. La sera stessa fu arrestato». In carcere l' ex sindaco accettò di parlare con i magistrati. «La collaborazione – conclude Mori – non approdò a buoni risultati. Si è perduta un' occasione importante». (…)ALESSANDRA ZINITI


    Si noti dunque bene che:
    Il manoscritto di cui parla Repubblica il 6 marzo 2005 è proprio il nostro terzo documento, quello di cui stiamo parlando

    Ergo quel documento era senz’altro a conoscenza dei PM sin dal marzo del 2005, ove fu da essi sequestrato

    I PM lo posero immediatamente “all’esame”. Situazione un po’ paradossale, trattandosi della stessa procura ove quel manoscritto, nella sua forma originale e non trascritta, era depositato agli atti sin dal marzo del 1993.

    Pur contenendo il manoscritto tutti i particolari della “trattativa” ed altri dettagli fondamentali in merito all’oggetto della collaborazione cui Ciancimino si era determinato, Repubblica omette di illustrarci tali contenuti, che sono invece la parte fondamentale di quell’atto giacente in tribunale sin dal 1993; riporta invece parti, in virgolettato, non significative.

    Il resoconto reso da Mori su quelle vicende, in parte riportato nel virgolettato sull’articolo di Repubblica, coincide perfettamente con quello reso da Ciancimino sul suo manoscritto.

    In ogni dettaglio. Ergo, ai cittadini italiani è stato sempre taciuto (in primis, già nell’articolo di Repubblica che ho citato, indi viene ancora taciuto oggi, salvo la possibilità di leggere il testo su questo modesto blog) CHE ESISTEVA UNA DEPOSIZIONE OLOGRAFA DI VITO CIANCIMINO, e cioè l’interlocutore dei ROS, RESA IN CARCERE, che confermava alla lettera, passo per passo, tutte le circostanze riferite da Mori in merito alla trattativa. Tutte, in ogni dettaglio. Come se fosse un particolare da nulla. Piccoli fondali dipinti del Truman Show che cominciano a scollarsi dal telaio di sostegno.

    Ed ora facciamo un salto di oltre 4 anni. Del misterioso manoscritto non si sente più parlare, sino al 16 ottobre 2009. (sto parlando dei mass-media, in vero, poichè nella sentenza di assoluzione dalle accuse a carico di Mori e De Caprio per il presunto reato di favoreggiamento, il memoriale era stato citato)

    Il giorno precedente, 15 ottobre, l’Avvocato di Massimo Ciancimino ha consegnato la copia dei Papelli (numero uno e numero due), ai PM Palermitani.

    Il settimanale L’Espresso, mette in rete la fotocopia dei Papelli alle ore 18.33, dello stesso 15 ottobre come dimostra questa diagnosi del file.

      data creazione espresso

    Nelle ore immediatamente successive, le immagini dei papelli sono sul web e sui giornali.

    Il giorno dopo, 16 ottobre, il TG3 serale decide di occuparsi della papellofanìa, e lo fa con un servizio di Fabrizio Feo.

    Ora che conosciamo bene i DOCUMENTI NUMERO UNO, DUE E TRE, possiamo rivederlo, e divertirci:


    E quindi lo trascriviamo, questo servizio del TG, col corredo delle immagini, poste a lato del testo,   che nel video erano temporalmente coincidenti con la narrazione trascritta.


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    tg3 16 nov 09

    Vediamo dunque brevemente cos’ha combinato il TG3 in questo servizio:

    Il video comincia con una descrizione del papello n°1. Nel frattempo viene mostrata l’immagine del papello n°2. Poi lo speaker prosegue con la descrizione del papello n°1, e conclude: “Se sia la copia del papello originale, o un pro-memoria di Vito Ciancimino (il documento n° 3 – ndr) , lo chiarirà Massimo Ciancimino.”

    A fronte di questo dubbio, io, senza scomodare Ciancimino jr.,  avrei la risposta pronta per i nostri simpatici redattori della RAI: “Entrambi tre”.

    Poi, ancora un’affermazione sibillina:

    Difficile invece spiegare incongruenze temporali e anomalie nell’elenco di richieste.”

    Su questo argomento lo speaker non aggiunge altro; noi sappiamo a cosa si riferisce, perché abbiamo studiato, ma il telespettatore medio comincia ad accusare capogiri non capendo di cosa stanno parlando al TG; anche perché, nel frattempo, prorompe per la prima volta sullo schermo televisivo l’immagine di un misterioso documento, che nulla ha a che vedere con quelli sino ad ora oggetto del servizio: il memoriale di Ciancimino del 93 (documento numero tre), in un dettaglio della quarta pagina dove campeggiano in primo piano tre inquietanti parole sottolineate “piena delega a trattare.” Trattare. Trattativa. Abbiamo capito, abbiamo capito.

    Ma proprio a questo punto viene il bello, perché il commentatore ci spiega: “ Secondo l’Espresso sul documento c’era un post-it, con l’annotazione: “Consegnato al colonnello dei carabinieri Mori dei ROS”. Giustamente nel riferirci tale notizia, il TG  riproduce, finalmente, un particolare del Papello n°1, quello giusto di cui sta parlando il servizio, e precisamente la frase citata vergata dal presunto Vito Ciancimino (e che, tra l’altro,  noi riteniamo essere un falso, una brutta imitazione).

    Dopodichè, un capolavoro della logica.

    TG3 si domanda: “Cos’era stato consegnato a Mori?”  E a quel punto appare la simpatica faccia barbuta del cronista, Fabrizio Feo, che ci spiega cos’era stato consegnato a Mori.

    Ma alla spiegazione di Feo anteponiamo un breve riassunto delle parti precedenti, perché è una perla che va vista nell’insieme.

    In  pratica, ci è stato detto:

    C’è un papello, fatto così e così, contenente le richieste della mafia. E’ stato consegnato in copia da Massimo Ciancimino ai PM. Se poi sia una copia di se stesso o un’altra cosa, ce lo deve dire Ciancimino. Poi su questo papello c’è una nota: “consegnato a Mori”. E cos’era stato consegnato a Mori? Ve lo dico subito: non il papello con su scritto “consegnato a Mori”, ma degli appunti, redatti tra il 92 e il 93, pieni di sorprese. (che tra l’altro, mai sono stati consegnati a Mori). E fra queste sorprese, ad es., c’è Vito Ciancimino che scrive di ritenere che i boss mafiosi siano pazzi, oppure abbiano le spalle coperte politicamente. Per ora, fine delle sorprese.

    Sticazzi, chiarissimo, ed inquietante.

    A quel punto bisogna assolutamente sentire che ne pensa Violante:

    VIOLANTE: “Ma, bisogna vedere bene prima  che cosa sono, questi appunti. Si parla di fotocopie… bisogna vedere se corrispondono a quello dato ai magistrati. Quindi sarei molto molto prudente Sia ben chiaro: la mafia ha sempre cercato il contatto con i poteri pubblici: non è una novità.

    TRADUZIONE: Ma santa pazienza, dite di volermi intervistare sul papello consegnato ieri da Ciancimino, e mi mostrate questa roba, una deposizione di Ciancimino davanti a Caselli nel 93 che non c’entra una sega col papello e quindi non è quello che ieri han dato ai magistrati. Che caspita volete che vi dica? Mah…, dirò di stare molto prudenti a far ‘sti casini coi documenti, e poi qualcosa di un po’ generico sui contatti fra mafia e politica. Ma guarda che mi tocca… 

    E in conclusione, torna il nostro


    SPEAKER: col famoso papello finalmente sul tavolo dei magistrati, e le rivelazioni sui contatti fra stato e cosa nostra giunte a Paolo Borsellino poco prima della sua morte, i magistrati hanno elementi per nuove indagini, che potrebbero far luce sul periodo delle stragi, e sulle responsabilità.

    Tutto chiaro, il telespettatore è servito. Ora, grazie a queste informazioni opportunamente approfondite e spiegate dal nostro Truman Show, sa che i magistrati hanno sul tavolo una patacca, che si va ad aggiungere agli altri schiaccianti elementi a loro disposizione per nuove indagini, come “le rivelazioni sui contatti fra stato e cosa nostra giunte a Paolo Borsellino poco prima della sua morte”.

    E quali sarebbero queste rivelazioni?

    Le sole ed uniche rivelazioni nuove, sulle informazioni giunte a Borsellino sulla trattativa, sono quelle di Martelli ad Annozero, e cioè:

    «Mi fu comunicato dal direttore degli Affari penali del ministero, Liliana Ferraro, che era venuta a trovarla l’allora capitano Giuseppe De Donno, che l’aveva informata che Vito Ciancimino aveva volontà di collaborare». Cui seguì una precisazione di Sandro Ruotolo, che riferisce  che, secondo Martelli, Borsellino fu avvertito direttamente dalla Ferraro della volontà di Ciancimino di trattare.


    Quindi queste nuove rivelazioni, sarebbero che Borsellino era stato informato che Don Vito Ciancimino voleva collaborare con gli inquirenti (nespole, che rivelazioni inquietanti). Che è esattamente ciò che Mori va ripetendo da anni, nonché ciò che era agli atti della Procura di Palermo, con la deposizione dello stesso Ciancimino che abbiamo pubblicato, da oltre 16 anni.

    Caspita, proprio  nuove, nuovissime, rivelazioni.

     

    Questo è l’Italian Truman Show, giunto al termine della sua prima puntata.

    enrix                   
     

     
    • anonimo 23:36 on 24 November 2009 Permalink | Rispondi

      Enrix, tu affermi:

      Innanzitutto Ciancimino comunica la data degli incontri avuti con i carabinieri: dal 25 di agosto 92 (De Donno) al 1 settembre 92 (Mori) e oltre. Tutte date che smentiscono l’attuale teoria accusatoria dei PM contro Mori, ed escludono il coinvolgimento dei ROS e della loro trattativa, nella strage di Via D’Amelio (luglio 92)

      In realtà sono tutte date che smentiscono gli stessi  De Donno e Mori.

      Udienza del 24 gennaio 1998, al processo per le stragi nel continente celebrato di fronte alla Corte di Assise di Firenze:

      Teste Mori:…Incontro per la prima volta Vito Ciancimino a casa sua, a via di Villa Massimo, che è dietro Piazza di Spagna a Roma, il 5 agosto…nel pomeriggio del 5 agosto del 92

      A supporto di questo e di altri incontri Mori consegna ai giudici pagine delal sua agenda

      Teste Mori: Sì, ho portato la fotocopia delle pagine, solo delle pagine relative, ovviamente. E qui leggo: "5 agosto tra le 14 e le 15" – dell’agenda – "incontro con V.C.", cioè Vito Ciancimino.
      "Sabato 29 agosto, ore 16.00 V.C.", cioè Vito Ciancimino.
      "1 ottobre" – sempre di quell’anno – "pomeriggio, colloquio con V.C.".
      "Domenica 18 ottobre ore 11.30 V.C.".
      "22 gennaio" – dell’anno successivo, quindi siamo nel 93 – "ore 9.00, incontro con V.C.", qui a Rebibbia, anche se non l’ho scritto – "ore 14.00, 13.30 – 14.00 incontro col dottor Caselli"

      Quesito: chi dice la verità?

      Veniamo ora a De Donno, sempre il 24 gennaio 1998.

      Teste De Donno: …E abbiamo provato il contatto che, tra la strage di via Capaci e la strage di via D’Amelio, avviene. Perché Ciancimino accetta di incontrarmi nella sua abitazione di Roma. In quel periodo che Ciancimino era libero…

      Enrix, tu affermi: …il resoconto reso da Mori su quelle vicende, in parte riportato nel virgolettato sull’articolo di Repubblica, coincide perfettamente con quello reso da Ciancimino sul suo manoscritto.

      In realtà, più correttamente, è vero l’inverso: ciò che affermano Mori e De Donno coincide nella sostanza con gli interrogatori resi da Vito Ciancimino nel 1993 indipendentemente dalla veridicità o meno della sua trascrizione. La sequenza temporale degli eventi può non essere neutra rispetto all’analisi di queste testimonianze. Vediamo perché.

      Teste Mori:...L’inizio delle escussioni del Ciancimino verso la metà di febbraio. Ad alcune ho assistito anch’io. Nel contesto di queste dichiarazioni che rese ai magistrati della Procura di Palermo, Ciancimino fece cenno a tutta la vicenda del rapporto tra di noi e lui.
      Il capitano De Donno, che compilò gli atti relativi e tutti gli accertamenti connessi connessi alle dichiarazioni di Ciancimino, riferì anche sui nostri rapporti. La Procura di Palermo non ci ha mai chiesto alcunché su questo fatto.

      Nei fatti, potremmo dire che Mori e De Donno nel 1998 confermano ciò che già è stato detto nel 1993.

      Per ora è tutto.

      Andrea G.

    • enrix007 02:01 on 25 November 2009 Permalink | Rispondi

      Ottimo intervento Andrea, ed ottime argomentazioni.

      le commenterò domani, che ora sono stanco.

      Però le incongruenze sulla data del primo appuntamento, credo meritino approfondimento, ed anche un articolo. Vanno senz’altro chiarite.

      Dimmi, se mi puoi asser d’aiuto: a quale fonte hai attinto per i verbali del 24 gennaio 98?

    • anonimo 10:11 on 25 November 2009 Permalink | Rispondi

      Buongiorno Enrix,

      L’Associazione delle vittime della strage di via dei Georgofili recentemente ha messo in rete i verbali dei dibattimenti.

      Vai a:

      http://www.strageviadeigeorgofili.org

      A sinistra dello schermo vai a "documenti", poi "verbali del primo dibattimento", poi "udienze", clicca su "980124", lì ci sono le deposizioni di Mori e De Donno.

      A presto

      Andrea

    • anonimo 17:17 on 25 November 2009 Permalink | Rispondi

      Scusa Andrea perchè scrivi chi dice la verità? Premesso che comunque gli incontri sono successivi la morte di Borsellino (come giustamente scrivi anche te) immagino che sia stato Ciancimino a ricordare male. Ho esistono atti ufficiali in cui Mori sostiene altre date?

      Solo per capire, Andrea.

      Gianluca

    • anonimo 17:24 on 25 November 2009 Permalink | Rispondi

      Tra l’altro leggo dagli atti ufficiali che gentilmente Andrea hai linkato relativi alla sentenza sulle stragi trovo scritto che Mori non ha agito assolutamente fuori le righe ha solo cercato con la collaborazione con Ultimo di arrivare ai capimafia:

      SENTENZA  (n. 2/2000 – depositata il 20.4.2000)

      In effetti Mori, che aveva informato Subranni il quale – pur lasciandogli ampi
      margini di autonomia e concordando con l’iniziativa – lo avvertì che il
      personaggio era abile e da trattare con estrema cautela e circospezione (la sostanza dei consigli fu questa anche se Subranni non ha confermato i termini letterali delle raccomandazioni come riferite da Mori: “…ti può mettere sotto scopa …”), e De Donno si accreditarono presso Ciancimino come rappresentanti dello Stato. Al di là di ogni loro aspettativa, Ciancimino si mostrò disponibile, e il 1 ottobre confermò che era in grado di fare da intermediario con i “corleonesi”. Quando, il successivo 18 ottobre, chiese esplicitamente cosa avevano da offrire, il “bluff” dei due ufficiali venne scoperto. Essi, in realtà, non potevano dare nessuna garanzia, e Mori fece l’unica proposta cui, quale ufficiale di p.g., era legittimato: Riina e Provenzano avrebbero dovuto costituirsi, i loro
      familiari sarebbero stati protetti. Dunque, una richiesta di resa incondizionata. Ciancimino ebbe una reazione impressionante, scattò in piedi adirato e congedò l’interlocutore dicendo: “Lei mi vuole morto, anzi vuole morire anche lei, io questo discorso non lo posso fare a nessuno.”
      Il 19 dicembre Ciancimino fu arrestato, in seguito risulta aver collaborato, ma, citato dalla difesa perché deponesse ai sensi dell’art. 210 c.p.p. all’udienza del 13.10.1999, si è avvalso della facoltà di non rispondere.

    • anonimo 18:16 on 25 November 2009 Permalink | Rispondi

      Ciao Gianluca,

      sinteticamente poi probabilmente ci ritorneremo.

      - De Donno incontra, a suo dire, Vito Ciancimino tra le due stragi, poi, dopo la strage di via D’Amelio interviene Mario Mori

      - chiedo "chi dice la verità" perché le date di Mori differiscono da quelle della trascrizione di Ciancimino.

      Non ho espresso la mia opinione su chi dica la verità, può essere benissimo che Ciancimino abbia ricordato male. Più difficile che sia Mori a dire il falso perché ha con sé le pagine delle sua agende.

      Il problema è un altro (tra i tanti): siamo sicuri che la trascrizione di Ciancimino sia autentica? aggiungo che più della trascrizione a me interessano i verbali degli interrogatori al Ciancimino. Io non li ho ma per una serie di ragioni io credo che collimino nella sostanza con quelli successivi a Mori e De Donno.

      In questo stadio dell’analisi non esprimo ancora giudizi sui comportamenti dei soggetti.

      Andrea

    • anonimo 00:13 on 26 November 2009 Permalink | Rispondi

      Capisco che giustamente vuoi approfondire, stessa cosa mia, ma attualmente quanto sostiene Enrix è immodificabile, sto parlando delle considerazioni fatte con il materiale che abbiamoa disposizione.

      Di certo traspare una considerazione certa, è in atto un depistaggio MEDIATICO DI DIMENSIONE GIGANTI.

      Gianluca

    • enrix007 03:31 on 26 November 2009 Permalink | Rispondi

      E non è neppure un’operazione troppo facile, caro Gianluca, bisogna darne atto.

      Se si spinge troppo sul filone trattativa, si possono sottrarre elementi indiziari a carico di Berlusconi come mandante.

      Se si spinge troppo sul movente-mandante "Berlusconi", si depaupera il filone trattativa col rischio di scagionare Mori, che è già sotto processo.

      Non a caso il filone trattativa è spinto nel processo Mori, e l’altro nel processo Dell’Utri.

      Di fatto sono due processi che si contendono mandanti e moventi delle stragi, con una sapiente regia mediatica che cerca di renderli compatibili e conniventi tutti e due.

      Compatibili con la possibilità di esistere, ma per ora ben poco con la realtà, perchè ci sono testimnianze in contrasto fra di loro e documenti falsi che girano nelle aule di giustizia.

      Eh, si. Per fare luce occorrerebbe un po’ di pulizia.

    • anonimo 09:17 on 26 November 2009 Permalink | Rispondi

      A me sembra che si stia cercando di separare le varie stragi, quelle del 92 da quelle del 93.
      Berlusconi secondo le indiscrezioni viene abbinato ormai solamente alle bombe del 93.
      Anche le stragi del 92 vengono separate; quella di Capaci è opera della mafia, credo che nessuno lo metta in dubbio, quella di via D’Amelio sarebbe opera dello stato.
      Insomma quello che sembrava semplice, bombe di mafia, lo stanno facendo diventare una cosa complicatissima.

      La strage di Capaci mi permette di fare una divagazione.
      Ieri ho sentito alla radio da Cruciani le disavventure di Schifani. Credo che ad esporle fosse Flores D’Arcais, mi è sembrato che Cruciani lo chiamasse Flores o Floris, ma non mi sembrava la voce di Giovanni Floris.
      Cosa sosteneva Flores? Sosteneva che in un paese civile Schifani non sarebbe neanche in parlamento perchè quando era avvocato difese il costruttore di un edificio abusivo a Palermo, questa mi è sembrata l’accusa.
      E come la mettiamo con quel senatore dell’IDV che prima di essere eletto è stato il difensore di Giovanni Brusca, quello che ha messo la bomba a Capaci?
      Sottosegretario alla giustizia del governo Prodi.
      Se i dubbi valgono per Schifani, a maggior ragione, secondo me, valgono per Li Gotti.
      Se non dubitiamo di Li Gotti, non possiamo dubitare nemmeno di Schifani.

      L’avvocato che umanizza la ferocia.

      http://archiviostorico.corriere.it/1996/settembre/01/Gotti_avvocato_che_umanizza_ferocia_co_8_9609013761.shtml

      Ciao, Gabriele

    • anonimo 11:48 on 26 November 2009 Permalink | Rispondi

      Non voglio entrare nel merito di date, luoghi e stragi.
      Da politico in erba, vorrei fare delle considerazioni che, stante le lapallisiane manipolazioni in corso nelle procure di Palermo e Caltanisetta, mi portano a leggere i FATTI sotto altra luce, ponendomi altresì una domanda: perchè?
      Perchè dei PM che già avevano indagato, interrogato, raccolto testimonianze, confessioni, già all’epoca delle due stragi (CHE NON SONO DI STAMPO MAFIOSO, PERCHE’ LA MAFIA UCCIDE NEL SILENZIO DELLA LUPARA), con processi già celebrati, sentenze già emesse, oggi a distanza di 16-17 anni dai fatti, riaprono il tutto?
      Perchè dei PM danno credito a dei pentiti, già sentiti, vagliati, smentiti da processi, che fanno rivelazioni  solamente di derelato, oggi hanno credito?
      Perchè dei PM, perseguendo nella loro volontà di piegare anche la dimensione temporale, voglio mettere sotto lo stesso cappello, due processi, Dell’Utri e Mori, così da far contraddire le due corti chiamate a giudicare, creando una dicotomia lampante nella giustizia italiana?
      Se tutti diamo la stessa risposta, allora credo che si arriverà a quello che non si riuscì di fare nel 1992 e che SB con la sua discesa in campo nel ’94 non permise e cioè all’allegra armata di instaurare un regime di allegro comunismo, in mano ai poteri forti del Britannia.
      Quindi se tutto il lavoro meritorio di Enrix diviene per l’ennesima volta carta straccia, ci troveremo ancora a dover difendere, ob torto collo, uno come SB che è la negazione della politica e l’anfitrione della menzogna, ma che cmq rimane il mane minore per la democrazia italiana.

      Star Joe, coffa di maestra Catania

    • anonimo 03:02 on 30 November 2009 Permalink | Rispondi

      Ciao Enrix, hai scritto che dal doc.3, la mafia voleva da Ciancimino una prova di credibilità, che aggiustasse alcune cose, probabilmente un processo… e forse proprio per questo C. voleva incontrare Violante. Non hai approfondito… Non si può ipotizzare che questo fosse un anticipo di contropartita richiesta dalla mafia? C. voleva incontrare Violante (mi pare non ci riuscì) ma chi ci dice che non abbia trovato qualcun’altro disposto ad ascoltarlo? Insomma questa frase ha attirato la mia attenzione, se la mafia ha richiesto questo tipo di garanzia vuole dire che si aspettavano fosse possibile ottenerla… tu invece l’hai buttata li senza approfondire…

      Ma poi in molti punti del memoriale C. lascia intendere che secondo lui i suoi interlocutori mafiosi avevano le spalle coperte politicamente, cioè la trattativa vera non era la sua con i Ros ma un’altra che stava comunque avvenendo… tu non lo hai per niente approfondito… questo è il punto importante. Non il fatto che i Ros non c’entrano, ma il fatto che la trattativa pare esserci stata.

      Ultima cosa, secondo te da chi è mosso Ciancimino junior? Perché i papelli falsi?

      Luigi C.

    • anonimo 09:13 on 30 November 2009 Permalink | Rispondi

      Buongiorno sig. Enrix
      stamattina ho ascoltato come il solito la rassegna stampa di radio24 ed e’ stato letto un articolo della giornalista Marcelle Padovani (spero di non sbagliarmi), autrice di un libro su Falcone, che in non so quale quotidiano in edicola oggi ha detto che Berlusconi vive nel Truman Show (testuali parole).
      Ho subito pensato che magari e’  capitato su queste pagine!
      Buona giornata.
      Luigi (C. anch’io ma non sono quello di sopra. Sono quello del Pensatore, per capirci)

    • anonimo 09:35 on 1 December 2009 Permalink | Rispondi

    • anonimo 13:29 on 2 December 2009 Permalink | Rispondi

      Ciao Enrix, volevo segnalarti un interessante articolo su democrazia e legalità
      http://www.democrazialegalita.it/redazione/redazione_vere_parole_borsellino=24novembre2009.htm
      Vai alla fine della pagina che ti ho linkato e clicca su link… chissà che tu non riconosca la fonte

    • anonimo 13:29 on 2 December 2009 Permalink | Rispondi

      il mio nome è Alex

  • Avatar di enrix

    enrix 00:04 on 3 November 2009 Permalink | Rispondi
    Tags: , , , , , , , , , luciano violante, , , , , , , , , , , , , ,   

    LA SCOMPARSA DEI FATTI 

    Antimafia Fiction

    Rivelazioni schock, accordi tra boss e politici, “sbirri” collusi, omicidi eccellenti. Nel perfetto film di Palermo sulla trattativa tra Cosa nostra e lo Stato c’è proprio tutto. Tranne i fatti

    Leggi l’intervista a Giuseppe del Vecchio

    Leggi: L’inchiesta bomba archiviata

    di Chiara Rizzo

    Palermo, aula della IV sezione penale del tribunale, 20 ottobre 2009. Sguardi compunti e grandi inchini davanti ai pm antimafia e ai lacunosi ricordi di Luciano Violante. Risolini scettici e qualche plateale sbuffo di noia nei riguardi delle dichiarazioni spontanee del generale Mario Mori. Nell’aula al secondo piano del tribunale di Palermo c’è un clima di tifo effervescente per i teoremi dei pm Antonino Ingroia e Nino Di Matteo. Tanto che ad un certo punto il generale richiama stizzito all’ordine l’appuntato di AnnoZero, Sandro Ruotolo. Cosa succede a Palermo? La copertina dell’ultimo numero dell’Espresso, viene in soccorso: “Esclusivo: Tra mafia e Stato. I verbali inediti dei pentiti Brusca e Spatuzza. Così andò la trattativa tra Cosa nostra e i politici. Da Mancino a Berlusconi”. Tempi vorrebbe rovesciare la prospettiva, sulla base delle carte e di un quesito apparentemente stravagante: dove nascondereste voi una foglia? Forse in un bosco, no? E dove nascondereste il mistero di un’inchiesta scottante archiviata frettolosamente? Forse in mezzo a tante altre inchieste?
    Sostiene Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, che «siamo all’anticamera della verità». Una verità che ne ospiterebbe al suo interno molte altre, come un gioco di scatole cinesi. Una verità che sarebbe contenuta nelle pieghe del famoso “papello” con le richieste di Totò Riina allo Stato, vergate nell’anno 1992. La prova di una trattativa tra mafia e istituzioni, secondo la procura siciliana. Custode del papello e intermediario tra boss e Stato, attraverso i massimi vertici dei carabinieri, sarebbe stato Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo vicino ai corleonesi e condannato per mafia. Dietro la supposta trattativa via papello, ci sarebbe la soluzione di molti misteri italiani. Da quello di via d’Amelio, l’attentato in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino (e ucciso, secondo la tesi dei pm palermitani, proprio perché non avrebbe condiviso la trattativa). Giù giù fino alla spiegazione delle stragi del ’93 a Roma, Firenze, Milano, organizzate, sempre secondo la tesi dell’antimafia, per vendetta contro lo Stato traditore dei patti. E ancora giù, fino all’ultima scatola infernale: quella di una presunta seconda trattativa, avviata alla fine del ’93 con il nuovo referente politico, Forza Italia, tramite Marcello Dell’Utri. Quest’ultima è senz’altro la parte più golosa del teorema palermitano, adombrata dal pentito Giovanni Brusca (quello che azionò il telecomando nella strage di Capaci) nelle sue rivelazioni riportate dall’Espresso. Brusca non aveva ancora finito di parlare dalla copertina del settimanale, che già sulle pagine di Repubblica si affacciava il “nuovo” pentito Gaspare Spatuzza, pronto a confermare la trattativa con Forza Italia.
    Chissà quanti altri recupereranno la memoria prossimamente. D’altra parte, l’urgenza di “nuove rivelazioni” pare aver rinfrescato i ricordi anche a Claudio Martelli (nel ’92 ministro della Giustizia) e a Liliana Ferraro (allora direttrice degli Affari penali del ministero). A entrambi è ritornato in mente che in effetti, prima di morire, Borsellino sapeva di una trattativa tra mafia e Stato. E guardacaso il soprassalto di memoria dei due è avvenuto proprio nel corso di un’intervista di Sandro Ruotolo per la puntata di AnnoZero in onda l’8 ottobre 2009.

    Tutti ricordano diciassette anni dopo
    Ma come si è arrivati, diciassette anni dopo i fatti, «all’anticamera della verità», per dirla con Ingroia? Riavvolgiamo il film e torniamo al punto di partenza. Il processo palermitano contro Mori (il generale dei carabinieri che nel 1993 guidò l’operazione che condusse all’arresto di Totò Riina), si dipana lungo due filoni di indagine. Il primo riguarda la mancata cattura, nel ’95, di Bernardo Provenzano, successore di Riina ai vertici di Cosa nostra: Mori è accusato di aver favorito la fuga del boss. Il secondo riguarda invece il presunto papello di Riina: la tesi dell’accusa è che Mori avrebbe fatto da tramite, durante i suoi abboccamenti del ’92 con Ciancimino, tra mafia e alti livelli dello Stato. C’è un problema, però, per i fan del teorema a cascata trattativa-mafia-carabinieri-Stato-Dell’Utri- Berlusconi”: i fatti.
    Primo fatto. La principale fonte delle informazioni sulla presunta trattativa mafia-Stato è oggi Massimo Ciancimino, il figlio di “don” Vito. Il quale inizia a rilasciare dichiarazioni alla direzione distrettuale antimafia palermitana , cioè a Ingroia e Di Matteo, nell’aprile del 2008. Ovvero sedici anni dopo i fatti in questione. E soprattutto un anno dopo la sua condanna, l’11 marzo 2007, per riciclaggio e tentata estorsione. A luglio 2008 si apre il processo contro Mori, dove l’accusa è sostenuta dai pm Ingroia e Di Matteo. E Ciancimino jr. a furia di rivelazioni, da figlio di mafioso, arrestato, condannato e alleggerito nelle proprietà e nei beni per la cifra astronomica di 60 milioni di euro, viene trasformato, grazie alla ribalta mediatica, in superteste (con tanto di scorta) di un processo, quello contro il generale Mori, che sui media è ormai diventato un “processo allo Stato”.

    L’interrogatorio dimenticato
    Secondo fatto. Fino al giugno 2009, Massimo Ciancimino rimane evasivo sul famoso papello custodito da papà Vito. Messo però alle strette dai pm, nel luglio 2009 (proprio nei giorni a ridosso della sentenza di Genova che ha ridotto la condanna al colonnello Michele Riccio, l’uomo che accusa il generale Mori di aver favorito la fuga di Provenzano), promette ai magistrati di consegnare il foglio con le richieste di Riina, e rivela loro che i primi incontri tra suo padre e gli alti ufficiali dei Ros (Mori e Giuseppe De Donno) risalivano al giugno del ’92, prima della strage di via D’Amelio. Ad oggi, però, a Palermo risultano depositate solo due fotocopie di appunti manoscritti: una del presunto papello di Riina, l’altra è la fotocopia della versione riveduta e corretta da Vito Ciancimino. Dove sono gli originali di questi documenti?
    Terzo fatto. Esistono manoscritti originali e verbali di interrogatorio, dei quali il pm Ingroia e l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli sono a conoscenza dal gennaio del 1993, in cui Vito Ciancimino stesso parla degli incontri con gli ufficiali del Ros, l’allora colonnello Mori e l’allora capitano De Donno. Tali documenti sono stati depositati il 20 ottobre scorso al processo Mori. Che spiegazione ha dato di questi abboccamenti con Cinancimino l’ex numero 1 del Ros? Mori innanzitutto li ha collocati a partire dal 5 agosto 1992, dopo la morte di Borsellino (il che escluderebbe che la presunta trattativa mafia-Stato sia stata la causa della morte del magistrato). In secondo luogo il generale ha chiarito a quali ragioni investigative rispondessero tali incontri: attraverso il sindaco mafioso i carabinieri intendevano ottenere indicazioni per arrivare alla cattura dei boss. L’incontro significativo sarebbe stato il quarto, quello avvenuto il 18 ottobre 1992, dopo che Ciancimino aveva avviato i contatti con i corleonesi. Ha ricordato il generale Mori: «Mi disse: “Guardi, quelli accettano la trattativa. Voi che offrite in cambio?”. Io non avevo nulla da offrire, per cui dissi: “I vari Riina, Provenzano si costituiscano e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. A questo punto Vito Ciancimino si imbestialì». Ecco perché la “trattativa” è saltata: perché non c’è stata nessuna trattativa.

    E don Vito disse: il patto? Una palla sonora
    In seguito, nel dicembre del ’92, Vito Ciancimino viene arrestato. Il 15 gennaio 1993 il capitano Ultimo, dei Ros guidati da Mori, arresta anche Riina. Lo stesso giorno si insedia a Palermo il nuovo procuratore Giancarlo Caselli. Che da Mori viene immediatamente informato di una richiesta di Ciancimino: il sindaco vuole incontrare il nuovo procuratore palermitano nel carcere di Rebibbia, dov’è detenuto, perché intende rilasciare alcune dichiarazioni. Il 27 gennaio avviene il primo interrogatorio di Ciancimino. Sono presenti il procuratore Caselli, il pm Ingroia, il colonnello Mori e il capitano De Donno. Seguono numerosi interrogatori a cui sono sempre presenti Ingroia e Caselli. Quello che ci interessa è l’interrogatorio del 17 marzo 1993 (clicca sopra per scaricarlo – ndr) , ore 9.30. In quell’occasione Ciancimino parla estesamente con Caselli e Ingroia degli incontri avuti nel 1992 con i carabinieri. Nota bene: a quell’epoca l’ex sindaco di Palermo avrebbe tutto l’interesse a retrodatare il più possibile questi incontri, per candidarsi così ad accedere ai benefici per i “collaboratori di giustizia”. Cosa dice invece quel 17 marzo 1993 Vito Ciancimino? Spiega a Caselli e a Ingroia che «avevo avuto dal capitano De Donno varie sollecitazioni per iniziative comuni. Le avevo respinte. Ma dopo i tre delitti (quello di Lima, che mi aveva sconvolto; quello di Falcone che mi aveva inorridito; quello di Borsellino che mi aveva lasciato sgomento) cambiai idea. Manifestai la mia intenzione di collaborare, ma chiesi un contatto con un livello superiore. Conseguentemente il capitano De Donno tornò a casa mia (mi pare il 1° settembre 1992) accompagnato dal colonnello Mori. Esposi il mio piano: cercare un contatto per collaborare con i carabinieri. Questo piano fu accettato, e una ventina di giorni dopo incontrai una persona, organo interlocutorio di altre persone». Il “contatto” è Antonino Cinà, il medico della mafia. Ricorda Ciancimino: «Chiamai i carabinieri, i quali mi dissero di formulare questa proposta: “Consegnino alla giustizia alcuni latitanti grossi e noi garantiamo un buon trattamento alle famiglie”. Ritenni questa proposta angusta per poter aprire una valida trattativa».
    Cosa fanno davanti a queste dichiarazioni Caselli e Ingroia, l’uomo che conduce l’accusa contro Mori e sostiene la tesi di una trattativa tra mafia e Stato? Nulla. Non battono ciglio. Leggono, firmano e sottoscrivono il verbale dell’interrogatorio. Vito Ciancimino racconta anche altro in quell’interrogatorio del 17 marzo 1993. Racconta di un secondo tentativo di collaborare con i carabinieri. Ecco le sue parole a verbale: «Il 17 dicembre partii per Palermo, dove mi incontrai con l’intermediario-ambasciatore. Io gli avevo raccontato (d’intesa con i carabinieri) una “palla” sonora, grossa come una casa, vale a dire che un’altissima personalità della politica (che non esisteva), che era un’invenzione mia e dei carabinieri, voleva ricreare un rapporto tra le imprese. Comunicai l’impegno dell’interlocutore-ambasciatore a rispondermi al capitano De Donno. Questa comunicazione avvenne il sabato. Mezz’ora dopo questo colloquio venivo arrestato». Dunque: Ciancimino dichiara anche di aver proseguito i contatti con i mafiosi e riferito ai carabinieri. Malgrado questo, viene arrestato. Naturale che sia imbufalito. Eppure, nonostante abbia più di una ragione per volersi vendicare dei carabinieri che lo usavano ma non lo hanno sottratto all’arresto, non si presenta come il tramite tra Riina e Mori e come il custode di un documento (il famoso papello) che prova l’esistenza di una trattativa con lo Stato. Anzi. Don Vito bolla il coinvolgimento di «un’altissima personalità della politica» come «una palla sonora, grossa come una casa». Quel 17 marzo Ingroia legge e sottoscrive tutte queste affermazioni di Ciancimino. I dubbi gli sono venuti diciassette anni dopo.

    02 Novembre 2009

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     
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