INTERVISTA A DE DONNO
Intervista a De Donno.
Intervista a De Donno.
Perchè considero inattendibile Massimo Ciancimino
di Sebastiano Gulisano
Mi sarebbe piaciuto assistere alle udienze del processo Mori-Obinu, all’inizio di febbraio, per osservare le facce dei protagonisti, scrutarne le espressioni mano a mano che procedeva il racconto del «teste assistito» Massimo Ciancimino sulla trattativa Stato-mafia dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992 e prima della strage di via d’Amelio. Avrei voluto scrutarne gli sguardi, le espressioni, le smorfie, i gesti e, attraverso essi, tentare di interpretare i pensieri di ciascuno di loro. A pensarci bene, non mi sarebbe nemmeno bastato esserci: mi ci sarebbero volute un bel po’ di telecamere, almeno una per ogni protagonista e una sala di regia da dove osservare. In quell’aula di Tribunale, però, non c’ero, né ho visto filmati di quel dibattimento, di quelle udienze; ho solo ascoltato le registrazioni di Radio Radicale delle tre giornate in cui Ciancimino ha raccontato la sua verità. In precedenza, avevo letto tutti i verbali depositati dai pm agli atti del processo Mori-Obinu, scaricati dalla rete tramite il sito Censurati.it. Sulla vicenda, inoltre, conoscevo la progressione delle dichiarazioni di Giovanni Brusca dal 1996 in poi, le testimonianze degli ex ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno al processo di Firenze sulle stragi del 1993, la versione ufficiale di don Vito Ciancimino che sostanzialmente coincide con quella dei carabinieri: la trattativa sarebbe iniziata dopo le stragi siciliane, alla fine di agosto. Senza contare le innumerevoli cronache giornalistiche che, negli anni, hanno trattato l’argomento. Insomma: pensavo di saperne qualcosa e mi ero anche formato qualche idea.
Dopo le dichiarazioni di Ciancimino jr, specie dopo la sua testimonianza in Tribunale nei giorni 1, 2 e 8 febbraio 2010, non so più nulla. O quasi.
Nelle ultime settimane ho riletto tutti i verbali del figlio di don Vito e ascoltato più volte attentamente le sue parole al processo Mori-Obinu: l’unica cosa che mi è chiara è che Massimo Ciancimino ha studiato male, talmente male da riuscire a contraddirsi persino sulle vicende di cui è stato protagonista diretto. Figurarsi su ciò che gli avrebbe raccontato il defunto don Vito.
Complessivamente, il racconto del «testimone assistito» è verosimile. Verosimile non vuol dire vero, ma raccontato in maniera tale che possa sembrarlo. Specie se non si hanno elementi di paragone. Il fatto è che se si mettono a confronto le cose che Ciancimino racconta ai pm in due anni di collaborazione (già in parte contraddittorie, ma in qualche modo giustificabili) con quelle che racconta nell’aula del processo Mori-Obinu la sua attendibilità va a farsi friggere. Non perché dica cose false (non sono in condizione di saperlo), ma perché in più occasioni afferma cose radicalmente diverse rispetto a quelle dichiarate ai pm: nella migliore delle ipotesi, ha problemi di memoria. Problemi seri. So che un Tribunale, in relazione a determinati fatti palermitani degli anni Ottanta, lo ha ritenuto attendibile, ma so anche che quella patente di attendibilità non rende né vero né attendibile tutto ciò che dice Massimo Ciancimino.
Faccio qualche esempio così risulta chiaro ciò che intendo.
Dall’interrogatorio del 7 aprile 2008 davanti ai pm palermitani Nino Di Matteo (PM) e Antonio Ingroia (PM1):
«CIANCIMINO: De Donno (…) L’ho incontrato subito dopo l’omicidio del dottor Giovanni FALCONE in una… sul volo Palermo – Roma. In quell’occasione siamo riusciti, parlando con la hostess, a farci assegnare un posto accanto… (…) …mi ricordo proprio il periodo, è stato una settimana dopo, 10 giorni dopo (la strage di Capaci, ndr). (…) l’incontro con DE DONNO è avvenuto circa 10 – 15 giorni dopo… (…)
CIANCIMINO: Ci siamo messi accanto e lui mi ha detto: ma secondo lei… inizialmente mi chiese soltanto se…
P.M.1: Volo Palermo – Roma, giusto?
CIANCIMINO: Palermo – Roma… se mio padre avesse avuto mai intenzione di farsi una chiacchierata con lui. Il primo contatto tra me e DE DONNO dice: ma secondo me tuo papà mi ricever… sarebbe disposto a ricevere me e casomai qualche altro per farsi una chiacchierata? (…) non mi ricordo ovviamente se mi parlò di collega o superiore. Ho parlato con mio padre di questo, più di una volta… premesso, il dottor DE DONNOmi lasciò un recapito telefonico dove trovarlo ed era un numero di una utenza telefonica mobile.
P.M.1: Quindi lei riferendo a suo padre…
CIANCIMINO: Esatto, mio papà disse di chiamarlo, mi disse: vabbè chiamalo e chiedi al Capitano DE DONNO quale dovrebbe essere l’argomento della discussione. Chiamai il Capitano DE DONNO e mi ricordo che in quell’occasione lo incontrai a Palermo, ci incontrammo di fuori della Caserma quella diciamo che purtroppo ho conosciuto pure io, Caserma Carini, quella che c’è qua dietro al Politeama…»
Al processo Mori-Obinu, l’1 febbraio 2010, l’incontro con De Donno non avviene più a Punta Raisi ma a Fiumicino, il volo è Roma-Palermo e il primo appuntamento con De Donno non è più a Palermo, vicino alla caserma Carini, ma a Roma, ai Parioli.
Che la cosiddetta trattativa cominci con un incontro più o meno casuale in aeroporto, fine maggio-primi di giugno, è un fatto noto da 15 anni, raccontato dallo stesso De Donno, che lo ha sempre collocato sul Palermo-Roma, come il primo Ciancimino. Da dove salti fuori la seconda versione non è dato sapere: il pm Di Matteo non ha fatto nulla per indurlo a ricordare meglio; la difesa di Mori non glielo ha stranamente contestato.
Durante l’interrogatorio del 20 novembre del 2009 (condotto da ben 6 pm di Palermo e Caltanissetta) a Ciancimino viene chiesto di spiegare il contenuto di un “pizzino” che lo stesso ha consegnato ai magistrati, una lettera dattiloscritta indirizzata da Provenzano a don Vito, ritirata personalmente da Massimo:
«P.M.: Carissimo ingegnere, ho ricevuto la notizia che ha ritirato la ricetta dal caro dottore… ascolti bene, non…
CIANCIMINO: Sì, sì.
P.M.: …credo che è il momento che tutti facciamo uno sforzo, come già ci eravamo parlati al nostro ultimo incontro, il nostro amico è molto pressato, speriamo che la risposta ci arrivi per tempo, se ci fosse il tempo per parlarne noi due insieme. Io so che è buona usanza in lei andare al Cimitero per il compleanno del padre suo, si ricorda, me ne parlò… me ne parlo lei, potremo vederrci con due erre… per rivolgere insieme una preghiera a Dio o come l’altra volta, per comodità sua, da nostro amico OMISSIS. Bisogna saperlo, perché a noi ci vuole tempo per organizzarci».
Dunque: nel racconto di Massimo Ciancimino il «Carissimo ingegnere» è il padre, la «ricetta» è il papello, il «caro dottore» è Antonino Cinà (che avrebbe consegnato il papello a Massimo il 29 giugno 1992, giorno di S. Pietro – a Roma è festa e lui aveva programmato una gita a Panarea ma ha dovuto rinunciare); «la risposta» che aspettano «per tempo» sarebbe quella delle istituzioni alle richieste contenute nel papello; il «nostro amico» è Totò Riina, «molto pressato» da un soggetto esterno a Cosa Nostra («il grande architetto» lo chiama Ciancimino padre) che vuole continuare la strategia stragista; il «Cimitero» è quello dei Cappuccini, a Palermo; il «compleanno del padre suo» ricorreva il 12 luglio.
Secondo il racconto che Ciancimino jr fa ai magistrati il 20 novembre – lo sintetizzo perché è lungo una decina di pagine –, il pizzino, in busta chiusa, gli sarebbe stato consegnato da persone vicine a Provenzano «alla fine di giugno del 1992» e da lui portato al padre, senza leggerlo; il contenuto gli sarebbe stato riferito successivamente dallo stesso don Vito. Massimo è certo del periodo perché ricorda che il «padre era venuto a Palermo per incontrare il Lo Verde», alias Provenzano, e che l’incontro «è avvenuto in una giornata di mercoledì (…) di fine giugno 1992».
Al processo, il 2 febbraio, il ritiro della busta, spostato da «fine giugno» ai «primi di luglio» del ’92, avviene in seguito alla consegna a Provenzano, la mattina dello stesso giorno, di un’altra busta «proveniente da Roma» (da don Vito) di cui prima sostiene di non conoscere il contenuto ma, poco dopo, per spiegare in cosa consistesse lo «sforzo» da fare, cambia idea e dichiara che «mio padre mi dice che nella lettera che aveva mandato a Provenzano lamenta come queste situazioni, queste richieste del Riina erano inattuabili, quindi viene chiesto a mio padre di fare quell’ulteriore sforzo che viene identificato da mio padre, me lo dice lui, in quella specie di contropapello: cercare dei punti di convergenza per andare avanti nella trattativa, in quanto lo stesso mio padre aveva definito non attuabile il tutto».
Nell’analisi del passaggio successivo la divaricazione con le dichiarazioni rese ai pm di Palermo e Caltanissetta si fa evidente, ché quando c’è da interpretare la speranza «che la risposta ci arrivi per tempo se ci fosse il tempo di parlarne noi due insieme», succede il patatrac:
Pm Ingroia: «A che risposta si riferisce Provenzano?»
Ciancimino: «Alla possibilità di avanzare il contropapello di mio padre come condizione su cui continuare questa trattativa».
Ingroia: «Non ho capito. La risposta di chi a chi. Provenzano di quale risposta parla?»
Ciancimino: «La risposta di mio padre. Mio padre doveva fornire un tipo di documentazione su cui aprire questa eventuale altra possibilità di trattare con questi soggetti e sollecita un incontro a tal proposito fra i due che poi di fatto avviene».
Ingroia: «Cioè una risposta che doveva dare suo padre?»
Ciancimino: «In merito a quella che era la sottoposizione di questo elenco di…»
Siccome la cosa sembra volgere al peggio, il pm Ingroia, come si dice dalle mie parti, c’a cala cca cucchiaredda, cioè lo imbocca:
Ingroia: «Sebbene sia un italiano approssimativo, però la frase dice: “speriamo che la risposta CI arrivi per tempo”, cioè “ci” significa “a noi”, “noi” sono i due interlocutori del colloquio, cioè Provenzano e Ciancimino. Quindi, dalla lettura di questa frase, sembra che ci sia una terza persona, diversa da Provenzano e Ciancimino…»
Ciancimino: «Sono i carabinieri, ovviamente».
Ingroia: «Non lo so».
Ciancimino: «Sono i carabinieri e il signor Franco che devono…»
Ingroia: «Non lo so… Una persona diversa deve dare una risposta».
Ciancimino: «…una risposta ad andare avanti in un minimo di trattativa».
La strategia ha funzionato e, dunque, il pm Ingroia continua: «Questo bigliettino consegnato a suo padre è successivo alla consegna del cosiddetto papello?»
Ciancimino: «Si. Il papello è stato ritirato, la ricetta…».
Ingroia: «E quindi, la domanda è… Presidente, richiamo la sua attenzione per evitare che poi mi si dica che faccio domande suggestive, quindi valuterà lei se è tale. La domanda è: la risposta contenuta nel pizzino è la risposta che ci si aspettava dal papello che era stato inoltrato?»
Ciancimino: «Sì, la risposta in merito se c’erano margini di discussioni in merito al papello, ché Provenzano non aveva accesso diretto coi carabinieri, ché mio padre…»
Ingroia: «Benissimo. E allora: quando Provenzano dice a Ciancimino “la risposta ci arrivi per tempo”, “per tempo” rispetto a cosa o a quale eventuale evento si riferisce Provenzano in questo pizzino?»
Ciancimino: «Eventuale…»
Non lo lascia finire e lo incalza: Ingroia: «C’è un riferimento alla pressione cui era sottoposto Riina?»
Ciancimino: «Sì, il riferimento è chiaro. Mi dice mio padre “Ci arrivi per tempo” perché Riina aveva indicato uno spazio temporale entro il quale si doveva rispondere o sì o no a quelle che erano le sue richieste avanzate in quel documento perché sennò sarebbe dovuto andare avanti in quello che era il suo piano iniziale, di proseguire con le stragi».
Potrebbe fermarsi qui, Ingroia, ché la situazione l’ha recuperata brillantemente, ma non gli basta, vuole chiudere il cerchio e rendere plausibili le prime strampalate risposte di Ciancimino.
Ingroia: «E questo perché – lo ha già detto nella prima parte dell’esame condotto dal collega – Provenzano era andato da Riina per cercare di convincerlo a frenare, ad abbassare le richieste, no?»
Ciancimino: «Sì. Analizzare una controproposta che avrebbe avanzato mio padre, che di fatto non si distaccava molto da quelle che erano le sue 12 richieste ma le rendeva presentabili a quelli che dovevano essere i possibili interlocutori».
Un capolavoro, quello di Ingroia: riesce a recuperare una situazione disperata inserendo nell’ultima domanda un elemento di cui non ho trovato traccia nella prima parte dell’esame condotto dal pm Di Matteo (spero che altri la trovino e mi smentiscano): se non sono diventato sordo selettivo, Ciancimino non aveva mai detto (nemmeno negli interrogatori depositati dai ai pubblici ministeri di Palermo e Caltanissetta) che dopo la consegna del papello «Provenzano era andato da Riina per cercare di convincerlo a frenare, ad abbassare le richieste». Ritengo che quello del pm sia un errore riconducibile all’estenuante lunghezza e alla complessità degli interrogatori. Solo in due occasioni, le risposte di Ciancimino alle domande dei pm si erano vagamente avvicinate a quella affermazione: nell’interrogatorio del 19 ottobre 2009, il figlio di don Vito aveva riferito che, dopo avere ricevuto il papello, il padre aveva insistito con Provenzano e con il signor Franco per cercare una mediazione e Provenzano gli aveva risposto che «se si fosse presentato qualcosa di attuabile lui si sarebbe adoperato» per convincere Riina ad accettare; mentre il successivo 20 novembre, commentando il pizzino della “ricetta”, al pm che gli chiedeva se sapesse se Provenzano avesse già parlato del papello con suo padre e con Riina, Ciancimino aveva risposto: «Con tutti e due, io credo che mio padre… cioè io credo… mio padre mi dice che è Provenzanoche deve convincere Riina a discutere e a capire… perché mio padre non parla con Riina».
Nemmeno stavolta la difesa del generale Mori si avvede dell’errore. Anche per loro, vale la stessa attenuante di Ingroia. D’altronde, non se ne sono accorti nemmeno i giudici.
È decisamente più facile starsene seduto davanti a un computer e scovare questi dettagli avendo quasi due mesi a disposizione, con verbali da leggere e rileggere fino allo sfinimento e file mp3 da ascoltare e riascoltare a piacimento.
Al di là di chi se n’è accorto e chi no, a prescindere dal possibile errore commesso da Ingroia, risulta evidente come Ciancimino non ricordi assolutamente l’originaria interpretazione da lui data di quel pizzino. E siccome ciò che sa glielo ha detto suo padre, in assenza di don Vito e di qualsivoglia elemento di riscontro, non possiamo sapere ciò che il padre gli ha detto.
Visto che ci siamo, voglio precisare che dell’inversione della rotta aerea e del cambio di città del primo incontro fra Massimo Ciancimino e De Donno mi sono accorto al primo ascolto, ché la mia memoria non è ancora da buttare. È plausibile che i giudici non abbiano rilevato la discrepanza, ché non sono tenuti a conoscere tutti i verbali di Ciancimino; è sorprendente che non se ne siano accorti Mori e i suoi legali; ritengo che il pm De Matteo, che conduceva l’esame, se ne sia accorto e abbia sorvolato.
I due episodi narrati non intendono sindacare la buona fede di Massimo Ciancimino e la genuinità della sua collaborazione con la giustizia, ma – lo ribadisco – rilevano come la sua memoria sia un colabrodo e, dunque, la sua attendibilità prossima allo zero.
C’è da precisare come in due anni di interrogatori – quantomeno in quelli pubblici – Ciancimino non avesse mai riferito ai magistrati che «Riina aveva indicato uno spazio temporale entro il quale si doveva rispondere o sì o no a quelle che erano le sue richieste». Ma, di fronte a tale novità, non gli viene chiesto a quanto ammontasse tale «spazio temporale», sebbene i tempi, le date in questa vicenda siano importanti tanto quanto i contenuti (a prescindere dalle numerose contraddizioni) della narrazione. Un particolare, questo dello «spazio temporale» tutt’altro che secondario: l’assunto di tutta questa storia è che la trattativa avrebbe convinto Totò Riina che «lo stragismo paga» e, di conseguenza, avrebbe accelerato l’attuazione della strage di via D’Amelio. In tale contesto, dunque, sapere se lo «spazio temporale» si fosse o meno esaurito ci consentirebbe di sapere se l’assunto è reale oppure se la strage di via D’Amelio è avvenuta dopo la fine dello «spazio temporale» e, quindi, la trattativa non avrebbe accelerato un bel niente ma, al contrario, avrebbe attenuato le «pressioni» esterne procrastinando l’attuazione della strage. Di conseguenza, la trattativa non potrebbe rientrare manco di striscio fra i possibili moventi dell’eliminazione del procuratore Paolo Borsellino.
Una ulteriore precisazione: il signor Franco, detto anche signor Carlo, secondo il racconto di Massimo Ciancimino sarebbe un personaggio delle istituzioni, legato ad ambienti dei servizi segreti, tuttora non identificato. Di lui sappiamo che è in relazione con don Vito fin dal tempo in cui il ministro dell’Interno era Restivo (1968-1972) e che nella trattativa è consigliere dell’ex sindaco fin dal primissimo momento. Anzi: don Vito accetta di incontrare i carabinieri solo dopo che Provenzano e il signor Franco gli hanno consigliato di farlo. È il signor Franco, secondo Ciancimino jr, a rivelare a don Vito che dietro i carabinieri c’erano «il ministro Rognoni e il ministro Mancino».
Vediamole, dunque, queste date, così come emergono dalle dichiarazioni dibattimentali.
Il 27-29 giugno del 1992 Massimo riceve la busta contenente il papello dal dottor Cinà, a Palermo, «e la porto subito a mio padre a Roma». Dopo la consegna, il padre lo esorta a telefonare a De Donno per fissare un appuntamento con lui e Mori e, dopo, di fare lo stesso col signor Franco. Inoltre, il padre «informa subito Provenzano» delle richieste «inaccettabili e impresentabili» fattegli recapitare da Riina «e viene invitato a cercare punti di mediazione», a elaborare una proposta «credibile e presentabile». Non è chiaro quando avvengano gli incontri coi carabinieri e col signor Franco, né cosa intenda Ciancimino quando dice che suo padre informa «subito» Provenzano. Non facciamo ipotesi e facciamo finta che lui, in precedenza, su questa punto non abbia detto nulla (ché in realtà ha cambiato versione svariate volte) e, dunque, nulla sappiamo.
Tra la fine di giugno e i primi di luglio Massimo è di nuovo a Palermo per consegnare una busta con un messaggio del padre a Provenzano e, nel pomeriggio dello stesso giorno, ritira da emissari del boss latitante una busta contenente il pizzino in cui si parla della «ricetta». Di tale collocazione temporale Ciancimino, nell’interrogatorio del 20 novembre 2009, si dichiara certo perché ricorda che il «padre era venuto a Palermo per incontrare il Lo Verde», alias Provenzano, e che l’incontro «è avvenuto in una giornata di mercoledì di fine giugno 1992». Il 30 giugno era martedì, dunque il padre e Provenzano si sarebbero visti il 24 giugno (ultimo mercoledì del mese) o il primo luglio. Se l’incontro fosse avvenuto il primo luglio non avrebbe senso che contestualmente i due usassero Massimo come postino per scambiarsi pizzini in cui si parla di «ricetta» – ne avrebbero discusso di persona –, collochiamo perciò l’appuntamento alla data del 24 giugno. Ma non è importante, ché nel processo tale dettaglio non è entrato.
L’altra data certa è quella del 12 luglio, compleanno del defunto padre di don Vito e occasione (vedi pizzino) per incontrare Provenzano e parlare di papelli e contropapelli. Sempre il 12 luglio, inoltre, don Vito incontra nella sua casa dell’Addaura il signor Franco e gli mostra il papello (o gli viene restituito, avendoglielo egli dato in precedenza). Alla fine dell’incontro, don Vito conserva il foglio nella tasca della giacca e commenta che Riina è «il solito testa di minchia» e che le sue richieste sono «inaccettabili e irricevibili». Massimo ha assistito alla scena e ha sentito con le proprie orecchie il padre pronunciare quelle parole, quindi non c’è da dubitare che ciò sia avvenuto.
Non sappiamo quanto tempo abbia concesso Riina, ma sappiamo che due settimane dopo la consegna del papello Vito Ciancimino incontra, nel corso della stessa giornata, Provenzano e il signor Franco: col primo parla del contropapello; col secondo del papello e s’inalbera per il contenuto. Sappiamo anche che, stando all’interpretazione dibattimentale del testo del pizzino, ai «primi di luglio» Provenzano e don Vito erano in attesa della «risposta» dei carabinieri e del signor Franco. Non è chiaro come mai, se all’inizio del mese aspettavano la risposta dell’uomo dei Servizi, il 12 luglio li troviamo a Mondello ancora col papello in mano. Anche perché – altra cosa che sappiamo – Provenzano aveva cortesemente pregato don Vito di fare un piccolo sforzo e di elaborare un «contropapello» che «non si distaccava molto dalle richieste di Riina, ma le rendeva accettabili». Dunque, alla data del 12 luglio abbiamo don Vito che parla ancora di papello col signor Franco e di contropapello con Provenzano; non sappiamo se è arrivata la risposta dei carabinieri e dei loro politici di riferimento. Intanto Riina aspetta una qualche risposta, mentre «il grande architetto» continua a esercitare pressioni su di lui, «riempiendogli la testa di minchiate» per fargli continuare la strategia stragista.
Per inciso: che il papello sia stato consegnato ai carabinieri lo sappiamo anche dal fatto che agli atti del processo, fra i documenti depositati, provenienti dall’archivio dell’ex sindaco e consegnati dal figlio ai magistrati di Palermo, c’è una fotocopia delle 12 richieste di Riina in cui c’è scritto – dalla mano di don Vito, ha giurato Massimo – che è stato «consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori del Ros». La scritta è stata vergata su un post-it e incollato al papello, ma siccome agli atti del dibattimento c’è una fotocopia bisogna specificarlo.
Domande.
Se Vito Ciancimino considerava le 12 richieste contenute nel papello «irricevibili e impresentabili» e si è dato così tanto da fare per convincere Provenzano e il signor Franco a dargli il tempo di elaborare un «contropapello», perché ha consegnato a Mori il foglio ricevuto da Riina tramite Cinà?
Lo ha forse fatto all’insaputa di Provenzano e del signor Franco?
Se a Mori è stato consegnato il papello con le proposte «irricevibili e impresentabili», a cosa serviva il «contropapello» di don Vito che «non si distaccava molto dalle richieste di Riina, ma le rendeva accettabili»?
Non sarebbe stato più sensato attendere la definizione delle richieste da includere nel «contropapello» e consegnare quest’ultimo ai carabinieri?
È mai possibile che né Ciancimino, né il signor Franco, né Provenzano abbiano pensato a tale eventualità?
E se qualcuno di loro ci ha pensato, lo ha esternato agli altri?
E se lo ha fatto, come mai la proposta è stata bocciata?
In chiusura, diamo una sbirciata alle presunte proposte «accettabili» (anch’esse agli atti del processo): fra l’altro, don Vito aveva sostituito l’assurda pretesa di revocare il 41 bis (il carcere duro per i mafiosi) con la più sensata richiesta di abolire il 416 bis (il reato di associazione mafiosa); mentre al posto dell’improponibile soppressione della tassa sui carburanti, in modo che i siciliani potessero spendere quanto quelli della Val d’Aosta, era stato introdotta la più ragionevole pretesa di abolizione del monopolio di Stato sui tabacchi, per le felicità di tutte le organizzazioni criminali – Cosa Nostra inclusa – che da circa mezzo secolo prosperavano sul traffico illegale di tabacchi possibile grazie all’esistenza del monopolio.
Ignoro cosa pensassero il signor Franco e il ragionier Lo Verde (alias Provenzano) di cotanto geniale «contropapello», ma non dispero che prima o poi possa saltare fuori qualche pizzino a colmare la mia lacuna.
estratto dal blog "Il vizio della memoria":
http://ilviziodellamemoria.splinder.com/post/22453125/Perch%C3%A9+considero+inattendibil
Perche' assomiglia a Bugs Bunny?Maury
E' da tempo che non seguo il Segugio, come vanno le cose… i vari scoop hanno inciso nelle tormentate vicende…. intervista Borsellino…. processo dell'Utri… processo Mori? Hanno avuto il meritato successo? Sono state prese in considerazione dalla difesa di Mori e Dell'Utri? Certo se non l'hanno fatto sono dei veri tonti… ma come si può..come si può…. una difesa geniale servita su un piatto d'argento? Insomma come stanno le cose, ragguagliatemi!Una lettura di Segugio al mese e non al giorno leva il medico di torno!Ciao, Enrix, hai finito di scoopare?
Oltre a un'intervista di Facci a Ciuro oggi in prima pagina su Libero, segnalo un servizio del Giornale nelle pagine interne sull'articolo di Paradisi di Liberoreporter dello scorso bimestre.Cordialita'Luigi
Egr. Enrix,mi perdoni il mezzo OT, ma volevo segnalarti il passaparola di oggi, a mio modesto parere è imperdibile.Ormai ha troppo da fare (promozione=vendere) e prende per oro colato le mirabolanti inchieste di Bolzoni, sì quello delle 3 cassaforti SalutiRenzo C
non postate più news??
complimenti!!!! non ti fermare. so che hai ragione perche'vivo il contesto in"prossimita'" . avrai successo perche' ti muovi con logica ed onesta'.ad maiora!!! Drago
Grazie, Drago.
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Le foto imbarazzanti con lo 007 Bruno Contrada e con agenti dei servizi segreti americani sono niente a confronto delle panzane confezionate intorno all’attentato che la mafia stava preparando per lui e per Paolo Borsellino. Perché delle due l’una: o Antonio Di Pietro non ha detto la verità durante la puntata di Annozero dell’8 ottobre 2009 oppure ha omesso di riferirla ai giudici del processo Borsellino Ter che gli hanno chiesto ripetutamente conto dei suoi rapporti col giudice ucciso in via D’Amelio. Le due versioni, infatti, non solo fanno a cazzotti ma alimentano ulteriori interrogativi rispetto a quelli già sollevati, a più riprese, dal Giornale. Del tipo: perché Tonino se ne esce in diretta tv con la storia che «prima» della strage del 19 luglio 1992 un’informativa del Ros riferiva di un progetto di attentato nei confronti suoi e di Borsellino, e che solo lui «prima» venne avvertito e allontanato in tempo dall’Italia mentre Borsellino fu lasciato a Palermo dove andò rapidamente incontro alla morte? Perché ha aspettato 17 anni per dirlo? Perché non pensò lui ad avvertire il magistrato palermitano, posto che a quel tempo i rapporti fra i due, per ammissione dello stesso Tonino, erano frequenti? E perché agli inquirenti e ai giudici dei tanti processi sulle stragi l’ex pm di Mani pulite non ha mai sentito il bisogno di approfondire i motivi che spinsero lo Stato a spedirlo di corsa in Costarica con un passaporto falso mentre a Borsellino l’sos lo spedirono per posta recapitandoglielo quand’era passato ad altra vita?
LA RIVELAZIONE IN TV
Solo oggi, recuperando l’interrogatorio (inedito) reso da Antonio Di Pietro il 21 aprile 1999 a Caltanissetta, la grande bugia vede la luce. Partiamo però dalla fine, da quel che Tonino ha rivelato a Michele Santoro. Dice Di Pietro: «Una cosa che nessuno sa. Io ricevetti, a suo tempo, una nota del Ros in cui si diceva che il terzo ero io. Io fui mandato fuori dall’Italia con un nome diverso da quello mio e con un passaporto di copertura perché mi volevano far fuori. Vi dico anche come mi chiamavo (ride). Nessuno vuole sapere come mi chiamavo?». E pochi secondi dopo: «C’era una (nota, ndr) riservata del Ros che arrivò a me due giorni prima (…). Ricordo che la riservata del Ros diceva che Borsellino e Di Pietro devono essere fatti fuori, io vengo avvertito tant’è che successivamente a me viene dato un passaporto di copertura, ora lo rivelo, a nome Marco Canale e io e mia moglie ce ne andiamo in Costarica (…)». Il botto finale è dietro l’angolo: «Borsellino doveva sapere prima quel che stava succedendo perché c’era un’informativa del Ros che aveva avvertito quello che stava per succedere a me e a lui. Io sono stato avvertito in tempo lui evidentemente no, oppure non sono andati a vedere sotto casa della madre» in via D’Amelio.
Questo il Di Pietro del 2009 che aveva saputo dell’allarme attentato «prima» della bomba al giudice. Questo che segue, invece, è il botta e risposta del 21 aprile 1999, durante l’udienza del processo Borsellino Ter a Caltanissetta, fra l’avvocato Sorrentino e Di Pietro che seppe dell’allarme attentato «dopo» la bomba in via d’Amelio.
SMENTITA SOTTO GIURAMENTO
Avvocato: «Lei riceve o conosce un’informativa dei Ros concernente un presunto e poi purtroppo invece verificatosi, almeno in un caso, attentato nei confronti suoi e di Borsellino e riceve questa informativa, così lei ha detto, l’indomani della strage di via D’Amelio».
Di Pietro: «Io l’ho saputo credo il giorno dopo, sì».
Avv. «Ma datata precedentemente».
ADP: «Che era sicuramente arrivata prima. Sono io che l’ho saputo un paio di giorni dopo. Sicuramente l’informativa l’avevano fatta prima, insomma» (…).
Avv: «Ma vi poneste la domanda come mai Borsellino credo che la riceveva, o chi per lui, non so, Borsellino la riceve, è inviata a Palermo prima temporalmente e poi successivamente a lei, perché?».
ADP: «(…) Io personalmente ho conosciuto dell’esistenza di questa (informativa, ndr) un paio di giorni dopo, come adesso mi capita di leggere la (posta) ecco, però non so quando è arrivata. Io personalmente… ho letto quel fatto dopo che già era morto Borsellino. Ecco, io l’ho letto dopo che era morto Borsellino. Questo è il concetto di fondo. Mi ricordo che ero rimasto disturbato, perché, insomma, fa impressione vedere… leggere quello dopo… ».
Anche un altro avvocato, Mimma Tamburello, parte civile per gli agenti di scorta a Borsellino uccisi in via d’Amelio, insiste sul punto.
Avv: «Ma vi siete mai chiesti allora coma mai lei l’ha ricevuta un giorno dopo? Si è chiesto se l’aveva ricevuta il dottore Borsellino?».
ADP: «No, non è che mi sono chiesto, no. Ormai era già successo, a chi lo domandavo? Ripeto… ripeto… non vorrei… non so se l’ho ricevuta… io ho avuto modo di apprendere il giorno dopo, però magari stava in ufficio e non so, è arrivata in procura e non è arrivata a me. Io mi ricordo che ho avuto modo di leggerla il giorno dopo. No il giorno dopo, un giorno o due giorni dopo, insomma, adesso… subito dopo».
Avv: «E non sa se Borsellino l’avesse ricevuta».
ADP: «No, non lo so».
IL VIAGGIO IN COSTARICA
Obbligato, per legge, a dire la verità, in aula il «testimone» Antonio Di Pietro in oltre dieci occasioni ribadisce d’aver saputo dopo, e non prima dell’attentato in via d’Amelio, del progetto stragista di Cosa nostra. Di Pietro non fa alcun riferimento nemmeno al viaggio in Costarica, nulla sul passaporto falso. Nel 2010, come visto, rivela l’esatto contrario. Perché? E perché, sempre sotto giuramento, afferma (pagina 95 della trascrizione) che «nello stesso periodo in cui io dialogavo con Borsellino» sul tema degli appalti e delle infiltrazioni mafiose «Borsellino dialogava con Fabio Salamone», futuro pm di Brescia che poi indagherà proprio su Tonino, e fratello di quel Filippo Salamone, imprenditore considerato vicino alle cosche, condannato per 416 bis, di cui a Di Pietro riferì in tempi non sospetti il pentito geometra Giuseppe Li Pera. «A me lo ha riferito Elio Veltri – ha proseguito Tonino – che a sua volta glielo avrebbe riferito la moglie di Borsellino. Allorché cominciai ad occuparmi di comprendere cosa era successo, perché una serie di ragioni che mi stavano accadendo… cercai di capire che collegamenti potessero esserci… che ci azzeccava con Mani pulite, Filippo Salamone ma che per me, quando lo individuai, lo sottovalutai al punto che quando me ne parlò Li Pera lo lasciai così, di residuo… ».
L’ASSE BORSELLINO-SALAMONE
Incalzato dall’avvocato Sorrentino in riferimento alla rivelazione sui rapporti Borsellino-Salamone, Di Pietro balbetta. Aggiusta. Precisa: «Io ho detto… ho detto… che successivamente ho appreso, tra le tante cose, ritengo dall’onorevole Veltri, ma non ricordo, che pochi giorni prima della morte di Borsellino fu Fabio Salamone che si recò da Borsellino. Ma magari sono andati a prendere un caffè, quindi… sennò… poi passiamo alla fase delle (illazioni)… poi… non possiamo permettercelo». Veltri, contattato dal Giornale, smentisce tutto: «Mai detto niente del genere ad Antonio, mai. Una balla colossale. Mai avrei potuto frequentare la famiglia Borsellino, come ho invece fatto per anni, sapendo che Paolo aveva rapporti con Fabio Salamone, con il quale ho avuto scambi d’accuse violentissime ai tempi del caso Di Pietro a Brescia. Non capisco come Di Pietro possa aver detto una cosa del genere in udienza». Così com’è incomprensibile l’aver riferito, sempre in aula, di non aver mai avuto a che fare con Vito Ciancimino fra il ’92 e il ’93, posto che proprio nel ’93 – secondo quanto riferito dal capitano Giuseppe De Donno in risposta alle amnesie di Tonino nel mezzo delle polemiche sulla cosiddette «trattativa» – insieme interrogarono nel carcere di Rebibbia l’ex sindaco mafioso di Palermo.
I DUE POOL A CASA BORRELLI
L’interrogatorio di Di Pietro andrebbe pubblicato a puntate. Perché ricco di spunti interessanti, come la decisione di vedersi coi colleghi palermitani non in procura ma a cena, a casa di Borrelli, per concordare una strategia comune sul fronte delle inchieste sugli appalti. «Facemmo una cena a casa di Borrelli, credo nella primavera del ’93, partecipò il pool di Mani pulite e il costituendo pool di Palermo. C’erano Caselli, Scarpinato, Ingroia. Ci incontrammo lì per stare più tranquilli, per non far(ci) vedere al palazzo di giustizia. Adesso se ne può parlare perché è storia passata. Qual era lo scopo? Vedere come poter organizzare il lavoro insieme».
estratto da:
Però è vero che Borsellino e Salomone erano amici. A di Pietro può anche non averlo detto Veltri, ma la sostanza dei fatti, in questo caso, non cambia. ed è vero che Salomone era andato a trovarlo pochi giorni prima della strage: al processo l'hanno confermato lo stesso Salomone, la signora Agnese e Ingroia.avere anticipato la propria "deportazione", invece, è una gran furbata di Tonino finalizzata, secondo me, a scaldare i cuori di quei creduloni delle agende rosse, il cui consenso gli serviva (anche se ormai l'ha perso per altri motivi) per accreditarsi come simbolo antimafia.quanto a Ciancimino, non c'era certo bisogno di consenso per riprenderlo: la rete serve a questo
Se qualcuno ha 6 ore di tempo penso che si possa ascoltare la testimonianza sul sito di Radio Radicale:http://www.radioradicale.it/scheda/118598/119369-processo-ter-per-la-strage-di-via-damelio-omicidio-del-giudice-paolo-borsellinobart_simpson
"Ricordo che la riservata del Ros diceva che Borsellino e Di Pietro devono essere fatti fuori,"E' qui la menzogna. Ora, sul fatto che un politico menta in un'itervista per farsi bello non c'e' nessuna novita', io suppongo che sotto giuramento abbia detto la verita'.L'unica cosa che dico e': Tonino non far la morale agli altri se il primo bugiardo sei tu!cesare
Mi sono ascoltato la testimonianza di Di Pietro a Caltanissetta e posso confermare che i virgolettati dell'articolo di Chiocci corrispondono a quanto detto al processo.Poi mi sono ascoltato la registrazione della puntata di Annozero, e dopo una prima visione devo dire che Di Pietro non colloca mai il momento in cui riceve l'informativa del Ros.A dire che Di Pietro avrebbe ricevuto l'informativa due giorni prima della strage è Giuseppe Lo Bianco, ma Di Pietro risponde senza confermare o senza smentire, anche se dall'atteggiamento sembra condividere le parole di Lo Bianco e chiunque ascolti ha l'impressione che sia stato avvertito prima del 19 luglio.Qui c'è la registrazione, a partire dal minuto 4:30 c'è il pezzo interessante.Al minuto 1:50 c'è il discorso precedente a cui fa riferimento Lo Bianco.bart_simpson
Bart Simpson al minuto 2.55 del video da te postato mi pare che Di Pietro dica che "c'e' una riservata dei ROS che arriva a me DUE GIORNI PRIMA"non sara' precisa la collocazione temporale, perche' non dice prima di cosa, ma dice PRIMA…
E' vero, mi era sfuggito, ma l'avevo detto di averlo ascoltato una sola volta.Anche al minuto 7:00 dice "…io sono stato avvertito in tempo, lui evidentemente non è stato avvertito in tempo…"Con un po' di pazienza si potrebbero mettere insieme spezzoni del filmato, spezzoni dell'audio del processo, e fare un video da caricare su youtube.Altre cose interessanti in cui mi sono imbattuto, vado a memoria, volendo posso recuperare i link e i minuti dei video, li ho segnati a casa:Ciancimino dice che l'agente segreto si chiamava Franco, poi ha letto i giornali che lo chiamavano Franco-Carlo e allora… Santoro interrompe ed evita di approfondire.Santoro chiede a Ciancimino "voi siete sicuri di quello che state facendo?"Perchè si rivolge a Ciancimino dicendo "voi"?Giuseppe Lo Bianco ha scritto un libro in cui sostiene che ci sarebbe una informativa precedente e anche in quel caso Borsellino non sarebbe stato avvertito.Nell'audio del processo Di Pietro dice "il giorno dopo venni qua" riferendosi al giorno dopo l'attentato.Chiudo con una frase divertente: "nel momento in cui quagliava… come si dice in italiano?".bart_simpson
Ecco gli altri due spezzoni della puntata di cui avevo parlato, così ognuno può giudicare da solo, magari non c'è niente di strano.http://www.youtube.com/watch?v=l7RHIS9NjD8” rel=”nofollow”>http://www.youtube.com/watch?v=l7RHIS9NjD8Minuto 6:40Santoro: "c'era sempre un'altra figura che compariva costantemente in questa storia…"Ciancimino: "Era una figura costante nel tempo…"S: "Come si chiama?"C: "Guardi, dalla stampa è stato appellato Franco-Carlo, perchè io lo conoscevo come Franco ma avevo prec…"S: "Signor Franco? Chiamiamolo signor Franco. Servizi?"http://www.youtube.com/watch?v=bsHHujXCD44” rel=”nofollow”>http://www.youtube.com/watch?v=bsHHujXCD44Minuto 4:50S: Quindi, sul fatto che è cominciata prima la trattativa, che è entrata nel vivo prima e non dopo, cioè sul fatto che… voi potete presentare qualche qualche prova?C: I magistrati hanno hanno elementi per poter chiarire questo, ovviamente io…S: Senza dubbi?C: Senza dubbi non mi permetto, io ovviamente ho raccontato la mia verità e do supporto a quello che è il mio racconto di materiale anche cartaceo.
mi permetto di segnalarti un mio scritto su Ciancimino jrhttp://ilviziodellamemoria.splinder.com/post/22453125/Perch%C3%A9+considero+inattendibilprima o poi seguirà altro, ma non so quando.ciao,Sebastiano
Caro Sebastiano, bellissimo pezzo. Se non ti offendi, lo riprendo.
Non solo la fantomatica trattativa tra Stato e mafia, il figlio di don Vito dice la sua anche su Ustica, Gladio e caso Moro. Ecco il diario del nuovo vate d’Italia
Il titolo è prosopopeico: Nel nome del padre. Il sottotitolo non da meno: “Sono ventitrè gli interrogatori di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. E una valanga i pizzini che riscrivono la storia dei misteri d’Italia, da Gladio alle stragi del ’92, sino ai politici di oggi. Citati con nome e cognome. Eccoli”. Massimo Ciancimino detto Junior, il figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito, il testimone chiave al processo di Palermo contro il generale Mario Mori per la mancata cattura del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, oggi è diventato il vate dei misteri d’Italia. Non bastavano la riduzione della condanna per riciclaggio e la ribalta televisiva.
Nel nome del padre è già alla seconda edizione. La prima, tremila copie, è andata esaurita in una sola settimana. Il libro è pubblicato dall’editrice siciliana Novantacento, che edita anche un mensile di cronaca che ha tra i suoi collaboratori fissi il sostituto procuratore Antonio Ingroia, titolare dell’accusa al processo Mori. Il coordinatore editoriale della rivista Claudio Reale spiega a Tempi che la pubblicazione dei verbali di Ciancimino è stata possibile perché gli atti non sono stati segretati. Purtroppo per Junior, verrebbe da aggiungere. Più che una raccolta di verbali, è un divertissement da spiaggia, non fosse che le deposizioni di Junior infiammano da mesi la pletora di cronisti giustizieri e infangano il lavoro di due ufficiali che hanno combattuto la mafia rischiando la vita.
Secondo Massimo Ciancimino, infatti, il padre don Vito fu contattato nel 1992 da Mori e dall’allora capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno per intavolare una trattativa con Totò Riina e indurlo alla resa. Ma papà Ciancimino sarebbe stato protagonista anche di una seconda trattativa, con i carabinieri da una parte e Provenzano dall’altra, finalizzata alla cattura di Riina, in cambio dell’immunità a Provenzano. Le parole di Massimo smentiscono lo stesso don Vito, che ha sempre raccontato di aver tentato una collaborazione con Mori e De Donno per arrivare alla cattura di Riina, sì, ma di non esservi riuscito. Non vi fu, secondo don Vito, alcuna trattativa: si era tentato di far arrendere Riina, ma le richieste presentate da questi non vennero mai prese in considerazione da Mori che voleva la resa immediata o la cattura; inoltre successivi tentativi di don Vito di collaborare alla cattura di Riina si bloccarono col suo arresto. Poi arriva Massimo e riscrive la storia con i fuochi d’artificio. Il 6 giugno 2008, Massimo rivela ai pubblici ministeri Ingroia, Di Matteo e Gozzo il vero motivo per cui sarebbe finita la latitanza record (43 anni) di Bernardo Provenzano. Racconta che il boss, ricercato dalle polizie di mezzo mondo, visitava regolarmente don Vito, mentre questi era agli arresti domiciliari nella sua casa romana nei pressi di piazza di Spagna a Roma. I pm palermitani per poco non cadono dalle sedie: «Ah, lei lo ha visto… lei disse a suo padre “ma come questo super latitante viene a casa di uno agli arresti domiciliari”?». Risponde Massimo: «Secondo mio padre doveva essere un accordo a monte che garantiva il tutto, perché mio padre mi disse: “Non ti scordare che nel momento in cui vorrà, si consegnerà lui”». Junior si sente incoraggiato e prosegue: «Mio padre mi disse poi una frase che era importante: “Perché un uomo quando non riesce ad andare al bagno… non ha più senso niente”. Era quello che capitava a mio padre, perché non era autonomo. Mio padre, come Provenzano, aveva avuto problemi di prostata e avevano parlato di queste cose, che la vita quando non hai questo tipo di autonomia…». Dunque Binnu, la primula rossa di Cosa Nostra, non finì in galera per la bravura delle forze dell’ordine. No, fu solo questione di pipì.
La scena madre di Junior, invece, ha al centro il fantomatico papello. Ai pm Massimo lo indica come la prova regina della trattativa Stato-mafia, ma per mesi rinvia la consegna, sostenendo che si trova in un caveau all’estero. Stremati dal tira e molla durato più di un anno, il 23 gennaio 2009 i pm Di Matteo e Ingroia, alla presenza del procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, mettono Junior alle strette. Ingroia: «Noi riteniamo che lei oggi debba indicarci quanto meno il paese, la banca, dove si trova questa cassetta di sicurezza, noi attiveremo tutte le rogatorie…». Nell’austero ufficio della procura accade l’imprevedibile: “Ciancimino singhiozza” riporta il brogliaccio dell’interrogatorio. L’avvocato di Junior, stralunato, interviene: «Perché piangi?». Ingroia incalza: «Se c’è necessità di fare una selezione di documenti privati che non hanno rilievo investigativo, avrà la possibilità di non consegnare queste cose però noi la preghiamo, la invitiamo caldamente, oggi di concludere l’interrogatorio dandoci queste indicazioni…». L’avvocato di Ciancimino: «Scusa ma perché piangi?». E Junior, tra le lacrime: «No, non ve lo indico». Ingroia: «Non ce lo indica…». Junior riprende: «Vi avevo chiesto un minimo di segnali da dire: ne vale la pena…». Passerano altri nove mesi prima che in procura vedano il famoso papello. Veniamo infine alla benedetta trattativa, cuore pulsante delle dichiarazioni di Junior. Massimo ne parla fin dal 7 aprile 2008. Però le versioni che riporta, con il tempo, si arricchiscono di nuovi particolari. All’inizio si limita ad anticipare le date degli incontri tra il padre e i carabinieri al giugno del 1992. Assicura che don Vito si fida di loro. Sostiene che il padre tenta di collaborare con i carabinieri per fare catturare Riina e contatta Provenzano per scoprire dove si nasconda. «Sembra fantapolitica» dice Junior ai pm il 7 aprile 2008. Parole sante. Nelle puntate successive degli interrogatori la vicenda si complica.
«Un nome l’aveva, mi creda»
Nel racconto appare anche un misterioso agente dei servizi segreti, che per anni sarebbe stato in contatto con don Vito e che nella trattativa avrebbe detto al sindaco che dietro i carabinieri c’erano due politici, gli allora ministri Nicola Mancino e Virginio Rognoni: «Non lo so se si chiamava Carlo, Franco… un nome l’aveva, mi creda» dice Junior. Davanti al racconto i dubbi non mancano. Ad esempio: dal negoziato Provenzano avrebbe guadagnato l’incolumità, ma cosa ci guadagnava don Vito? Arrestato, rimasto in carcere fino al 1999 e ai domiciliari fino alla morte, Ciancimino senior ha sempre sostenuto la versione di Mori. «Era una versione di comodo» dice Junior, e cerca di tappare le falle della ricostruzione con suggestioni di peso: «Mio padre pensava di essere stato scavalcato nella trattativa. Da Dell’Utri». Insomma. Alla fine nella ricostruzione di Massimo ci sono almeno tre trattative. Una tra i carabinieri, don Vito e Riina. Un’altra tra i carabinieri, il signor Franco, Rognoni e Mancino, don Vito e Provenzano. Un’ultima tra Dell’Utri e Provenzano e non si sa più chi altro. Dopo tutto questo, la domanda sorge spontanea anche nei pm. Chiede Ingroia il 12 dicembre 2008: «Ma allora, se c’era bisogno delle garanzie del signor Franco, che bisogno c’era di fare la trattativa tramite Mori e De Donno, perché suo padre non la faceva direttamente col signor Franco?». Junior ci pensa su: «Perché il signor Franco non l’aveva mai proposto a mio padre… non si è mai fatto portatore dell’arresto di Provenzano e Riina… Lui per mio padre era un trait d’union…». Ma con chi e perché ancora non si è capito. Arrivederci alla prossima puntata di questa tragicommedia.
Estratto dalla rivista "Tempi" - LINK
Mi perdoni se continuo a riportarle articoli di cui e' a conoscenza, ma questa e' troppo bella:
http://www.voglioscendere.ilcannocchiale.it/2010/02/27/ciancimino_ma_quali_ciance.html
Luigi
Sembra che Ciancimino abbia riconosciuto due 007.
Qui invece il testo delle dichiarazioni di ieri del generale Mori.
http://www.ilvelino.it/archivio/documenti/allegato_documento_748.pdf
la "firma"
bart_simpson
caro Luigi,
in risposta all'articolo che hai citato e che mi ha fatto ridere come a te, ti rimando al commento #28 sul post
Quando Fracchia cita Fantozzi.
qui da Enrix
cesare
Ho letto solo ora, cesare.
E poi uno dovrebbe avere fiducia nella magistratura….
Grazie e ciao!
Luigi
E intanto il calvario di Mori, continua, per colpa di Ciancimino:
http://www.ilvelino.it/articolo.php?Id=1074130#news_id_1074130
Luigi
anche i giudici si sono resi conti delle incongrueze di Ciancimino
http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/sicilia/2010/03/05/visualizza_new.html_1730250887.html
MASSIMO CIANCIMINO SI CONFERMA INATTENDIBILE
Continua l'utilizzo di Massimo Ciancimino dei media per raccontare degli intrecci mafiosi di Dell'Utri e naturalmente Berlusconi che seppur mai nominato nelle testimonianze di ieri nel processo Calvi aleggia sempre nell'aria.
Ieri tutti i media hanno messo in evidenza le dichiarazioni di Ciancimino che raccontava dei tanti fatti da lui conosciuti anche per aver presenziato personalmente, in alcuni casi la testimonianza è quasi comica con lo stesso che dichiarava di ricordare nonostante era piccolissimo. Ecco alcuni commenti:
http://archivio-radiocor.ilsole24ore.com/articolo-790215/processo-calvi-ciancimino-mostra/
http://www.unita.it/notizie_flash/92701/mafia_ciancimino_jr_rapporto_tra_calvi_buscemi_e_dellutri
Andando un po più a fondo sulle testimonianze di ieri ancora una volta si comprende come il personaggio SIA POCO CREDIBILE. Riporto dall'articolo di Marco Lillo (il Fatto Quotidiano) di oggi:
"Alla fine della sua testimonianza, Cianciminio ha infilato un errore marchiano. Ha raccontato che il padre Vito Ciancimino gli disse (intorno al 2000) di avere avuto un altro rapporto con Roberto Calvi in relazione alla tangente Enimont. In particolare – secondo Massimo Ciancimino – don Vito avrebbe preso i soldi da Calvi per poi distribuirli ai politici siciliani della sua area. Il problema è che questo racconto è mal riportato o FALSO. Perchè Calvi e morto nel 1982 e l'operazione Enimont risale ad almeno sette anni dopo. Mentre lo scandalo Eni-Petromin, che certamente è collegabile alla P2 e al mondo siciliano che gravitava intorno a Ciancimino, è del 1980. Chissà se il rampollo di don Vito ha fatto confusione. Preciso quando riferisce fatti che ha vissuto in prima persona o indicati da precisi appunti del padre, Ciancimino Junior diventa meno attendibile quando parla de relato di fatti lontani nel tempo."
Dopo il giornalista riporta un altra evidente topica presa dallo Junior su Ustica. E' simpatico vedere come Lillo cerca di salvare il salvabile, se facesse passare che lo junior è completamente inattendibile SI SMONTEREBBE TUTTO L'IMPIANTO ACCUSATORIO CHE TRAVAGLIO STA PORTANDO AVANTI DA TEMPO, ed allora riporta che quando Cianci Junior testimonia su fatti vissuti in prima persona E' PRECISO!
Barzelletta molto carina, è così preciso sui fatti vissuti in prima persona che quando testimonia sulla perquisizione nelle sue dimore con lui in Spagna cambia versione non so quante volte:
http://segugio.splinder.com/post/22252067#comment
Gianluca
ciao
Note ed appunti sui verbali di Massimo Ciancimino
Par. 1
A pag. 95 del primo verbale, in data 7 aprile 2008, Massimo Ciancimino racconta di come suo padre, avute delle “piantine“, delle mappe, dal Capitano de Donno, le restituì dopo circa una settimana con le annotazioni relative alla presunta ubicazione del covo di Riina.
CIANCIMINO: Questo me lo raccontò in carcere dopo… alla fine, dice: non è difficile catturare RIINA, dopo che gli dico la pianta di dov’è, gli segno la zona…
INGROIA: E allora suo padre come lo sapeva?
CIANCIMINO: Mio padre me le diede… io… DE DONNO le diede a mio padre le piantine, io le diedi… DE DONNO le diede a me, io le diedi a mio padre e mio padre le diede a me e io le diedi a DE DONNO.
Quindi Vito Ciancimino affidò nelle fidate mani del figlio “spaccone” (vedi pag. 103 del verbale) le mappe con le annotazioni per individuare il covo di Salvatore Riina (niente niente), perché le passasse a De Donno.
INGROIA: E c’erano annotazioni?
CIANCIMINO: Sì, annotazioni, sì.
INGROIA: Quindi allora…
A questo punto Ciancimino gioca d’anticipo sulla domanda che Ingroia sta per riformulare per la seconda volta, fornendo sin da subito una netta risposta: egli invita Ingroia a non domandargli come suo padre potesse essere a conoscenza dell’ubicazione del covo, poiché afferma di non saperlo.
CIANCIMINO: Non mi chieda se… come lo sapeva mio padre non lo so.
Quindi Massimo Ciancimino, non lo sa, come suo padre aveva potuto indicare la localizzazione del covo sulle piantine. Pertanto chiede di non domandarglielo.
Ma il magistrato incalza, e qualche secondo dopo domanda:
INGROIA: … io le domando se quello che suo padre indicò era frutto di conoscenza di suo padre o era frutto di un’acquisizione di informazione che suo padre fece…
CIANCIMINO: Di acquisizione di informazioni.
Quindi lo junior invece lo sapeva, come suo padre aveva potuto indicare la localizzazione del covo sulle piantine: da informazioni acquisite. E non solo, spiega anche come fa a saperlo.
INGROIA: …con altri?
CIANCIMINO: Di acquisizione di informazioni perché mio padre si è preso 24 ore di tempo.
A questo punto, una volta spiegato e motivato di come suo padre aveva acquisito l’informazione da altri, cosa che dapprima Junior pensava di non sapere, non resta che da chiarire da chi l’aveva acquisita, e perciò si da il via al ragionamento.
INGROIA: Se lei sforzandosi riesce a individuare chi può avere incontrato suo padre…
CIANCIMINO: No.
INGROIA: …e potere avergli chiesto informazioni.
E a questo punto, spunta il nome di Provenzano. Non ancora una certezza, ma solo un nome che lui “pensa dentro di sé”:
CIANCIMINO: No, io dico che la seconda, la seconda fase proprio è stata fatta… cioè non ha voluto escludere, è stata fatta… per questo io dentro di me penso che sia stata fatta col, col diciamo col PROVENZANO, perché è stata fatta molto diretta, siccome so, mi ha sempre raccontato e come ho visto, neanche questo soggetto era uno che c’era… cioè era molto diretto l’incontro, telefono, arrivo, non arrivo… come ho detto a PANORAMA, questo telefonava: sto venendo… cioè se telefonava questo mio padre doveva essere svegliato…
Allora i magistrati insistono perché ricordi meglio:
DI MATTEO: …lei a PANORAMA, credo di non sbagliare nel ricordo…
CIANCIMINO: Prego.
DI MATTEO: …anche se non ce l’ho qua l’articolo, mi pare che affermò pure, comunque le faccio la domanda, che comunque in quel periodo del ’92 suo padre ebbe modo di incontrare il PROVENZANO, o no? Cioè le ora sta dicendo: i contatti sono stati molto diretti…
CIANCIMINO: Sì, guardi…
DI MATTEO: Io, io chiedo, ma nel ‘92…
CIANCIMINO: Sì, sì…
DI MATTEO: …o nel periodo…
CIANCIMINO: …non so…
DI MATTEO: …precedentemente alle stragi, successivamente, a cavallo…
CIANCIMINO: Sa cos’è dottore, che non… mi veniva più facile ricordare una faccia nuova come quel soggetto, una faccia nuova come il CINA’ che non uno che mi vedevo dai tempi di quando avevo 7 anni a casa, (Provenzano – ndr) cioè…
DI MATTEO: Sì, però signor CIANCIMINO…
CIANCIMINO: Sì, capisco benissimo…
DI MATTEO: …poi ovviamente quello è un periodo che anche nella sua memoria sarà rimasto più focalizzato rispetto a quando…
Ed ecco quindi che lo junior, stimolato, comincia a focalizzare.
CIANCIMINO: Mi sembra che l’ha incontrato…
DI MATTEO: E questo come…
CIANCIMINO: …o che abbia detto che aveva intenzione di vederlo, cioè mi sembra di aver capito questo però sa, non riesco a… (inc.) glielo potrei man mano…
Quindi ci siamo quasi. Partiti da una cosa da non chiedergli perché a lui ignota, si è dunque arrivati ad un probabile (…mi sembra…) incontro con Provenzano, od alla probabile intenzione di incontrarlo.
Ma per il magistrato tanto basta per dar le cose come cotte e mangiate, perché alla domanda successiva procede dando per scontati gli incontri fra Vito Ciancimino e Provenzano:
DI MATTEO: E anche… fino a quando, fino a quando sono… hanno avuto luogo questi incontri di suo padre con PROVENZANO?
E a questo punto, quale interrogato si sentirebbe di contraddire quel PM?
Abbiamo quindi assistito, in diretta, a come Provenzano sta diventando un possibile suggeritore dell’ubicazione del covo di Riina nella lucida deposizione di Massimo Ciancimino, uno dai ricordi e dalle idee chiare. Alla prossima puntata. (1 – continua)
Siamo in buone mani……
Maury
Se non ci fossero i verbali scritti pubblici, non crederei ad una riga … PURA FOLLIA.
In seguito alle rivelazioni di Massimo Ciancimino sulla presunta consegna di Riina alle forze dell’ordine da parte di Provenzano, ho trovato questo virgolettato, tratto da Repubblica del 5 novembre 2009, attribuito a De Caprio.
…
In serata arriva la dura risposta del colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, il famoso "Capitano Ultimo" che, nel 1993 condusse le indagini che portarono alla cattura di Riina:
"Ciancimino è uno dei tanti servi di Riina. Infatti è chiaramente falso che il boss sia stato arrestato in seguito alle dichiarazioni di Bernardo Provenzano. Ma la cosa più grave – aggiunge ‘Ultimo’ – è che ci sia qualcuno all’interno delle istituzioni che legittima questo servo di Riina. Questo significa evidentemente che i servi di Riina sono anche all’interno delle Istituzioni e certamente non sono il generale Mori e il capitano De Donno: forse sono gli stessi che hanno isolato e delegittimato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino".
Anton Egger
Posso sapere dove hai preso i verbali? Grazie…
trovati grazie, comunque nell’archivio che hai sul tuo sito questo file non c’e', l’ho recuperato da censurati.it
Sempre su Censurati.it c’è riportata la replica di Ultimo alle dichiarzioni di novembre 2009 di Ciancimino Junior ad Annozero, Ultimo oltre a ripetere per l’ennesima volta le tante cose specificate nella SENTENZA, CHE ASSOLVE DEFINITIVAMENTE (la procura non ha fatto nessun ricorso in appello) LUI E MORI PERCHE’ IL FATTO NON COSTITUISCE REATO, racconta alcune info che reputo interessantissime e che fanno capire meglio a tutti i fatti riguardo la mancata perquisizione del covo (ancora da trovare, visto che sapevano che stava in quella zona tra le villette di quel complesso).
http://www.censurati.it/?q=node/3910
Gianluca
Forse per i PM queste deposizioni sono ormai un inutile perdita di tempo. Ci sono le interviste ai giornali (Panorama, in questo caso)..quindi, perchè chiedergli le stesse cose?! Ormai i processi li fa la stampa.
Lo sa bene Marco Travaglino, il più famoso GhostWriter delle Procure.
© 2009 – FOGLIO QUOTIDIANO
La vera storia di un grande carabiniere sotto processo, Mario Mori
di Claudio Cerasa
Se Leonardo Sciascia avesse conosciuto il generale Mario Mori prima di scrivere “Il giorno della civetta” il suo capitan Bellodi non sarebbe stato un giovane poliziotto con gli occhi chiari, i capelli scuri, il viso tirato e l’accento emiliano, ma sarebbe stato piuttosto un piccolo brigadiere triestino con i capelli bianchi, i baffi corti, la voce bassa, gli occhi azzurri, un curriculum da sballo, il vaffanculo facile facile e sei numeri che hanno cambiato la sua vita: 2789/90. Quelle del generale Mori e del capitan Bellodi sono due storie che viaggiano su binari paralleli: un uomo sceso dal nord per andare in Sicilia disposto a rompersi la testa per combattere la mafia, e che dopo essere riuscito ad arrestare il più temuto dei capi-cosca improvvisamente si ritrova contro ora i politici, ora gli avvocati, ora i magistrati, ora i giudici, ora le procure e ora naturalmente i giornali. E i giornali ne riparleranno presto del generale, e c’è da scommettere che non ne parleranno bene. Il 16 giugno del 2008 la procura di Palermo ha aperto un’indagine contro Mori per “favoreggiamento aggravato” a Cosa Nostra, e gran parte delle prossime settimane il generale le dedicherà a quel processo. Sarà in aula alla fine di gennaio, quando i giudici dovranno valutare se rinviarlo a giudizio oppure no.
Di che cosa è accusato il capitan Bellodi? La procura di Palermo ha indagato Mori come responsabile della mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, ma il processo per favoreggiamento nasconde una storia molto particolare. A Mori è successa la stessa cosa capitata all’eroe di Sciascia: si è ritrovato di fronte a qualcuno che vuole riscrivere la storia di un periodo cruciale per l’Italia e che vuole offrire a uno dei protagonisti di quei giorni la parte dell’antagonista brutto, sporco, cattivo e, perché no?, pure compromesso. Il processo a Mori è un modo come un altro per tentare di dimostrare che una parte della stagione delle stragi, nel 1992, in particolare quella che coinvolse il giudice Paolo Borsellino, fu causata dallo stesso generale che “voleva a tutti i costi trattare con la mafia”. Ma molti non conoscono un particolare. In quegli anni Mori iniziò a raccogliere i suoi giorni in 29 agende a righe con la copertina rigida: dagli anni 80 a oggi non c’è appuntamento che Mori non abbia segnato su questi fogli, e dalla lettura di quelle pagine, tenute segrete per molto tempo, emergono delle verità molto interessanti.
Roma, due dicembre 2009. Mario Mori siede dietro la scrivania al terzo piano di un ufficio che si affaccia a strapiombo su Piazza Venezia: ha lo sguardo vispo, gli occhi un po’ scavati, i capelli tagliati corti, le mani distese poggiate sulle cosce e un libricino aperto a pagina 37 con una “x” segnata a matita accanto a un aforisma di uno degli scrittori più amati dal generale, Giacomo Leopardi. Il dettato piace molto a Mori: “La schiettezza allora può giovare, quando è usata ad arte, o quando, per la sua rarità, non l’è data fede”.
Il generale accetta di riceverci nel suo piccolo studio privato e inizia a raccontare come è cambiata la sua vita. Sono tante le ragioni per cui la carriera di Mori risulta affascinante ma vi è un aspetto che rende la sua storia molto significativa. Ed è la prima cosa che ti colpisce quando ti ritrovi di fronte a lui: ma come è possibile che un super sbirro, un grande carabiniere che ha acciuffato i capi di Cosa Nostra, che ha messo in galera tipacci come Toto Riina e che ha contribuito a smantellare numerose cupole mafiose sia, e sia stato, processato con le stesse accuse degli stessi criminali che per anni ha perseguito e arrestato? Vuoi vedere che forse c’è qualcosa, qualcosa della sua vita, qualcosa dei suoi anni a Palermo, qualcosa della sua esperienza al Sisde, che sfugge ai grandi accusatori di Mario Mori? Mori si è chiesto più volte le ragioni per cui la magistratura siciliana gli si è accanita contro, il perché di quelle pesantissime inchieste costruite con le parole di pentiti non proprio affidabili, i motivi per cui, dovendo scegliere se credere alle sue parole o a quelle di un pentito, i pm tendano a dare retta al secondo anziché al primo. E quando glielo chiedi il generale Mori che fa? Alza un po’ lo sguardo, gioca con i polsini della camicia, si dà un colpetto all’indietro sulla poltrona, allarga le braccia e poi sussurra: “Non so. Davvero. Proprio non so”.
A Roma il generale c’è tornato da qualche mese: alla fine del 2008 il sindaco Gianni Alemanno gli ha offerto la direzione delle Politiche della sicurezza della Capitale e Mori ha accettato di tornare in quella città dove ha studiato per cinque anni al liceo classico (era al Virgilio nella sezione C negli stessi anni in cui Adriano Sofri era nella sezione D), dove ha seguito le lezioni dell’accademia delle Armi, dove ha lavorato con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e da dove ha iniziato a costruire la sua carriera, diventando nel corso degli anni prima comandante del gruppo carabinieri di Palermo (dal 1986 al 1990), poi comandante dei Ros (dal ’96 al 2000) e infine numero uno del Sisde (fino al 2006). Sono proprio questi – gli anni del Sisde, gli anni dei servizi segreti, gli anni in cui condusse le indagini sulla morte di Massimo D’Antona, sull’omicidio di Marco Biagi, sulle conseguenze italiane dell’undici settembre – i tempi in cui Mori rimase affascinato da alcune sottili ma importanti differenze tra il combattere la mafia e combattere il terrorismo. Mori era sorpreso dalla capacità di fare gruppo dei brigatisti, e da quel loro cerchio chiuso, quasi impenetrabile. Nei brigatisti – racconta Mori – vi era un livello culturale superiore alla media della criminalità e il loro era un legame ideologico non un legame familistico, di cosca o di sangue.
Era proprio per questo che Mori riteneva fosse più semplice combattere il terrorismo piuttosto che Cosa nostra. “La mafia è come un tumore che si autoriproduce: è un mondo che resiste da molto tempo non tanto per la sua forza ma perché è una forma di costume che è legata a certe forme di cultura. I poliziotti e i magistrati potevano e possono arrestare tutti i mafiosi del mondo ma l’unico modo per distruggere alle radici la mafia – come già scritto anche da Marcelle Padovani in Cose di Cosa Nostra – è il tempo, la trasformazione dei costumi, la rivoluzione della cultura”.
“Le Brigate rosse e tutte le forme di terrorismo italiane sono state invece una cosa diversa: una malattia circoscritta difficile sì da individuare ma per cui una cura esisteva: bastava solo trovarla”. Quando nella primavera del 2001 Claudio Scajola, ministro dell’Interno per un anno, chiamò Mario Mori per comunicargli che Silvio Berlusconi lo aveva appena nominato a capo dei servizi segreti, il generale pensava fosse uno scherzo. E lo credeva per due ragioni.
La prima è che il presidente del Consiglio che l’aveva appena scelto Mori non lo aveva mai visto prima, se non una sera alla fine di una cena a Monza. La seconda era invece una ragione caratteriale. Il generale sostiene che le tecniche strategiche di chi lavora nell’arma e di chi lavora nell’intelligence presentano pochi punti di contatto, e offrire dunque a uno sbirro la gestione dell’intelligence nazionale, in teoria, potrebbe nascondere alcune difficoltà non solo metodologiche. “Siete pazzi! – disse senza neanche scherzare troppo Mori a Scajola – io di intelligence non ne so nulla, al massimo, se volete, potrei guidare il Sismi”.
Racconta chi con Mori al Sisde ha lavorato a lungo che “il modo più semplice per spiegare i due diversi approcci alla criminalità che hanno forze dell’ordine e intelligence è che il poliziotto spera di catturare Osama bin Laden mentre l’uomo di intelligence, semplicemente, spera di acquisirlo come fonte. Sono due piani paralleli che non si vanno mai a incontrare. Perché l’immagine del James Bond che si arrampica sulle gru per sconfiggere le forze del male non esiste. Semmai, il rischio maggiore per un uomo di intelligence che passa le giornate a colazione, a pranzo e a cena per coltivare le fonti è quello di prendersi una cirrosi epatica”.
Mori ha sempre sostenuto che individuare un grosso criminale, pedinarlo, poterne seguire le tracce e circoscriverne il raggio d’azione nasconde un problema non da poco. Che si fa? Si arresta subito il bandito o lo si segue per un po’ usandolo come esca per intrappolare nella rete della giustizia tutto ciò che lo circonda? Mori non lo confesserà mai, ma tra la prima e la seconda opzione lui sotto sotto ha sempre preferito la seconda.
Chi ha vissuto a lungo a fianco di Mario Mori racconta che quando il generale arrivò al Sisde fu rivoluzionata l’intera impostazione del lavoro. Prima di Mori, i servizi segreti tendevano a lavorare con quella che in gergo è definita “pesca a strascico”: una gigantesca rete che intrappola tutti i pesci, grandi e piccoli, che nuotano nel raggio d’azione dell’intelligence. Quando Mori arrivò al Sisde spiegò che la pesca doveva diventare subacquea. Perché la tecnica a strascico – era questa l’idea del generale – funziona quando un servizio segreto dispone di centinaia di migliaia di uomini, ma quando il numero delle truppe è parecchio inferiore la raccolta di informazioni deve essere più precisa, più mirata. E così, non appena arrivato, Mori scrisse un libriccino di cento pagine di procedura investigativa, lo fece pubblicare e lo inviò ai dirigenti dei servizi. A poco a poco, i risultati iniziarono ad arrivare.
Negli anni passati al Sisde c’è un arresto particolare che il generale ricorda più degli altri. Il 13 luglio 1979 una scarica di pallettoni sparati da un’auto in corsa ferì a morte il comandante del Nucleo carabinieri del tribunale di Roma Antonio Varisco; e quel comandante Mori lo conosceva molto bene. Per anni e anni, i servizi segreti italiani hanno tentato di arrestare il killer, e il 15 gennaio del 2004 il Sisde diede istruzione a venti poliziotti egiziani di fermare due persone all’aeroporto del Cairo: i nomi erano quelli di Rita Algranati e Maurizio Falessi, ricercati, tra le altre cose, per l’omicidio di Varisco. Fu uno dei giorni più gratificanti della carriera del generale. Il perché lo spiega lui stesso: “Non dobbiamo essere sciocchi. Chi dice che la pretesa punitiva dello stato non esiste non capisce nulla. Quel giorno passò un messaggio molto importante. Fu un arresto chiave per disgregare la rete terroristica ma fu un anche un segnale chiaro: ci sono alcuni reati che più degli altri non possono essere impuniti. E uccidere un carabiniere è esattamente uno di quelli”.
Gli anni che però formarono davvero il generale Mori furono altri. Furono quelli che trascorse in Sicilia: prima nel nucleo provinciale dei carabinieri e poi nei Ros. Non appena arrivato a Palermo, il generale comprese subito quanto fosse importante riuscire a creare una sorta di sintonia linguistica tra sbirri e mafiosi. Mori ci riuscì, ma solo dopo aver preso una piccola batosta. La prima lezione per Mori arrivò da un piccolo appartamento sulla costa occidente della Sicilia: ad Altavilla. Dopo aver ricevuto la notizia della morte di un carabiniere, i suoi uomini andarono sul posto, entrarono con i guanti di paraffina dentro una vecchia casa colonica, perquisirono le stanze, fecero perizie, raccolsero più notizie possibili e interrogarono molti testimoni: la maggior parte dei quali diceva di non aver visto nulla. Alla fine della giornata, Mori si ritrovò a parlare con un vecchio abitante del paese che al termine del colloquio – a lui che era un triestino con mamma casalinga emiliana, padre ufficiale dei carabinieri a La Spezia, bisnonni inglesi e, come ama ripetere il generale, una formazione culturale sfacciatamente mitteleuropea – gli disse: “Piemontese, chi minchia voi da noi?”. Quelle parole Mori se le ricorderà a lungo e il significato profondo dell’essersi sentito dare del piemontese lo comprese poco più avanti quando fu nominato comandante del primo comando territoriale di Palermo.
Mori ricorda infatti che in quegli anni capitava spesso che la notte le pareti della caserma non trattenessero le parole degli sbirri che interrogavano i mafiosi, e ascoltando quei dialoghi, dagli accenti così marcatamente differenti, si rese improvvisamente conto che in quel nucleo operativo che lavorava nella Sicilia occidentale, beh, il più meridionale tra i suoi colleghi era un campano. Non parlare il linguaggio della Sicilia, e più in particolare non entrare a fondo nel lessico dei mafiosi, secondo il generale era il modo migliore per non capire come portare avanti un’indagine, e questo Mori se lo mise bene in testa: lavorò molto sulla sua pronuncia, iniziò a studiare il siciliano e alla fine ottenne buoni risultati, riuscendo a poco a poco a entrare sempre di più a contatto anche con la grammatica della mafia.
“In quegli anni – racconta un uomo che ha lavorato a lungo a fianco di Mori nei Ros – il generale diceva che far proprio il linguaggio dei mafiosi significava non solo avere le carte in regola per lavorare con maggiore efficienza ma anche avere la possibilità concreta di salvare con un certo successo il culo.
Le lezioni di Mori erano due. Lui, che aveva imparato a non fidarsi eccessivamente dei collaboratori di giustizia, diceva che per definizione il pentito mafioso va preso con le pinze perché un pentito resta sempre un mafioso, e alla fine – qualsiasi cosa ti dirà e qualsiasi verità racconterà – in un modo o in un altro tenterà sempre di compiere un atto utilitaristico per la sua famiglia. La seconda cosa che ripeteva era che il mafioso ti faceva ammazzare solo quando il, chiamiamolo così, rapporto tra sbirri e criminale diventava un rapporto personale: tra me e te. Per questo, Mori ci diceva che tu puoi umiliare un mafioso magari ammanettandolo davanti a una moglie ma non era il caso di farlo quando veniva acciuffato nel cuore della sua vera intimità: per esempio davanti alla sua amante”.
Il più grande successo ottenuto da Mori arrivò il 15 gennaio 1993 di fronte al numero 54 di via Bernini, a Palermo, quando il generale fece arrestare lui, il capo dei capi: Totò Riina. Paradossalmente, però, accadde che l’arresto del mafioso più ricercato al mondo coincise con la proiezione delle prime ombre attorno alla carriera del generale. Tutto cominciò poco dopo l’arresto. Per quindici giorni, l’abitazione del boss corleonese non fu perquisita e in molti sostennero che la mancata perlustrazione di quelle stanze fosse un modo come un altro per dare la possibilità ai mafiosi di ripulire l’abitazione e cancellare le proprie tracce. Mori – ricordando che le indagini vengono sempre coordinate dalla procura e che qualsiasi imput, prima ancora che dai capi dell’arma, deve arrivare da lì – sostiene che fu la procura a non dare l’ordine di perquisire, ma nonostante ciò nel 1997 la procura di Palermo aprì un’inchiesta sulla vicenda a carico di ignoti, “per sottrazione di documenti e favoreggiamento”.
L’indagine andò fino in fondo: nel 2002 i magistrati chiesero l’archiviazione ma il gip dispose nuove indagini. Due anni dopo stessa storia: i pm chiesero ancora una volta l’archiviazione ma questa volta lo fecero in un modo originale: poche paginette per chiedere di archiviare e cento pagine per picchiare duro sull’indagato. A firmare quella richiesta furono i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Michele Prestipino, che chiesero di chiudere il caso con queste concilianti parole: gli indagati, non perquisendo per diversi giorni il covo, “fornirono ai magistrati indicazioni non veritiere o comunque fuorvianti”. Inoltre, la sospensione dell’attività di osservazione del covo “determinerà un’obiettiva agevolazione di Cosa nostra”. Il nome di Mario Mori entra così nel registro degli indagati il 18 marzo 2004: pochi mesi più tardi – era il 18 febbraio 2005 – Mori e il suo braccio destro Sergio De Caprio (l’ufficiale dei carabinieri che ha lavorato a lungo a fianco del generale e che il 15 gennaio 1993 ammanettò Totò Riina) vengono rinviati a giudizio e un anno dopo il processo si conclude con un’assoluzione.
Tutto finito? Macché.
Dopo essere stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato per non aver perquisito l’abitazione – e non il covo, che è cosa diversa – in cui è stato arrestato Salvatore Riina, Mori si trova costretto a difendersi da altre accuse. E da una in particolare. Perché il generale non ci gira attorno, e quando ha saputo di essere indagato ancora una volta per favoreggiamento dice che è stato certamente quello il giorno più brutto della sua vita: perché è come se la procura lo avesse sostanzialmente accusato di essere stato la causa scatenante della strage di via D’Amelio.
Nel processo in cui Mori dovrà difendersi in aula il 29 e il 30 gennaio, il principale testimone dell’accusa è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio. L’eroe della procura di Palermo, nonché principale testimone del processo contro il generale Mori, è però un personaggio dal passato molto controverso. Controverso perché il grande accusatore di Mori è uno degli uomini che fu denunciato dallo stesso generale. La storia è nota ma può essere utile ricordarla. Il generale Mori contribuì all’arresto di Riccio e fu uno dei primi a denunciare i reati commessi dal colonnello a metà degli anni 90. All’origine dei guai di Riccio vi fu la famosa Operazione Pantera. In quell’occasione – erano gli anni 90 – fu sequestrata una partita di pesce congelato da 33 tonnellate. Nascosto tra il pesce vi erano 288 chili di cocaina proveniente dalla Colombia.
Tre mesi dopo il pesce fu venduto sottobanco dai carabinieri per 54 milioni. L’operazione Pantera costò a Riccio due reati. Non soltanto contrabbando aggravato ma anche detenzione e cessione di stupefacenti: perché nel corso dell’operazione, secondo l’accusa, il colonnello occultò cinque chili di cocaina sottratti alla distruzione del reperto da uno dei suoi uomini (si chiamava Giuseppe Del Vecchio).
Così, dopo essere stato condannato in primo grado a 9 anni e mezzo e poi, in secondo grado, a 4 anni e 10 mesi, nel 2001 Riccio chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano e la morte di Luigi Ilardo”. E’ una storia complicata quella di Riccio: l’ex colonnello sostiene che nel 1995 il suo confidente Ilardo (trovato morto pochi mesi dopo) offrì la possibilità di catturare Bernardo Provenzano; racconta che i suoi uomini avrebbero seguito Ilardo fino al bivio di Mezzojuso – un piccolo comune di 3.711 abitanti a 34 chilometri da Palermo – che si sarebbero appostati in attesa del via libera e che Mori disse di non voler agire. Mentre – dice Riccio – noi “eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire”. Le deposizioni di Riccio sono però contestate. Uno dei testimoni dell’accusa, l’ufficiale dei carabinieri Antonio Damiano che nel ’95 prestava servizio al Ros di Caltanissetta, lo scorso 10 novembre ha raccontato una versione diversa.
Damiano sostiene infatti di essere stato incaricato da Riccio di effettuare “un’osservazione con rilievi fotografici” al bivio di Mezzojuso ma il punto è che in quello che Riccio considera il mancato arresto di Provenzano non solo era già stato concordato preventivamente che l’operazione avrebbe avuto la finalità di studiare il territorio ma il grande accusatore di Mori, nonostante la relazione di servizio di quel giorno riportasse la sua presenza, in realtà – lo ammette Damiano – non era affatto presente: era rimasto in ufficio.
A ogni modo, le parole di Riccio hanno offerto alla procura la possibilità di fare due calcoli rapidi rapidi: la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 più la mancata cattura di Provenzano nel 1995 sarebbero “strettamente connesse” alla presunta trattativa tra apparati dello stato e Cosa nostra. E’ proprio questa la tesi di uno degli uomini che alla fine di gennaio verrà ascoltato come teste dell’accusa nell’aula bunker del carcere Ucciardone: Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. Tesi che in sostanza si potrebbe riassumere così: Borsellino sarebbe stato ucciso dopo che il giudice venne a conoscenza della trattativa portata avanti tra la mafia e lo stato condotta in prima persona da suo padre e dal generale Mori. Borsellino era contrario alla trattativa e per questo, per evitare problemi, la mafia lo fece saltare in aria.
La cronaca di quei mesi offre però una storia un po’ diversa e gran parte della verità di tutta la vicenda sembrerebbe proprio girare attorno a quel codice lì: 2789/90. Il codice fa riferimento a una delle inchieste più delicate che le forze dell’ordine portarono avanti durante gli anni 90 in Sicilia. Tutto nacque nel corso del 1989: in quegli anni Mori era già a capo del gruppo dei carabinieri di Palermo e sotto la direzione di Giovanni Falcone avviò l’inchiesta sul sistema di condizionamento degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra. Il primo plico contenente le informative sull’indagine fu consegnato il 20 febbraio del 1991 da Mori al procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. Ancora oggi Mori ricorda che “Giovanni sollecitò insistentemente il deposito dell’informativa rispetto ai tempi che ci eravamo prefissati per una ragione semplice: perché – diceva Falcone – non tutti vedevano di buon occhio l’indagine, e alcuni sicuramente la temevano”. In quei giorni, il giudice stava però per essere trasferito alla direzione degli affari penali del ministero della giustizia, e da Palermo dunque si stava spostando a Roma. Ma quell’inchiesta – ricorda il generale – lui voleva seguirla lo stesso e per questo Mori continuò a mantenere i contatti con Falcone. E fu proprio il giudice a riferire al generale che l’inchiesta “Mafia e appalti” non interessava più di tanto al nuovo procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco. Era davvero così?
Fatto sta che al termine dell’inchiesta “Mafia e appalti” i Ros di Mori avevano evidenziato 44 posizioni da prendere in esame per un provvedimento restrittivo ma il 7 luglio del 1991 la procura ottenne soltanto cinque provvedimenti di custodia cautelare. Mori si arrabbiò e chiamò subito Falcone. La reazione del giudice è riportata dai diari consegnati alla giornalista di Repubblica Liana Milella, e fu questa: “Sono state scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”.
Non solo. Pochi giorni dopo che Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno consegnarono il rapporto alla procura di Palermo vi fu una fuga di notizie. De Donno ne venne a conoscenza attraverso il suo informatore Angelo Siino (il così detto ex ministro dei Trasporti pubblici di Cosa nostra) che raccontò ai Ros di aver saputo dell’inchiesta da fonti vicine alla procura. “Mai come in quei mesi – racconta Mori – ebbi la sensazione di agire da solo e senza referenti certi a livello giudiziario”. Successivamente, ci furono altre due valutazioni che fecero infuriare il capitano dei Ros. La prima fu quando il Tribunale del riesame consegnò agli avvocati difensori degli indagati e degli arrestati non uno stralcio dell’informativa relativa ai singoli indagati, come da prassi, ma qualcosa di più: ovvero tutte le 890 pagine di testo. “In quel modo – ricorda Mori – furono svelati i dati investigativi fino a quel momento posseduti dall’inquirente e furono chiare le direzioni che le indagini stavano prendendo”.
La seconda fu quando la procura di Palermo – ravvisando la competenza sul caso di più procure – inviò i fascicoli in mezza Sicilia ottenendo il risultato di moltiplicare il numero di occhi che osservavano da vicino quell’inchiesta. Ecco: secondo Mori il filo che lega le stragi di quell’anno – l’anno in cui furono uccisi nel giro di poche settimane prima Falcone e poi Borsellino e poi ancora un comandante della sezione di Perugia che insieme con i Ros aveva iniziato a lavorare su “Mafia e appalti”: Giuliano Guazzelli – sarebbe legato all’attenzione che Mori e Borsellino credevano fosse opportuno dare a quell’inchiesta, a quel codice maledetto. Poco prima di essere ucciso, infine, Borsellino partecipò a un incontro molto importante. Era il 25 giugno 1992 e il magistrato convocò in gran segreto nella caserma di Palermo – dunque negli uffici dei Ros – Mario Mori e il capitano De Donno. Borsellino confessò ai due che riteneva fondamentale riprendere l’inchiesta “Mafia e appalti”. Perché – sosteneva Borsellino – quello “era uno strumento per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra e gli ambienti esterni con cui essa si relazionava”. Qualche anno più tardi, nel novembre 1997, nel corso di un’audizione alla Corte d’assise di Caltanissetta, a confermare che Paolo Borsellino credeva che studiando il filone “Mafia e appalti” si poteva giungere “all’individuazione dei moventi della strage di Capaci” fu uno dei pm che oggi indaga su Mori: il dottor Antonio Ingroia.
Le ragioni per cui l’incontro nella caserma dei carabinieri di Palermo fu mantenuto segreto vennero ammesse in quelle ore dallo stesso Borsellino. Ricorda Mori che Borsellino “non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell’incontro”. “E nel salutarci – prosegue Mori – il dottor Borsellino ci raccomandò la massima riservatezza sull’incontro e sui suoi contenuti, in particolare nei confronti dei colleghi della procura della Repubblica di Palermo”. Secondo il generale, in quei giorni Borsellino era molto preoccupato per una serie di fatti accaduti. Uno in particolare era legato a una data precisa. Il 13 giugno 1992 uno dei mafiosi arrestati dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta “Mafia e appalti” – il geometra Giuseppe Li Pera – si mise a disposizione degli inquirenti dicendo di essere disposto a svelare “gli illeciti meccanismi di manipolazione dei pubblici appalti”, ma i magistrati di Palermo risposero dicendo di non essere interessati. “Sì, è vero: i fatti di quei tempi – ricorda Mori – mi portarono a ritenere che anche una parte di quella magistratura temesse la prosecuzione dell’indagine che stavamo conducendo”.
Pochi giorni dopo l’attentato in cui rimase ucciso Paolo Borsellino, Mori iniziò a stabilire contatti con l’uomo che all’epoca impersonificava meglio di tutti la sintesi perfetta dei legami collusivi tra mafia, politica e imprenditoria: l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Tra il 5 agosto e il 18 ottobre 1992, Ciancimino e Mori si incontrarono quattro volte (prima di quella data con Ciancimino vi furono dei contatti preliminari del braccio destro di Mori, De Donno) e iniziarono così a costruire un rapporto confidenziale senza renderlo però noto alla procura di Palermo. Mori non comunicò subito i contatti che aveva stabilito con Ciancimino per tre ragioni. Primo perché – e lo dice la legge – i confidenti delle forze dell’ordine non devono essere necessariamente rivelati alla procura. In secondo luogo – e queste sono parole di Mori – fu fatto “per evitare premature e indesiderate attenzioni sulla persona e per tentare di acquisire elementi informativi sicuramente nella disponibilità del Ciancinimo e cercare di giungere a una piena e formale collaborazione”. Infine, è ovvio: se ci fosse stato Borsellino, dice Mori, “glielo avrei detto subito”. Ma quando Mori parlò con Ciancimino, Borsellino era già stato ammazzato.
Nonostante in molti sostengano che Mori avesse mantenuto a lungo segreti quei colloqui, in realtà gli incontri tra Mori e Ciancimino non sono una novità di oggi. Nell’autunno 1993 fu lo stesso Mori a raccontare all’allora presidente della Commissione antimafia Luciano Violante non soltanto dei suoi incontri con Ciancimino ma anche della volontà di quest’ultimo di essere ascoltato dalla commissione. Mori lo disse più volte a Violante e ogni volta che Violante se lo sentiva ripetere gli rispondeva più o meno allo stesso modo. Ponendo una condizione: “L’interessato – disse Violante il 20 ottobre 1992 nel corso di un incontro riservato con Mori – deve presentare un’istanza formale a riguardo”. Il 29 ottobre 1992, quindi, Violante convocò la commissione per spiegare qual era il suo programma di lavoro sulla materia che riguardava le inchieste sulla mafia e la politica. Nel verbale di quella seduta, tra le altre cose, si legge quanto segue: “E’ necessario sentire quei collaboratori che possono essere particolarmente utili”.
Violante fece un lungo elenco di “collaboratori”, e tra questi c’era anche Vito Ciancimino. Ecco però il giallo: giusto tre giorni prima che Violante riunisse la commissione, Ciancimino si decise a scrivere una lettera. Una lettera datata 26 ottobre 1992 indirizzata a Roma, alla sede della commissione antimafia di Palazzo San Macuto. In calce alla lettera – che negli archivi della commissione sarà registrata solo diversi anni dopo con il numero di protocollo 0356 – c’è la firma di Vito Ciancimino. Il quale sostiene di essersi messo a disposizione della commissione già dal 27 luglio 1990, e di aver ormai accettato le condizioni che aveva posto per l’audizione il predecessore di Violante (Gerardo Chiaromonte): audizione sì ma senza quella diretta televisiva che secondo Ciancimino era necessaria per essere “giudicato direttamente e non per interposta persona”. Scrive l’ex sindaco di Palermo: “Sono convinto che questo delitto (quello di Lima, ex sindaco di Palermo ed ex eurodeputato della Democrazia cristiana che il 12 marzo 1992 fu ucciso a colpi di pistola di fronte la sua villa di Mondello) faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta commissione antimafia, se vorrà ascoltarmi”. Nonostante Violante avesse detto che avrebbe ascoltato Ciancimino solo se questi avesse fatto una richiesta formale alla Commissione, la commissione antimafia ricevette la lettera ma decise di non ascoltarlo.
C’è poi un altro aspetto che della storia di Mori non può essere trascurato. Perché la storia di Mori è l’esempio di come una visione burocratica della lotta alla mafia non contempli la possibilità che un super sbirro possa imparare a combattere il nemico studiandolo, osservandolo da vicino, tentando persino di parlare con il suo stesso linguaggio. E con ogni probabilità il grande peccato originale di Mori è stato quello di essere diventato un simbolo della lotta alla mafia senza aver avuto bisogno di indossare l’abito del professionista dell’antimafia. Anzi, quell’antimafia con cui Mori ha lavorato fianco a fianco per anni è stata spesso ferocemente criticata dallo stesso generale. E sulla testa di Mori la scomunica dell’antimafia palermitana arrivò quando il generale testimoniò nel processo Contrada: l’ex agente del Sisde è stato arrestato il 24 dicembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quando Mori fu sentito come teste non si scompose affatto e, dopo aver detto che Contrada era il “miglior poliziotto antimafia che abbia mai avuto a Palermo”, il generale disse quello che la procura di Palermo non voleva sentire. Gli chiesero se Giovanni Falcone avesse mai sospettato di Contrada e lui rispose secco così: no. La procura aveva un’altra idea e indagò persino Mori per falsa testimonianza.
Ma dietro alle accuse di connivenza fatte nei confronti del lavoro siciliano di Mori esiste anche un filone di critica culturale di cui ultimamente si è fatto portavoce lo scrittore Andrea Camilleri. La visione burocratica della lotta alla mafia ti trascina spesso anche verso conclusioni molto avventate e ti porta a credere che stabilire contatti con il nemico, studiare da dentro il suo mondo, arrivando persino a parlare il suo lessico, significhi sostanzialmente diventare suo complice. In una recente intervista, Camilleri sostiene che Leonardo Sciascia era molto affascinato da quella mafia che sembrava invece combattere. La dimostrazione pratica è nascosta dietro alcune parole del protagonista del Giorno della civetta. Sempre lui: il capitano Bellodi. “Sciascia – dice Camilleri – non avrebbe mai dovuto scrivere ‘Il giorno della civetta’: non si può fare di un mafioso un protagonista perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del romanzo, invece giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – ‘omini, sott’omini, ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce coll’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue.
E il fatto che Sciascia faccia dire dal capitano Bellodi a don Mariano mentre lo va ad arrestare ‘Anche lei è un uomo’ è la dimostrazione che in fondo Sciascia la mafia l’ammira e la stima”.
La mafia sembra invece che non apprezzò le inchieste portate avanti da Borsellino e da Mori. Pochi giorni dopo aver tentato di accelerare le indagini sull’inchiesta “Mafia e appalti”, in una 126 rossa parcheggiata in via d’Amelio, nel cuore ovest di Palermo, esplosero cento chili di tritolo e uccisero il giudice Borsellino e i suoi cinque agenti della scorta. Era il 19 luglio 1992. Solo un giorno dopo, quando ancora la camera ardente di Paolo Borsellino non era stata neppure aperta, la procura di Palermo depositò un fascicolo con una richiesta di archiviazione. Sopra quel fascicolo c’era un codice fatto di sei numeri: 2789/90.
Era l’inchiesta “Mafia e appalti”.
© 2009 – FOGLIO QUOTIDIANO
Grazie paolo della precisazione che non conoscevo, sul resto delle mie domande sai qualcosa?
Gianluca
PER COMMENTO 3
Grazie dell’interessantissimo articolo che mi hai postato, nello stesso Mori intervistato dice:
"Non perquisimmo subito l’ appartamento di Riina perche’ , e me ne assumo tutta la responsabilita’ , il capitano Ultimo pensava che potesse essere ancora "caldo". Quel che resta sono stupidi sospetti all’ italiana"
Che significa ancora caldo? E poi nell’immediato subito dopo l’arresto si conosceva o no con precisione qual’era l’appartamento?
Riguardo Canale è stato assolto in appello con motivazioni mandate dopo 13 mesi … ed è news di novembre ricorso in cassazione, che schifo!
ASSOLUZIONE IN APPELLO
RICORSO IN CASSAZIONE
http://www.antimafiaduemila.com/content/view/21520/48/
Gianluca
P.S. La news del ricorso in cassazione è così allucinante che è anche complicata da trovare in rete ed a riguardo ci sono pochi link .
Ciao Gianluca,
Vado di fretta e mi sembra mancanza di rispetto per il titolare del blog postare " amemoria", come fatto per la risposta precedente,
ad ogni modo.
1, corretto, quando fu arrestato riina si conosceva il- grande- complesso immobiliare ma non l’esatta ubicazione dell’appartamento.
2. scrivi bene, caselli si era insediato il giorno stesso: ha avallato il parere anzitutto di Ultimo. Al processo ha confermato il tutto.
La perquisizione era tecnicamente impossibile anche per il fatto che quasi subito l’ingresso del complesso immobiliare era pieno di giornalisti, informati da Ripollino, malgrado la cattura fosse avvenuta in altro luogo.
3. non ricordo bene il particolare. Posso solo dire che è coerente con una assoluzione con formula piena sulla quanle uno a caso, travaglio, spende parole durissime dopo averci dilettato di lampioni e cassaforti.
Mi scuso nuovamente se per fretta vado un po’ a memoria e non indico fonti specifiche.
Posso dire con certezza che buona parte se non gran parte delle informazioni derivano dalla lettura delle analisi di enrix
Ciao. Paolo
Ciao Enrix, sono Moritz, una segnalazione.
Un tale avvocato Fabio Repici dice, ripreso anche dal sito di Borsellino (ammazza che dichiarazioni!):
“Del ROS dopo la guida del generale Subranni è arrivato il momento del Generale Mario Mori. Il Generale Mario Mori è il responsabile della mancata perquisizione al covo di Riina. Tanti blaterano di una sentenza di assoluzione che gli ha restituito l’onore. Allora, per chiarire, il Generale Mori e il colonnello Sergio De Caprio dalla sentenza di assoluzione sono rimasti definitivamente svergognati perché, con quella sentenza di assoluzione, si è sancito che essi hanno omesso di perquisire il covo di Riina, sono assolti non per non aver commesso il fatto, ma solo perché il tribunale ha ritenuto che non era stato provato il dolo. L’hanno fatto, ma solo per colpa, inavvertitamente.”
"Altro personaggio – qui rasentiamo il cabaret – che ha contraddistinto il ROS nella seconda Repubblica, è un personaggio che avrebbe un nome e un cognome, che però, come nei fumetti, si fa chiamare per pseudonimo. Ora, ci sono stati esimi esempi di ufficiali nobili ed integerrimi nella storia dell’arma dei carabinieri: Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Capitano D’Aleo, il Capitano Basile. Ma voi ve lo immaginereste uno di questi personaggi che si fosse fatto chiamare con uno pseudonimo? Gli avrebbero riso in faccia. Non lo fecero. C’è invece un personaggio, che in teoria all’anagrafe si chiama Sergio De Caprio, che però è conosciuto con lo pseudonimo di Capitano Ultimo perché si sente evidentemente un personaggio dei fumetti. E’ un altro dei responsabili della mancata perquisizione al covo di Riina ed è uno dei personaggi – è un poveretto da come si propone – sui quali è però più difficile parlare, perché appena si cerca di mettere il dito sulle gravissime pecche di quell’ufficiale, ci sono personaggi, anche dell’antimafia ufficiale, che subito saltano in piedi e gridano allo scandalo. Perdonatemi, ma, con i personaggi da fumetti, investigazioni serie non se ne fanno e la storia del ROS è la prova di questo. Non è un caso, per altro, che i supporter di quegli ufficiali del ROS, di questi tempi, sono gli stessi supporter di Bruno Contrada, o gli stessi supporter dei servizi deviati."
http://www.antimafiaduemila.com/content/view/23762/48/
Per Moritz
Penso che basta leggere quello che scrive per capire il livello di questo avvocato. Tra l’altro sulla sentenza conclude con il comunicare che i giudici hanno confermato che il covo non è stato perquisito (cosa vera) ma non c’era dolo COME DIRE CHE E’ UNA STUPIDAGGINE IL MANCATO DOLO, peccato non ci racconti pure che Caselli diede l’ok e sapeva tutto, peccato non ci racconti che la presunta cassaforte rimase intatta, peccato non ci racconti che al momento dell’arresto non si sapeva con precisione quale era l’appartamento dove stava Riina, peccato non ci dice che causa soffiate alcuni giornalisti erano nella zona con il rischio di bruciare futuri indagini … ma per l’avvocato queste sono piccolezze da cartone animato …
Gianluca
E’ incredibile la mobilitazione generale contro questi carabinieri che hanno catturato Riina. Molto utile soprattutto per dare una buona immagine della lotta contro il crimine della loro città ai giovani palermitani.
Questa serà probabilmente posterò un articolo, per rispondere a tutte queste bassezze, questo pattume.
Post di Angelo Jannone che parla dell’avvocato Repici.
http://ilblogdiangelojannone.blogspot.com/2010/01/nel-nome-dellantimafia.html
Scusate, dimentico sempre la firma, chiamiamola così.
Allora aggiungo un documento un po’ datato, la lettera di Olindo Canali, magistrato, in cui si parla anche dell’avvocato Repici.
http://blog.libero.it/lavocedimegaride/6781985.html
bart_simpson
Ho letto sul libro di Montolli "il caso Genchi" alcune dichiarazioni fatte da Jannone ai magistrati che sono delle auto accuse, sempre però nascoste ai media.
Viene anche descritto come persona molto abile a gestire le news on line (riportando notizie non vere a suo riguardo su Wikipedia) e sullo stesso ancora non mi sono dilettato a cercare in rete. Tu lo hai fatto? Sai qualcosa relativi i processi che aveva in corso?
Gianluca
Guardate, a me non frega niente chi sia ‘sto Repici. E semplicenente uno che ha scritto che i cc che arrestarono il capo dei capi della mafia latitante da decenni, sarebbero stati "svergognati" dal fatto che nella sentenza c’è scritto che non hanno comunque rispettato il regolamento di polizia, anche se tale infrazione è stata commessa senza dolo e non ha avuto, nè poteva avere, alcuna conseguenza sulle indagini.
Quindi è semplicemente n’ommem-bip-.
Su Repici sono assolutamente d’accordo con te Enrix. Sarebbe interessante capire qualcosa anche su Jannone visto che da ex ROS viene utilizzato per attaccare gli stessi accostandolo a Mori ad Ultimo ed ai tanti che NON DEVONO VERGOGNARSI DI NULLA (almeno fino a prova contraria e nonostante gli stiano facendo le pulci, queste prove contrarie ancora non sono uscite fuori).
Gianluca
Articolo molto interessante. Vorrei chiederti caro Enrix alcune precisazioni.
1- L’articolo quando introduce per la prima volta l ‘argomento mancata perquisizione del covo o appartamento, fa passare un piccolo particolare che E’ ERRATO SE MI RICORDO BENE. All’inizio nell’immediato post arresto di Riina, arresto avvenuto per strada (nella zona presidiata) e dentro NESSUN APPARTAMENTO, non si sapeva neanche con precisione quale fosse l’appartamento in questione. Si sapeva che era in quella zona, basta. Mi ricordo bene Enrix ho in testa i miei ricordi sono sbagliati?
2- Ho letto sempre nello stesso paragrafo che Mori afferma che avrebbe avuto l’input dalla procura di non fare la perquisizione, mentre i ricordo tutt’altra cosa e precisamente che ritenevano (Mori ed Ultimo) più corretto agire così ed informarono del loro piano Caselli (appena insediatosi) che diede l’ok, visto che la parola finale spettava a Caselli. E’ un imprecisazione del giornalista che ha scritto il pezzo o ricordo male io?
3- A seguire trovo scritto che Ingroia e Prestipino in una prima inchiesta scagionarono Mori chiedendo l’archivazione ma cmq scrissero 100 pagine di motivazioni per picchiare duro, sostenendo che le news date alla procura erano non veritieri e fuorvianti. Immaggino avranno scritto a quale dichiarazioni si riferivano, quali sono?
4- Infine si parla che vengono di nuovo messi sotto inchiesta e che questa volta il processo viene fatto E VENGONO DEFINITIVAMENTE ASSOLTI, ti chiedo Enrix, su cosa si basò la richiesta di una nuova indagine dopo che nel primo caso sullo stesso argomento Ingroia e Prestipino chiesero l’archivazione? Anche perchè, se non sbaglio, saranno proprio Prestipino ed Ingroia i PM dell’accusa.
Gianluca
@Gianluca.
Richiesta di archiviazione dei Pm ma la Gip (non ricordo il nome) ha rinvato a giudizio ugualmente.
Paolo
Tutto e’ cominciato il 13 ottobre 1997 quando Caselli e il suo aggiunto Guido Lo Forte vanno a Torino a interrogare Mori: la Procura vuole capire quale crepa si fosse aperta nel sistema di vigilanza sull’ ex pentito Balduccio Di Maggio, tornato in Sicilia per ricostituire la cosca e compiere omicidi. L’ indagine si addentrava su presunte "distrazioni" del Ros.
IL CASO SIINO – DE DONNO Alcuni giorni dopo il maggiore Giuseppe De Donno si presenta ai magistrati di Caltanissetta per accusare Lo Forte: il magistrato sarebbe stato una talpa delle cosche e avrebbe passato nel 1991 un rapporto Ros su mafia e appalti. La fonte era il "ministro dei Lavori pubblici" di Cosa nostra, Angelo Siino, che avrebbe fatto quelle rivelazioni a De Donno e al colonnello Giancarlo Meli. Sia lo Lo Forte che Siino smentiscono i due ufficiali.
IL CASO CANALE Lo Forte denuncia De Donno per calunnia, sostenendo, tra l’ altro, che nei colloqui registrati a sua insaputa Siino non ha mai sollevato ombre sul procuratore aggiunto. Il pentito ha anzi accusato di collusioni mafiose il tenente Carmelo Canale e il maresciallo suo cognato, Antonino Lombardo, suicida nel 1995.
Poi però Canale per quelle accuse è stato assolto, sbaglio?
http://cronachedallimbecillario.splinder.com/archive/2009-08
L’articolo finiva così
LA RAPPACIFICAZIONE Nell’ aprile 1998 il nome di Mori finisce nel registro degli indagati a Palermo: con altri ufficiali e funzionari di polizia avrebbe reso una falsa testimonianza nel processo all’ ex funzionario del Sisde Bruno Contrada. Ma proprio in quel momento la guerra tra Ros e Procura e’ entrata in una fase di rapido raffreddamento fino a una cena "pacificatrice" svolta a Palermo tra Caselli, Mori e altri ufficiali
L’ INCHIESTA Intanto la Procura di Caltanissetta chiede l’ archiviazione sia per Lo Forte che per De Donno. Solo per Canale richiesta di rinvio a giudizio.
R. R., D’ Avanzo Giuseppe
Pagina 13
(3 gennaio 1999) – Corriere della Sera
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1
1) Premessa
Prima di partire con la prima puntata del nostro telefilm, debbo fare una precisazione doverosa.
Quando per carburare il Truman Show si da il via ad una campagna mediatica, non è detto che tutti coloro che vi partecipano facciano parte della regia.
Molti giornalisti, magistrati, politici, ecc…ecc… partecipano alla messa in onda del “rumor” , vale a dire quel suono, quel vociare che parte nel giornale del mattino e si conclude con le serate televisive, a volte persino inconsapevolmente, e vale a dire semplicemente ripetendo o facendo da eco alla colonna sonora dello show, e cioè ai virus informativi lanciati dai registi, convinti di fare cosa giusta e, certe volte, persino di avere a che fare con cose veritiere.
Ergo, quando in questo sito, analizzando un testo od una trasmissione televisiva, scopriremo qualche cumulo di sciocchezze, occorre ribadire che tali sciocchezze non sempre, per chi le enuncia, rappresentano qualcosa di scritto o pronunciato in stato di coscienza e consapevolezza, e quindi di dolo, ma che si può trattare semplicemente e giustappunto di sciocchezze, corbellerie, bufale, proposte al pubblico per mera superficialità ed approssimazione, da qualcuno che non ha verificato né approfondito la notizia innestata nello show da chi sta in cabina di regia, o da chi si è lasciato semplicemente trasportare dall’enfasi e dal noto metodo del “più o meno”.
In sintesi: proponendo una teoria di imprecisioni, falsità e corbellerie, non è vero che intendiamo significare allo stesso tempo che gli autori delle stesse siano dei falsari di mestiere o dei criminali.
Molte volte, anziché di paraculi, si tratta di gente pasticciona e poco professionale, od anche ingenua , così come ingenua ed innocente è la schiera dei lettori o telespettatori che recepisce le notizie così come sono, senza alcuno spirito critico.
Altre volte invece, pizzicheremo i veri e propri mascalzoni, i cervelli criminali. (Non distante da qui, negli articoli di Segugio dei giorni scorsi, abbiamo parlato di uno di questi, e bello grosso).
Buona lettura.
2) I manoscritti sulla "trattativa" tra stato e mafia
C’eran tre papelli,
vergati da Don Vito.
Ma, di tre, due son patacche, ahimè.
Lui non ci ha mai messo dito.
Da molti anni ormai si parla del famigerato papello, il foglio contenete l’elenco delle pretese avanzate allo Stato dalla mafia per allentare la morsa degli attentati e delle stragi. Su questo blog abbiamo già trattato diffusamente dell’argomento, nell’articolo “De papellibus”.
A metà dello scorso mese di ottobre, il presunto papello è saltato fuori, consegnato prima in fotocopia, e quindi in originale, da massimo Ciancimino ai PM di Palermo.
Insieme al papello, son saltati fuori altri due documenti.
Il primo, è un papello-bis, un altro foglio contenente richieste che lo stato avrebbe dovuto esaminare per trattare con la mafia, sulla base delle stesse, onde fermare gli attentati.
Il secondo, è un memoriale di 13 pagine, sulla trattativa, manoscritte da Vito Ciancimino nel 1993 e pubblicate integralmente e per la prima volta il 21 ottobre scorso, contemporaneamente su questo blog e sul blog “censurati.it” di Antonella Serafini, cui va il merito di avere reperito il documento. Memoriale che, come vedremo, era già in mano ai Procuratori di Palermo ancor prima che fosse manoscritto. (?….tranquilli, ora ve la spiego).
Quindi, TRE documenti, che ho descritto in forma sintetica.
A questo punto, per calarsi nello show provando in modo pieno ed appagante la sensazione di essere un Mr. Truman come si deve, bisogna prima capire bene CHE COSA SIA EFFETTIVAMENTE ognuno di questi documenti.
Così funziona. Per capire che ti è caduto un faretto cinematografico tra i piedi, bisogna prima sapere bene che cosa è e com’è realmente fatto, un faretto cinematografico.
E quindi, ecco qua.
—-> documento numero uno: il papello originale
Lo vediamo in questa immagine:
Come ho
detto, è un elenco di 12 pretese numerate, scritte dalla mafia per mano di un
non precisato scrivano (secondo Brusca si tratta del Dott. Cinà), su di un
foglietto in possesso di Don Vito Ciancimino, da lui consegnato al generale
Mori e custodito, in copia, in cassetta di sicurezza sino ad un mesetto fa,
allorchè Massimo Ciancimino riuscì finalmente a recuperarlo e quindi a
consegnarlo ai magistrati inquirenti.
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Come ho detto, è un elenco di 12 pretese numerate, scritte dalla mafia per mano di un non precisato scrivano (secondo Brusca si tratta del Dott. Cinà, secondo Sandro Ruotolo potrebbe trattarsi di Totò Riina, secondo me di uno qualsiasi), su di un foglietto in possesso di Don Vito Ciancimino, da lui consegnato, in ori ginale o in copia, al generale Mori e custodito, in originale o in copia, in cassetta di sicurezza sino ad un mesetto fa, allorchè Massimo Ciancimino riuscì finalmente a recuperarlo e quindi a consegnarlo ai magistrati inquirenti.
Su questa copia, come si vede dall’immagine, qualcuno ha scritto «Consegnato, spontaneamente, al colonnello dei Carabinieri Mario Mori dei Ros», e secondo Massimo Ciancimino lo scrittore sarebbe suo padre. E quindi anche secondo la totalità dei media nazionale, Don Vito risulta essere l’autore di quella scritta. Fatto importante, quella postilla, perché essendo provato e confermato dallo stesso Mori che siano avvenuti incontri fra di lui e Vito Ciancimino, quella scritta del defunto Don Vito, sarebbe un pesante indizio contro il generale, una prima rilevante prova che egli abbia ritirato “il papello” della trattativa fra mafia e stato, fatto che egli ha sempre negato.
In realtà noi abbiamo fatto un confronto calligrafico fra parole equivalenti, estratte le une da questo e dal secondo papello (doc. numero 2) e e le altre dal documento numero 3, scritto certamente da Vito Ciancimino.
Dal confronto fra le grafie, sorgono alcuni dubbi. Anche il papello bis, come il precedente, in alcune parti suscita perplessità..
VEDI QUI IL CONFRONTO CALLIGRAFICO
—–> documento numero due: il papello originale “rivisto” da Vito Ciancimino
Lo vediamo in questa immagine.
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Secondo quanto afferma Massimo Ciancimino, suo padre quando lesse per la prima volta il PAPELLO N°1, considerò le 12 richieste delle “richieste da testa di m….”.
Per lui quelle richieste poste allo stato erano irricevibili, assolutamente improponibili.
Pensò quindi di redigere un elenco di richieste alternativo, con pretese più “soft” rispetto a quelle originali, diciamo “smussate” così da renderle proponibili. Ad esempio la richiesta di eliminazione delle accise sul carburante, veniva sostituita da Don Vito con una più realistica e ragionevole: la soppressione del Monopolio di Stato sui tabacchi.
Su questo papello-bis si possono leggere, in testa, i nomi di Virginio Rognoni e Nicola Mancino. «Quei due nomi non sono sul papello. Mio padre li scrisse a mano su un foglio a parte (il papello-bis) facendo i suoi ragionamenti, le sue modifiche sui 12 punti della carta principale, cioè il papello»
Quindi questo papello sarebbe stato scritto di proprio pugno da Don Vito, così come confermato anche da suo figlio Massimo, il superteste.
In realtà, sempre dal confronto calligrafico da noi effettuato e già citato sopra, ANCHE QUESTO SECONDO PAPELLO suscità perplesità in più punti.
—–> documento numero tre: il memoriale di vito ciancimino del 1993
Questo documento viene definito “memoriale”, ma in realtà non è esattamente questo.
Sarebbe invece la trascrizione testuale, fatta di proprio pugno da Don Vito Ciancimino, di un verbale di una sua stessa deposizione redatto il giorno 17 marzo 1993 nel carcere romano di Rebibbia, innanzi al Procuratore Distrettuale della Repubblica di Palermo, dott. Giancarlo CASELLI e al sostituto Procuratore dott. Antonio INGROIA.
Vito Ciancimino, che in carcere aveva tutto il tempo per farlo, trascrisse a mano quel verbale e lo corredò di un paio di paginette di note aggiuntive.
Il motivo dell’operazione, si spiegherebbe col fatto che il Ciancimino aveva l’intenzione di affidare ad un editore straniero un suo libro di memorie, che nella sua stesura originale doveva essere interamente manoscritto, a provarne l’autenticità anche in caso di eventuale incapacità di conferma da parte dell’autore, caso mai gli fosse capitato qualche incidente.
E quindi Ciancimino trascrisse a mano quella parte del suo verbale di deposizione innanzi ai PM, perché aveva l’intenzione di utilizzarla per il suo libro.
In realtà poi, rinunciò, e la ripose in un cassetto.
Questo manoscritto NON RISULTA ESSERE MAI STATO CONSEGNATO da Ciancimino a Mori, o comunque non c’è alcuna prova che ciò sia avvenuto. Anzi, c'è la prova contraria. Infatti il documento originale, è stato sequestrato dagli inquirenti nel 2005 a Massimo Ciancimino, nel contesto delle iniziative cautelari disposte dalla Procura di Palermo per le indagini relative alle presunte attività di riciclaggio del patrimonio illegale paterno illecitamente condotte da Ciancimino Jr.
Consiglio a tutti, giunti a questo punto, di leggere attentamente il testo della deposizione di Ciancimino resa dinnanzi a INGROIA e trascritta nel memoriale, testo che PER LA PRIMA VOLTA, su di un mezzo di comunicazione, qui di seguito è riportato fedelmente (compresi gli errori, l’uso delle maiuscole, e le sottolineature).
Chi lo desiderasse, può scaricare QUI il file con l'ipertesto del memoriale, e QUI il file con le immagini ad alta risoluzione delle pagine del memoriale.
e soprattutto quanto questi siano importanti.
Innanzitutto Ciancimino comunica la data degli incontri avuti con i carabinieri: dal 25 di agosto 92 (De Donno) al 1° settembre 92 (Mori) e oltre. Tutte date che smentiscono l’attuale teoria accusatoria dei PM contro Mori, ed escludono il coinvolgimento dei ROS e della loro trattativa, nella strage di Via D’Amelio (luglio 92).
Ciancimino poi, spiega qual’era l’oggetto della richiesta dei ROS: collaborazione per assicurare alla giustizia i latitanti. Altra testimonianza che assolve i ROS dalle accuse di torbide trattative.
Ciancimino dice di aver deciso di collaborare con i ROS, e di avere anche iniziato, esaminando insieme a loro carte geografiche di Palermo ed altri documenti utili per la cattura di un grosso latitante.
Ciancimino afferma di essere stato arrestato immediatamente dopo aver dato inizio alla sua collaborazione con i carabinieri, essendo secondo lui tale circostanza una ben strana coincidenza e priva di fondate motivazioni.
Ciancimino afferma di aver avuto una richiesta dimostrazione di “referenza” e “credibilità” da parte del suo interlocutore emissario della mafia, consistente in un aggiustamento “delle sue cose”, e cioè del suo processo (non sarà per questo che Ciancimino per mezzo di Mori, chiedeva insistentemente un incontro con Violante, a partire dell’ottobre 92?)
Di quella deposizione di Ciancimino dinnanzi a Caselli, trascritta dallo stesso Vito Ciancimino, ci ha parlato Marco Travaglio, il 22 ottobre scorso (che è il giorno successivo alla pubblicazione sui nostri blog, di questo “memoriale”.) sul “Fatto quotidiano”:
“(Vito Ciancimino) lo sentirà Gian Carlo Caselli, poco dopo essersi insediato alla Procura di Palermo il 15 gennaio ’93 (lo stesso giorno dell’arresto di Totò Riina e della mancata perquisizione del covo da parte del Ros, forse nel timore di trovare carte inerenti la trattativa del papello). Ma Ciancimino, a quel punto, si ritrarrà a guscio e dirà ben poco sul delitto Lima e sul caso Andreotti. Anche perché sia Violante sia Mori si sono ben guardati dal rivelare a Caselli quel che sanno sui colloqui top secret fra il Ros e Ciancimino.” (Travaglio: Violante, don Vito e l'antimafia di Marco Travaglio – 22 ottobre 2009)
Così, piuttosto rozzamente, liquida Travaglio quella deposizione, che invece, non si ha che da leggerla, è la sola testimonianza diretta della parte interessata, di come, quando e perché sia avvenuta la famosa trattativa. Niente niente.
All’inizio di marzo del 2005, come ho già detto, il manoscritto viene sequestrato a Massimo Ciancimino, nella sua abitazione, nell’ambito delle indagini a suo carico per riciclaggio.
E’ importante leggere il resoconto dato da Repubblica in quella circostanza:
Dieci pagine firmate Vito Ciancimino
Repubblica — 06 marzo 2005 pagina 2 sezione: PALERMO
Inchiesta riciclaggio, all' esame dei pm c' è anche un manoscritto dell' ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino sequestrato la scorsa settimana durante la perquisizione a casa del figlio Massimo. Dieci paginette manoscritte dal titolo: "I carabinieri". Vito Ciancimino avrebbe voluto inserirle nel suo memoriale scritto negli anni passati a Rebibbia, ma alla fine decise di tenerle a parte. Anche se il tema era sempre quello: la sua «collaborazione» con lo Stato e la famosa trattativa avviata da Cosa nostra con pezzi delle istituzioni dopo la terribile stagione delle stragi del 1992. Le dieci paginette iniziano così: «Il capitano Giuseppe De Donno è coetaneo e amico di mio figlio. Da tempo cercava di convincermi a parlare, ma io ho sempre detto di no. Ora a farmi cambiare idea sono stati l' omicidio di Salvo Lima, che mi ha turbato, quello di Giovanni Falcone, che mi ha sconvolto, e quello di Paolo Borsellino che mi ha atterrito». Un rapporto rimasto misterioso quello avviato proprio dopo le stragi tra l' ex sindaco di Palermo e i carabinieri. E rievocato anche dal generale Mario Mori, capo del Sisde, nell' ambito dell' inchiesta sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina in via Bernini. Ai magistrati di Caltanissetta che lo interrogarono sul caso, Mori ricostruì così la collaborazione con Ciancimino, definito da lui "fonte confidenziale". «Il capitano De Donno aveva instaurato un buon rapporto con il figlio Massimo, durante la detenzione del padre. Fu così che invitai De Donno ad approfondire i rapporti». Il primo ottobre del '92 Ciancimino avvia la sua collaborazione, 18 giorni dopo l' incontro decisivo. «Ciancimino mi informò che i suoi interlocutori avevano accettato di portare avanti un certo tipo di trattativa… gli chiesi di avere la consegna di Riina e degli altri assicurando che le famiglie di costoro sarebbero state trattate bene. Al che Ciancimino ebbe uno scatto improvviso… "Mi vuole morto, così morite anche voi". Aggiunse che avrebbe comunicato ai suoi interlocutori che vi era stato un momento di ripensamento e ci accompagnò alla porta». Un mese dopo, il figlio di Ciancimino contatta De Donno e lo invita a tornare dal padre. «Ciancimino aveva accettato – spiega Mori – e chiese una dettagliata mappa di Palermo nella zona compresa tra viale Regione Siciliana e Monreale. La sera stessa fu arrestato». In carcere l' ex sindaco accettò di parlare con i magistrati. «La collaborazione – conclude Mori – non approdò a buoni risultati. Si è perduta un' occasione importante». (…)ALESSANDRA ZINITI
Si noti dunque bene che:
Il manoscritto di cui parla Repubblica il 6 marzo 2005 è proprio il nostro terzo documento, quello di cui stiamo parlando
Ergo quel documento era senz’altro a conoscenza dei PM sin dal marzo del 2005, ove fu da essi sequestrato
I PM lo posero immediatamente “all’esame”. Situazione un po’ paradossale, trattandosi della stessa procura ove quel manoscritto, nella sua forma originale e non trascritta, era depositato agli atti sin dal marzo del 1993.
Pur contenendo il manoscritto tutti i particolari della “trattativa” ed altri dettagli fondamentali in merito all’oggetto della collaborazione cui Ciancimino si era determinato, Repubblica omette di illustrarci tali contenuti, che sono invece la parte fondamentale di quell’atto giacente in tribunale sin dal 1993; riporta invece parti, in virgolettato, non significative.
Il resoconto reso da Mori su quelle vicende, in parte riportato nel virgolettato sull’articolo di Repubblica, coincide perfettamente con quello reso da Ciancimino sul suo manoscritto.
In ogni dettaglio. Ergo, ai cittadini italiani è stato sempre taciuto (in primis, già nell’articolo di Repubblica che ho citato, indi viene ancora taciuto oggi, salvo la possibilità di leggere il testo su questo modesto blog) CHE ESISTEVA UNA DEPOSIZIONE OLOGRAFA DI VITO CIANCIMINO, e cioè l’interlocutore dei ROS, RESA IN CARCERE, che confermava alla lettera, passo per passo, tutte le circostanze riferite da Mori in merito alla trattativa. Tutte, in ogni dettaglio. Come se fosse un particolare da nulla. Piccoli fondali dipinti del Truman Show che cominciano a scollarsi dal telaio di sostegno.
Ed ora facciamo un salto di oltre 4 anni. Del misterioso manoscritto non si sente più parlare, sino al 16 ottobre 2009. (sto parlando dei mass-media, in vero, poichè nella sentenza di assoluzione dalle accuse a carico di Mori e De Caprio per il presunto reato di favoreggiamento, il memoriale era stato citato)
Il giorno precedente, 15 ottobre, l’Avvocato di Massimo Ciancimino ha consegnato la copia dei Papelli (numero uno e numero due), ai PM Palermitani.
Il settimanale L’Espresso, mette in rete la fotocopia dei Papelli alle ore 18.33, dello stesso 15 ottobre come dimostra questa diagnosi del file.
Nelle ore immediatamente successive, le immagini dei papelli sono sul web e sui giornali.
Il giorno dopo, 16 ottobre, il TG3 serale decide di occuparsi della papellofanìa, e lo fa con un servizio di Fabrizio Feo.
Ora che conosciamo bene i DOCUMENTI NUMERO UNO, DUE E TRE, possiamo rivederlo, e divertirci:
E quindi lo trascriviamo, questo servizio del TG, col corredo delle immagini, poste a lato del testo, che nel video erano temporalmente coincidenti con la narrazione trascritta.
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Vediamo dunque brevemente cos’ha combinato il TG3 in questo servizio:
Il video comincia con una descrizione del papello n°1. Nel frattempo viene mostrata l’immagine del papello n°2. Poi lo speaker prosegue con la descrizione del papello n°1, e conclude: “Se sia la copia del papello originale, o un pro-memoria di Vito Ciancimino (il documento n° 3 – ndr) , lo chiarirà Massimo Ciancimino.”
A fronte di questo dubbio, io, senza scomodare Ciancimino jr., avrei la risposta pronta per i nostri simpatici redattori della RAI: “Entrambi tre”.
Poi, ancora un’affermazione sibillina:
“Difficile invece spiegare incongruenze temporali e anomalie nell’elenco di richieste.”
Su questo argomento lo speaker non aggiunge altro; noi sappiamo a cosa si riferisce, perché abbiamo studiato, ma il telespettatore medio comincia ad accusare capogiri non capendo di cosa stanno parlando al TG; anche perché, nel frattempo, prorompe per la prima volta sullo schermo televisivo l’immagine di un misterioso documento, che nulla ha a che vedere con quelli sino ad ora oggetto del servizio: il memoriale di Ciancimino del 93 (documento numero tre), in un dettaglio della quarta pagina dove campeggiano in primo piano tre inquietanti parole sottolineate “piena delega a trattare.” Trattare. Trattativa. Abbiamo capito, abbiamo capito.
Ma proprio a questo punto viene il bello, perché il commentatore ci spiega: “ Secondo l’Espresso sul documento c’era un post-it, con l’annotazione: “Consegnato al colonnello dei carabinieri Mori dei ROS”. Giustamente nel riferirci tale notizia, il TG riproduce, finalmente, un particolare del Papello n°1, quello giusto di cui sta parlando il servizio, e precisamente la frase citata vergata dal presunto Vito Ciancimino (e che, tra l’altro, noi riteniamo essere un falso, una brutta imitazione).
Dopodichè, un capolavoro della logica.
TG3 si domanda: “Cos’era stato consegnato a Mori?” E a quel punto appare la simpatica faccia barbuta del cronista, Fabrizio Feo, che ci spiega cos’era stato consegnato a Mori.
Ma alla spiegazione di Feo anteponiamo un breve riassunto delle parti precedenti, perché è una perla che va vista nell’insieme.
In pratica, ci è stato detto:
C’è un papello, fatto così e così, contenente le richieste della mafia. E’ stato consegnato in copia da Massimo Ciancimino ai PM. Se poi sia una copia di se stesso o un’altra cosa, ce lo deve dire Ciancimino. Poi su questo papello c’è una nota: “consegnato a Mori”. E cos’era stato consegnato a Mori? Ve lo dico subito: non il papello con su scritto “consegnato a Mori”, ma degli appunti, redatti tra il 92 e il 93, pieni di sorprese. (che tra l’altro, mai sono stati consegnati a Mori). E fra queste sorprese, ad es., c’è Vito Ciancimino che scrive di ritenere che i boss mafiosi siano pazzi, oppure abbiano le spalle coperte politicamente. Per ora, fine delle sorprese.
Sticazzi, chiarissimo, ed inquietante.
A quel punto bisogna assolutamente sentire che ne pensa Violante:
VIOLANTE: “Ma, bisogna vedere bene prima che cosa sono, questi appunti. Si parla di fotocopie… bisogna vedere se corrispondono a quello dato ai magistrati. Quindi sarei molto molto prudente Sia ben chiaro: la mafia ha sempre cercato il contatto con i poteri pubblici: non è una novità.”
TRADUZIONE: Ma santa pazienza, dite di volermi intervistare sul papello consegnato ieri da Ciancimino, e mi mostrate questa roba, una deposizione di Ciancimino davanti a Caselli nel 93 che non c’entra una sega col papello e quindi non è quello che ieri han dato ai magistrati. Che caspita volete che vi dica? Mah…, dirò di stare molto prudenti a far ‘sti casini coi documenti, e poi qualcosa di un po’ generico sui contatti fra mafia e politica. Ma guarda che mi tocca…
E in conclusione, torna il nostro
SPEAKER: col famoso papello finalmente sul tavolo dei magistrati, e le rivelazioni sui contatti fra stato e cosa nostra giunte a Paolo Borsellino poco prima della sua morte, i magistrati hanno elementi per nuove indagini, che potrebbero far luce sul periodo delle stragi, e sulle responsabilità.
Tutto chiaro, il telespettatore è servito. Ora, grazie a queste informazioni opportunamente approfondite e spiegate dal nostro Truman Show, sa che i magistrati hanno sul tavolo una patacca, che si va ad aggiungere agli altri schiaccianti elementi a loro disposizione per nuove indagini, come “le rivelazioni sui contatti fra stato e cosa nostra giunte a Paolo Borsellino poco prima della sua morte”.
E quali sarebbero queste rivelazioni?
Le sole ed uniche rivelazioni nuove, sulle informazioni giunte a Borsellino sulla trattativa, sono quelle di Martelli ad Annozero, e cioè:
«Mi fu comunicato dal direttore degli Affari penali del ministero, Liliana Ferraro, che era venuta a trovarla l’allora capitano Giuseppe De Donno, che l’aveva informata che Vito Ciancimino aveva volontà di collaborare». Cui seguì una precisazione di Sandro Ruotolo, che riferisce che, secondo Martelli, Borsellino fu avvertito direttamente dalla Ferraro della volontà di Ciancimino di trattare.
Quindi queste nuove rivelazioni, sarebbero che Borsellino era stato informato che Don Vito Ciancimino voleva collaborare con gli inquirenti (nespole, che rivelazioni inquietanti). Che è esattamente ciò che Mori va ripetendo da anni, nonché ciò che era agli atti della Procura di Palermo, con la deposizione dello stesso Ciancimino che abbiamo pubblicato, da oltre 16 anni.
Caspita, proprio nuove, nuovissime, rivelazioni.
Questo è l’Italian Truman Show, giunto al termine della sua prima puntata.
enrix
Enrix, tu affermi:
Innanzitutto Ciancimino comunica la data degli incontri avuti con i carabinieri: dal 25 di agosto 92 (De Donno) al 1 settembre 92 (Mori) e oltre. Tutte date che smentiscono l’attuale teoria accusatoria dei PM contro Mori, ed escludono il coinvolgimento dei ROS e della loro trattativa, nella strage di Via D’Amelio (luglio 92)
In realtà sono tutte date che smentiscono gli stessi De Donno e Mori.
Udienza del 24 gennaio 1998, al processo per le stragi nel continente celebrato di fronte alla Corte di Assise di Firenze:
Teste Mori:…Incontro per la prima volta Vito Ciancimino a casa sua, a via di Villa Massimo, che è dietro Piazza di Spagna a Roma, il 5 agosto…nel pomeriggio del 5 agosto del 92…
A supporto di questo e di altri incontri Mori consegna ai giudici pagine delal sua agenda
Teste Mori: Sì, ho portato la fotocopia delle pagine, solo delle pagine relative, ovviamente. E qui leggo: "5 agosto tra le 14 e le 15" – dell’agenda – "incontro con V.C.", cioè Vito Ciancimino.
"Sabato 29 agosto, ore 16.00 V.C.", cioè Vito Ciancimino.
"1 ottobre" – sempre di quell’anno – "pomeriggio, colloquio con V.C.".
"Domenica 18 ottobre ore 11.30 V.C.".
"22 gennaio" – dell’anno successivo, quindi siamo nel 93 – "ore 9.00, incontro con V.C.", qui a Rebibbia, anche se non l’ho scritto – "ore 14.00, 13.30 – 14.00 incontro col dottor Caselli"
Quesito: chi dice la verità?
Veniamo ora a De Donno, sempre il 24 gennaio 1998.
Teste De Donno: …E abbiamo provato il contatto che, tra la strage di via Capaci e la strage di via D’Amelio, avviene. Perché Ciancimino accetta di incontrarmi nella sua abitazione di Roma. In quel periodo che Ciancimino era libero…
Enrix, tu affermi: …il resoconto reso da Mori su quelle vicende, in parte riportato nel virgolettato sull’articolo di Repubblica, coincide perfettamente con quello reso da Ciancimino sul suo manoscritto.
In realtà, più correttamente, è vero l’inverso: ciò che affermano Mori e De Donno coincide nella sostanza con gli interrogatori resi da Vito Ciancimino nel 1993 indipendentemente dalla veridicità o meno della sua trascrizione. La sequenza temporale degli eventi può non essere neutra rispetto all’analisi di queste testimonianze. Vediamo perché.
Teste Mori:...L’inizio delle escussioni del Ciancimino verso la metà di febbraio. Ad alcune ho assistito anch’io. Nel contesto di queste dichiarazioni che rese ai magistrati della Procura di Palermo, Ciancimino fece cenno a tutta la vicenda del rapporto tra di noi e lui.
Il capitano De Donno, che compilò gli atti relativi e tutti gli accertamenti connessi connessi alle dichiarazioni di Ciancimino, riferì anche sui nostri rapporti. La Procura di Palermo non ci ha mai chiesto alcunché su questo fatto.
Nei fatti, potremmo dire che Mori e De Donno nel 1998 confermano ciò che già è stato detto nel 1993.
Per ora è tutto.
Andrea G.
Ottimo intervento Andrea, ed ottime argomentazioni.
le commenterò domani, che ora sono stanco.
Però le incongruenze sulla data del primo appuntamento, credo meritino approfondimento, ed anche un articolo. Vanno senz’altro chiarite.
Dimmi, se mi puoi asser d’aiuto: a quale fonte hai attinto per i verbali del 24 gennaio 98?
Buongiorno Enrix,
L’Associazione delle vittime della strage di via dei Georgofili recentemente ha messo in rete i verbali dei dibattimenti.
Vai a:
http://www.strageviadeigeorgofili.org
A sinistra dello schermo vai a "documenti", poi "verbali del primo dibattimento", poi "udienze", clicca su "980124", lì ci sono le deposizioni di Mori e De Donno.
A presto
Andrea
Scusa Andrea perchè scrivi chi dice la verità? Premesso che comunque gli incontri sono successivi la morte di Borsellino (come giustamente scrivi anche te) immagino che sia stato Ciancimino a ricordare male. Ho esistono atti ufficiali in cui Mori sostiene altre date?
Solo per capire, Andrea.
Gianluca
Tra l’altro leggo dagli atti ufficiali che gentilmente Andrea hai linkato relativi alla sentenza sulle stragi trovo scritto che Mori non ha agito assolutamente fuori le righe ha solo cercato con la collaborazione con Ultimo di arrivare ai capimafia:
SENTENZA (n. 2/2000 – depositata il 20.4.2000)
In effetti Mori, che aveva informato Subranni il quale – pur lasciandogli ampi
margini di autonomia e concordando con l’iniziativa – lo avvertì che il
personaggio era abile e da trattare con estrema cautela e circospezione (la sostanza dei consigli fu questa anche se Subranni non ha confermato i termini letterali delle raccomandazioni come riferite da Mori: “…ti può mettere sotto scopa …”), e De Donno si accreditarono presso Ciancimino come rappresentanti dello Stato. Al di là di ogni loro aspettativa, Ciancimino si mostrò disponibile, e il 1 ottobre confermò che era in grado di fare da intermediario con i “corleonesi”. Quando, il successivo 18 ottobre, chiese esplicitamente cosa avevano da offrire, il “bluff” dei due ufficiali venne scoperto. Essi, in realtà, non potevano dare nessuna garanzia, e Mori fece l’unica proposta cui, quale ufficiale di p.g., era legittimato: Riina e Provenzano avrebbero dovuto costituirsi, i loro
familiari sarebbero stati protetti. Dunque, una richiesta di resa incondizionata. Ciancimino ebbe una reazione impressionante, scattò in piedi adirato e congedò l’interlocutore dicendo: “Lei mi vuole morto, anzi vuole morire anche lei, io questo discorso non lo posso fare a nessuno.”
Il 19 dicembre Ciancimino fu arrestato, in seguito risulta aver collaborato, ma, citato dalla difesa perché deponesse ai sensi dell’art. 210 c.p.p. all’udienza del 13.10.1999, si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Ciao Gianluca,
sinteticamente poi probabilmente ci ritorneremo.
- De Donno incontra, a suo dire, Vito Ciancimino tra le due stragi, poi, dopo la strage di via D’Amelio interviene Mario Mori
- chiedo "chi dice la verità" perché le date di Mori differiscono da quelle della trascrizione di Ciancimino.
Non ho espresso la mia opinione su chi dica la verità, può essere benissimo che Ciancimino abbia ricordato male. Più difficile che sia Mori a dire il falso perché ha con sé le pagine delle sua agende.
Il problema è un altro (tra i tanti): siamo sicuri che la trascrizione di Ciancimino sia autentica? aggiungo che più della trascrizione a me interessano i verbali degli interrogatori al Ciancimino. Io non li ho ma per una serie di ragioni io credo che collimino nella sostanza con quelli successivi a Mori e De Donno.
In questo stadio dell’analisi non esprimo ancora giudizi sui comportamenti dei soggetti.
Andrea
Capisco che giustamente vuoi approfondire, stessa cosa mia, ma attualmente quanto sostiene Enrix è immodificabile, sto parlando delle considerazioni fatte con il materiale che abbiamoa disposizione.
Di certo traspare una considerazione certa, è in atto un depistaggio MEDIATICO DI DIMENSIONE GIGANTI.
Gianluca
E non è neppure un’operazione troppo facile, caro Gianluca, bisogna darne atto.
Se si spinge troppo sul filone trattativa, si possono sottrarre elementi indiziari a carico di Berlusconi come mandante.
Se si spinge troppo sul movente-mandante "Berlusconi", si depaupera il filone trattativa col rischio di scagionare Mori, che è già sotto processo.
Non a caso il filone trattativa è spinto nel processo Mori, e l’altro nel processo Dell’Utri.
Di fatto sono due processi che si contendono mandanti e moventi delle stragi, con una sapiente regia mediatica che cerca di renderli compatibili e conniventi tutti e due.
Compatibili con la possibilità di esistere, ma per ora ben poco con la realtà, perchè ci sono testimnianze in contrasto fra di loro e documenti falsi che girano nelle aule di giustizia.
Eh, si. Per fare luce occorrerebbe un po’ di pulizia.
A me sembra che si stia cercando di separare le varie stragi, quelle del 92 da quelle del 93.
Berlusconi secondo le indiscrezioni viene abbinato ormai solamente alle bombe del 93.
Anche le stragi del 92 vengono separate; quella di Capaci è opera della mafia, credo che nessuno lo metta in dubbio, quella di via D’Amelio sarebbe opera dello stato.
Insomma quello che sembrava semplice, bombe di mafia, lo stanno facendo diventare una cosa complicatissima.
La strage di Capaci mi permette di fare una divagazione.
Ieri ho sentito alla radio da Cruciani le disavventure di Schifani. Credo che ad esporle fosse Flores D’Arcais, mi è sembrato che Cruciani lo chiamasse Flores o Floris, ma non mi sembrava la voce di Giovanni Floris.
Cosa sosteneva Flores? Sosteneva che in un paese civile Schifani non sarebbe neanche in parlamento perchè quando era avvocato difese il costruttore di un edificio abusivo a Palermo, questa mi è sembrata l’accusa.
E come la mettiamo con quel senatore dell’IDV che prima di essere eletto è stato il difensore di Giovanni Brusca, quello che ha messo la bomba a Capaci?
Sottosegretario alla giustizia del governo Prodi.
Se i dubbi valgono per Schifani, a maggior ragione, secondo me, valgono per Li Gotti.
Se non dubitiamo di Li Gotti, non possiamo dubitare nemmeno di Schifani.
L’avvocato che umanizza la ferocia.
Ciao, Gabriele
Non voglio entrare nel merito di date, luoghi e stragi.
Da politico in erba, vorrei fare delle considerazioni che, stante le lapallisiane manipolazioni in corso nelle procure di Palermo e Caltanisetta, mi portano a leggere i FATTI sotto altra luce, ponendomi altresì una domanda: perchè?
Perchè dei PM che già avevano indagato, interrogato, raccolto testimonianze, confessioni, già all’epoca delle due stragi (CHE NON SONO DI STAMPO MAFIOSO, PERCHE’ LA MAFIA UCCIDE NEL SILENZIO DELLA LUPARA), con processi già celebrati, sentenze già emesse, oggi a distanza di 16-17 anni dai fatti, riaprono il tutto?
Perchè dei PM danno credito a dei pentiti, già sentiti, vagliati, smentiti da processi, che fanno rivelazioni solamente di derelato, oggi hanno credito?
Perchè dei PM, perseguendo nella loro volontà di piegare anche la dimensione temporale, voglio mettere sotto lo stesso cappello, due processi, Dell’Utri e Mori, così da far contraddire le due corti chiamate a giudicare, creando una dicotomia lampante nella giustizia italiana?
Se tutti diamo la stessa risposta, allora credo che si arriverà a quello che non si riuscì di fare nel 1992 e che SB con la sua discesa in campo nel ’94 non permise e cioè all’allegra armata di instaurare un regime di allegro comunismo, in mano ai poteri forti del Britannia.
Quindi se tutto il lavoro meritorio di Enrix diviene per l’ennesima volta carta straccia, ci troveremo ancora a dover difendere, ob torto collo, uno come SB che è la negazione della politica e l’anfitrione della menzogna, ma che cmq rimane il mane minore per la democrazia italiana.
Star Joe, coffa di maestra Catania
Ciao Enrix, hai scritto che dal doc.3, la mafia voleva da Ciancimino una prova di credibilità, che aggiustasse alcune cose, probabilmente un processo… e forse proprio per questo C. voleva incontrare Violante. Non hai approfondito… Non si può ipotizzare che questo fosse un anticipo di contropartita richiesta dalla mafia? C. voleva incontrare Violante (mi pare non ci riuscì) ma chi ci dice che non abbia trovato qualcun’altro disposto ad ascoltarlo? Insomma questa frase ha attirato la mia attenzione, se la mafia ha richiesto questo tipo di garanzia vuole dire che si aspettavano fosse possibile ottenerla… tu invece l’hai buttata li senza approfondire…
Ma poi in molti punti del memoriale C. lascia intendere che secondo lui i suoi interlocutori mafiosi avevano le spalle coperte politicamente, cioè la trattativa vera non era la sua con i Ros ma un’altra che stava comunque avvenendo… tu non lo hai per niente approfondito… questo è il punto importante. Non il fatto che i Ros non c’entrano, ma il fatto che la trattativa pare esserci stata.
Ultima cosa, secondo te da chi è mosso Ciancimino junior? Perché i papelli falsi?
Luigi C.
Buongiorno sig. Enrix
stamattina ho ascoltato come il solito la rassegna stampa di radio24 ed e’ stato letto un articolo della giornalista Marcelle Padovani (spero di non sbagliarmi), autrice di un libro su Falcone, che in non so quale quotidiano in edicola oggi ha detto che Berlusconi vive nel Truman Show (testuali parole).
Ho subito pensato che magari e’ capitato su queste pagine!
Buona giornata.
Luigi (C. anch’io ma non sono quello di sopra. Sono quello del Pensatore, per capirci)
http://archivio2.unita.it/v2/carta/showoldpdf.asp?anno=2009&mese=11&file=30POL10a
Ecco l’articolo
Luigi
Ciao Enrix, volevo segnalarti un interessante articolo su democrazia e legalità
http://www.democrazialegalita.it/redazione/redazione_vere_parole_borsellino=24novembre2009.htm
Vai alla fine della pagina che ti ho linkato e clicca su link… chissà che tu non riconosca la fonte
il mio nome è Alex
Appunti 3
«La trattativa mafia Stato? Adesso c’è anche la ‘prova vocale’: alcuni nastri registrati da Vito Ciancimino, nel suo salotto di piazza di Spagna a Roma, della conversazione con l’allora colonnello dei carabinieri del Ros Mario Mori. Oggetto: le richieste di Riina allo Stato per fermare le stragi. Ma Riina venne arrestato, tradito da quello stesso Provenzano che ne avrebbe preso poi il posto, nella seconda fase della trattativa.». [1]
"Ciancimino ha anche detto di avere ascoltato le bobine che, secondo le sue iniziali tesi, avrebbero potuto contenere le registrazioni dei colloqui tra il padre e i carabinieri che, come il vicecomandante dei Ros Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, avrebbero condotto la cosiddetta trattativa tra Stato e Mafia nel periodo delle stragi del ’92.
"In realta’ - ha spiegato Ciancimino ai magistrati - quelle cassette non contengono cio’ che mi aspettavo. Comunque ho consegnato tutto il contenuto della cassetta di sicurezza in cui custodivo alcuni documenti di mio padre". [2]
[1] - Da "Le richieste di Riina nei nastri segreti di Ciancimino" di Giuseppe Lo Bianco. – Il Fatto Quotidiano - 6 novembre 2009
[2] - Da "CIANCIMINO, I PIZZINI DI PROVENZANO E IL CASO MAIORANA" - AGI News - 21 novembre 2009
Caro Enrix oggi ho letto l’articolo scritto da De Magistris sul Fatto riguardo la trattativa stato/mafia. In pratica segue il filone Travaglio e denigra i ROS spiegando che anche nelle indagini che ha svolto nelle sue inchieste poi avocate lavoravano male. A tal proposito mi ricordo di Genchi che anche lui sostenne che i ROS gli fanno la guerra come sembrassero parti deviate dello stato.
D’interessante De Magistris sostiene che su un carabiniere del ROS che collaborava con le sue indagini, la magistratura ha aperto un inchiesta. Devo dire che sul duo De Magistris/Genchi li ho seguiti molto ed in questa inchiesta Travaglio mi è sembrato più puntuale che nel caso tratattiva.
Proprio per la linearità di genchi e De Magistris faccio fatica a capire come gli stessi possano nutrire seri dubbi sui ROS e nello specifico De Magistris avalla le ricostruzioni che non stanno assolutamente in piedi.
La mia domanda è questa, cosa pensi Enrix si tratta di essere riconoscente per il fatto che Travaglio è uno dei pochi a non averlo lasciato solo e quindi De Magistris segue questa pista conoscendo non in modo approfondito tutto, oppure è solo una questione politica ed ora eletto nelle file di IDV si è ben immedesimato nel gioco dei ruoli?
O c’è dell’altro?
Gianluca
Tutte e due le cose che hai detto.
Di come lavorassero i ROS cercando di catturare Provenzano nonostante gli amici di Travaglio in procura avvisassero i mafiosi dell’inchiesta e delle cimici, abbiamo un esempio documentale e "in diretta", che dimostra quante balle ci può propinare anche uno come Genchi.
Questo:
http://cronachedallimbecillario.splinder.com/post/20610394#20610394
Su Travaglio-De Magistris, stendiamo un pietoso velo.
In pratica ciò che è accaduto, è questo.
De Magistris ha indagato per mesi sui suoi due filoni, e tutti l’han lasciato abbastanza tranquillo. Poi ha iscritto Prodi sul registro degli indagati.
Davanti ai PM di salerno ha dichiarato che l’iscrizione di prodi è stato il motivo per cui è stato attaccato e per cui gli hanno tolto l’inchiesta, con la motivazione che indagava a UFO, senza elementi e solo insinuando sulla base di un’enorme mole di incroci di tabulati e carte, la maggior parte non probatori, col rischio di sputtanare e calunniare cariche istituzionali senza ragione.
Travaglio ha fatto a quel punto una cosa molto divertente: ha preso le difese ad oltranza di De magistris, scrivendo però contemporaneamente che Prodi era innocente, non c’entrava nulla, ed era indagato solo come atto dovuto. Cioè dando ragione nel merito a chi criticava De Magistris, sostenendone l’argomento principale.
Un delirio logico, praticamente.
Film visto ed anche il post già letto tutto in precedenza, tutto INTERESSANTISSIMO, grande Enrix.
Si hai ragione sulle posizioni pro Prodi (tra l’altro oggi definitivamente uscito di scena dall’inchiesta Why Not)) di Travaglio, successivamente però non ho notate troppe incongruenze.
Sullo stesso è complicato capire se lo fa per i suoi fan, seguendo questo filone è diventato famoso e ricco e naturalmente continua.
Se lo fa in buona fede per seguire un certo filone di amicizie che lo hanno rincitrullito, di conseguenza quando altera i significati delle cose che scrive e sostiene e perche deve far tornare ogni ragionamento di cui lui stesso e’ vittima.
Se lo fa in cattiva fede e qui la cosa sarebbe assai grave, le possibilità possono essere due:
1- Per il suo successo economico e personale seguendo i numerosi lettori che lo hanno elevato a dio dei giornalisti d’inchiesta, come ho scritto sopra.
2- Che ha dietro qualcuno.
Riguardo alcuni grossi scandali Italiani vedo spesso le medesime impostazioni. Ti cito tre argomenti che conosci molto bene, Ustica, Mitrokin, ed accuse a Mori e Ultimo.
USTICA- Su Ustica nessuna verità, si vuol far credere all’opinione pubblica che hanno nascosto LA VERITA’ e precisamente il missile proveniente dalle esercitazioni o dalla presunta volontà di colpire Gheddafi (queste sono le due piste più accreditate), L’OINIONE PUBBLICA HA QUESTA IDEA NELLA TESTA, CIA AMERICA PATTO NATO, e le attenzioni e le vere ragioni sono state deviate.
MITROKIN- Relazioni finali mai firmate da tutti i componenti e COMMISSIONE COMPLETAMENTE UCCISA con la deleggittimazione di Scaramella, ANCHE QUI OPINIONE PUBBLICA CHE CONCENTRA L’ATTENZIONE SUL FATTO CHE NON ESISTONO VERITA’ INTERESSANTI ed invece conosciamo bene cosa c’è sotto.
PROCESSO MORI ULTIMO- Anche qui i fatti sono scritti, chiari, IMMODIFICABILI, MA PARTE DELL’OPININIONE PUBBLICA ci vuol far credere il contrario, riuscendoci e facendo passare le cose al contrario.
Tre argoment delicati e tre volte su tre, quello che trapela nell’immaginario collettivo intelligentemente manovrato dai media, E’ UNA FALSA NOTIZIA, CHIARAMENTE FALSA E CONTRAFFATTA che poi sarà utilizzata per altre ragioni a piacimento.
Tra l’altro sul rapporto Prodi/Travaglio non sono riuscito mai a trovare nulla negli articoli di Travaglio che lo ficchi in mezzo a qualche fatto torbido o qualche contestazione anche politica, MAI. Con la sx Travaglio è spesso cattivo sopratutto ora che Prodi non c’è più, mi sbaglio io o è un impressione esatta? E se è giusta l’intuizione cosa lega Travaglio a Prodi?
Come lo stesso ha trattato Guzzanti sulla commissione è stato veramente incredibile, possibile che un giornalista d’inchiesta come Travaglio nonabbia voluto approfondire un minimo la vicenda? NO VOLEVA SOLO INSABBIARE E QUESTO MI RENDE MOLTO PERPLESSO.
Che ne pensi?
Ti ringrazio
Il vizietto.
Ed ora, tanto per cambiare, parliamo di Marco Travaglio.
Lo abbiamo già fatto ieri sull’altro blog, quello più ridanciano, ma oggi tocca rivedersela col giornalista torinese, e questa volta in argomento di mafia.
Nonostante questo sia il tema centrale di questo blog, devo confessare che sono rimasto a lungo nel dubbio se dedicargli uno spazio in questa sede, o ancora una volta nelle cronache del variopinto mondo dell’imbecillario.
Il fatto è che ormai Travaglio, nel raccontare a modo suo le cose, ha talmente abbandonato ogni ritegno, che letteralmente non sappiamo se, leggendolo quando si applica in argomenti seri come le stragi di mafia, ridere o piangere.
L’allegria vorrebbe portarci a scrivere dall’altra parte, ma la mestizia alla fine prevale.
E dunque veniamo al dunque.
Ieri ho buttato l’occhio su un lungo articolo di qualche giorno fa, dal titolo “Alfonso Sabella, un giudice stritolato dalla Trattativa”, pubblicato sul “Fatto quotidiano”, ed immediatamente ripreso a rimbalzo su tutto il web.
E dico “buttato l’occhio”, perché più che leggerlo integralmente, l’ho scansionato dall’alto in basso con le pupille, per alcuni secondi, soffermandomi su alcuni passaggi in grassetto. Tre o quattro passaggi, non di più.
Di più non ce la faccio proprio a sorbirmi certi concentrati. Non ho più l’età.
Ma comunque, tanto è bastato per rilevare subito un paio delle solite porcherie.
Una bella grossa balza subito all’occhio fra le prime righe.
Travaglio introduce l’argomento dell’articolo, che è un piccolo trattatello celebrativo della figura del magistrato Alfonso Sabella, uno che, tanto per chiarirla subito, “dei ROS non si fida”, e che quindi “li ha tenuti sempre lontani dalle indagini sulla cattura dei latitanti”.
Dal che, noi che siamo segugi, deduciamo tranquillamente, senza riserva di verifica, che le indagini del 2001-2002 volte a scovare Provenzano sulla base delle indicazioni del pentito Giuffrè, e che hanno invece prodotto, proprio a causa delle loro soffiate, soltanto l’arresto delle “talpe in procura” fra cui l’amico di Travaglio, Pippo Ciuro (braccio destro di Ingroia), il quale teneva informato l’Ing. Aiello (braccio finanziario di Provenzano, arrestato anche lui dai ROS e poi condannato ad un bel po’ di anni di carcere per associazione mafiosa) delle indagini avviate dai ROS e dei dispositivi di controllo telefonico ed ambientale impiegati da questi per sorvegliare Aiello, il boss Guttadauro, e la famiglia mafiosa Eucaliptus, custode a Bagheria del segreto del covo di Provenzano, quelle indagini lì insomma, ai ROS non può avergliele affidate Sabella, perché lui dei ROS non si fidava, mentre invece magari della DIA di Pippo Ciuro si fidava.
A dire la verità a dare una mano ad Aiello, insieme a Ciuro, provvedeva anche Totò Cuffaro, che per quella vicenda è stato condannato, sempre su denuncia dei ROS di cui invece Sabella non si fida, perché li ritiene intrallazzati con i politici nel promuovere la famosa “trattativa” fra Stato e mafia. Evidentemente però fra i politici che intrallazzavano con i ROS, Cuffaro non c’era, perché i ROS non ci hanno pensato due volte a intercettarlo, coglierlo in castagna e denunciarlo.
Ma torniamo al nostro Marco T. Dunque egli è un grande ammiratore di Alfonso Sabella, magistrato che peraltro, stanti i suoi numerosi successi nella cattura di pericolosi latitanti, non possiamo che stimare pure noi.
E parlandoci di Sabella, Marco ci spiega subito che “è proprio davanti a lui che Giovanni Brusca mette a verbale le prime dichiarazioni sulla trattativa del Ros con la mafia che, disse l’esecutore materiale della strage di Capaci, produsse quella di via d’Amelio perché “siamo stati pilotati dai Carabinieri”
Allora, vediamo se disse proprio così, Giovanni Brusca.
Ce lo chiarisce lo stesso Sabella, in un’intervista del 22 luglio scorso:
“le dichiarazioni di Riina non sono per niente, a mio giudizio, diverse da quelle che fece Giovanni Brusca deponendo al processo per le stragi nel ’93 nell’aula bunker di Firenze quando disse, gli scappò una frase che poi spiegò: "Noi nel commettere le stragi del ’93 siamo stati pilotati dai carabinieri". Brusca non voleva dire che sono stati i carabinieri a far fare le stragi ma è un messaggio assolutamente analogo a quello che Riina manda adesso. Secondo me con la mafia non c’è spazio per andare a nessun tipo di trattative e a nessun tipo di rapporto.”
E quindi, a parte il fatto già di per sè volpino e grottesco di sostenere che Brusca abbia messo a verbale le sue "prime dichiarazioni sulla trattativa del Ros" "proprio davanti a lui", ed indi citare una di queste dichiarazioni che invece appartiene ad una deposizione di Brusca resa nell’aula-bunker di Firenze, antecedente al primo incontro fra Brusca e Sabella (rob de mat), bisogna altresì prender atto che lo stesso Sabella nella stessa intervista precisa che anche il solo trattare con alcuni mafiosi, può comportare una responsabilità, pur non penale, perlomeno morale, anche perché in quel modo si darebbe stimolo, anziché il contrario, ai mafiosi di compiere le stragi per esercitare il ricatto.
In quel senso secondo lui, intendeva parlare Brusca quando ha parlato di “pilotaggio dei carabinieri” Per “pilotati” si intende “condizionati” ad agire in un certo modo dal contesto della trattativa, o magari dal suo esito negativo, senza che si configuri necessariamente una coscienza precisa da parte dei carabinieri della gravità del condizionamento in atto.
Scritta come l’ha scritta Travaglio, si capisce tutt’altra cosa (pare quasi che la strage di Via D’Amelio sia stato un tour organizzato dall’arma benemerita), ma non è soltanto questo il punto grave.
Ciò che è invece grave, gravissimo, è il “lavoretto” che fa Travaglio con le parole di Brusca,.
“Giovanni Brusca mette a verbale le prime dichiarazioni sulla trattativa del Ros con la mafia che, disse l’esecutore materiale della strage di Capaci, produsse quella di via d’Amelio perché “siamo stati pilotati dai Carabinieri”
Eh già, siamo alle solite. Travaglio è già stato condannato una volta, in un tribunale, per aver manomesso una frase di Riccio in maniera da imputare a Previti un reato non commesso.
E qui è lo stesso.
La frase intera, “scappata” a Brusca, era: "Noi nel commettere le stragi del ’93 siamo stati pilotati dai carabinieri"
Vi pare una differenza di poco conto?
Se Marco l’avesse riportata giusta, anziché con il cammuffo, avrebbe dovuto scrivere che Giovanni Brusca dichiarò a Sabella che “la trattativa tra mafia e stato produsse la strage di Via D’Amelio, perché nel commettere le stragi del ’93 siamo stati pilotati dai carabinieri”, e ci saremmo fatti tutti una bella risata, perché, per chi non lo sapesse, la strage di Via D’amelio è del luglio 92 .
Giovanni Brusca precisa evidentemente “del 93” per escludere che quelle del 92 siano state effettuate sotto condizionamento della trattativa. Solo quelle del 93.
Travaglio, con il solito taglietto, e la solita frasetta aggiunta, ci fa credere il contrario, anzi arriva a precisare ipocritamente che Brusca abbia indicato proprio la strage di Via D’Amelio come effettuata sotto il condizionamento dei ROS.
Una vera e propria mascalzonata.
Insomma, proprio non se lo toglie, Travaglio, ‘sto vizietto del cammuffo.
Passiamo oltre.
“Oggi la trattativa Stato-mafia e il “papello” sono sulla bocca di tutti. Ma quando Brusca ne parlò diffusamente davanti a Sabella, era la prima volta in assoluto. Il boss pentito vi aveva già accennato il 10 settembre 1996 dinanzi ai pm di Palermo, Caltanissetta e Firenze. Vi aveva fatto di nuovo cenno il 21 gennaio 1998 davanti alla Corte d’Assise di Firenze che stava processando mandanti diretti ed esecutori materiali delle stragi del 1993. Subito dopo fu preso a verbale da Sabella, il 23 febbraio 1998, poi il 22 aprile dello stesso anno e infine il 19 marzo 1999. Gli parlò diffusamente del papello consegnato da Riina al Ros fra Capaci e via d’Amelio.”
Eh…. però, è davvero importante convincerci che il papello e la trattativa, ecc…ecc…tutto avvenne fra Capaci e Via D’Amelio. E già. Così diventa il movente della strage di Via D’Amelio, e le inchieste scottanti su cui aveva ormai le mani Borsellino, passano in cavalleria. Guarda un po’.
Veramente però, caro Marco, non sono stati solo due, i cenni di Brusca alla trattativa, ed invero non erano proprio solo dei cenni.
Brusca aveva parlato altre volte, e schiettamente del papello e della trattativa.
E soprattutto, dotando le sue deposizioni di precise, dettagliate e rilevanti circostanze.
Lo aveva fatto anche a Caltanissetta, nell’aula bunker, il 28 marzo 97 (di quel cenno lì, te n’eri dimenticato, eh?), dove aveva dichiarato che dopo quelle di Capaci e via D’Amelio, Riina penso’ ad una terza apocalittica strage. "E sarebbe bastata quella per vincere la guerra con lo Stato", Ma un "patto" fermo’ la terza strage. (nota bene: la terza, non la seconda. Via D’Amelio era la seconda – ndr) Un patto stipulato con "uomini delle istituzioni" tramite "qualcuno". "finalmente qualcuno s’ era fatto vivo" Riina "Consegno’ a "qualcuno" due fogli con le richieste per abolire il carcere duro ed altro". (corriere della sera – 29 marzo 97)
Anche nel gennaio 98, al processo per strage al tribunale di Firenze, (uno dei “cenni” citati da Travaglio), Brusca dice la stessa cosa:
“"Dopo gli attentati a Falcone e Borsellino, Riina mi disse: "Si sono fatti sotto, pensa si sono mossi anche i servizi segreti per arrestarmi. Io gli ho presentato un papello di richieste lungo così e ora sto aspettando". Era l’ estate del ‘ 92 e per questo mettemmo un fermo agli attentati in attesa della risposta dello Stato". (Repubblica — 14 gennaio 1998 pagina 12)
Dunque qui Brusca non parla di “papello consegnato da Riina al Ros fra Capaci e via d’Amelio” ma di un papello consegnato dopo Via D’amelio da Riina con le sue richieste, e per le quali aspettava una risposta mettendo un fermo agli attentati .
La cronologia suggerita da Travaglio, soddisfa invece la tesi di oggi dei PM di Palermo, che vorrebbe realizzata la strage di Via D’Amelio per sollecitare una risposta positiva al papello, accelerare la trattativa, ed eliminare comunque un magistrato che avrebbe potuto contrastarla.
Peccato però che sin qui Brusca aveva detto tutt’altro, e con dettagli a corredo (lo stop al terzo attentato dopo la presentazione del papello).
E sin qui siamo a metà gennaio del 98. Ora, io non so esattamente cosa disse Brusca a Sabella il 23 febbraio 1998, poi il 22 aprile dello stesso anno e infine il 19 marzo 1999. Non dispongo dei verbali, purtroppo. E Travaglio, sempre così documentato e documentante, non ci riferisce neppure una parola di quei verbali.
So però che se ha veramente parlato di un “papello consegnato da Riina al Ros fra Capaci e via d’Amelio”, allora vuol dire che, per fare inversione ad “U” nella sua versione dei fatti, ha impiegato circa un mesetto. Chissà che sarà successo a Brusca, in quel mesetto, così da convincerlo a smentire sé stesso così visibilmente.
Certamente Sabella, così preciso, nei verbali di deposizione si sarà fatto dettagliatamente illustrare, da Giovanni Brusca, le ragioni che lo hanno portato, nel giro di un mesetto ed in due diversi tribunali, a fornire delle versioni non coincidenti fra di loro, ed anzi diametralmente opposte, confessando praticamente di aver detto il falso nelle aule giudiziarie dove si celebravano i processi per le stragi, ancora sino a poche settimane prima.
Peccato non averli, quei verbali.
Passiamo oltre.
C’è un “Atto II”, nell’articolo di Travaglio, dal titolo “ROS CONTRO LO FORTE”.
Si tratta di un argomento che tratterò in un articolo che ho in preparazione già da alcuni giorni, e pertanto rettificherò Travaglio sulle cose da lui scritte a tal proposito, in quella sede, poiché si tratta di una vicenda complicata, e non certo semplificabile come ha semplificato qui Travaglio, e qui non voglio fare anticipazioni.
Mi richiamo però, per il momento, alle prime parole di Marco, dove avrei qualcosa da dire subito:
“Le coincidenze non sono finite: sempre nell’ottobre del 1997, mentre sono in corso gli arresti dei tre pentiti provenzaniani e del loro gruppo di fuoco, il capitano del Ros Giuseppe De Donno si reca a Caltanissetta a denunciare il vice di Caselli, Guido Lo Forte, accusandolo di aver passato nel 1991 il rapporto del Ros su “Mafia e appalti” ad alcuni politici e mafiosi, fra cui Salvo Lima, e di averlo poi insabbiato. La fonte di De Donno è Angelo Siino, già ministro dei lavori pubblici di Riina, a lungo confidente del Ros e poi ufficialmente “pentito” dal 1997. Accuse e veleni da prendere con le molle, ovviamente. La Procura di Caltanissetta, diretta da Giovanni Tinebra, iscrive Lo Forte sul registro degli indagati. Un atto segretissimo, che però una fuga di notizie ben pilotata divulga al quotidiano La Repubblica proprio il giorno prima della prima udienza del processo Dell’Utri, il 5 novembre 1997. Notizia vera, ma concentrata tutta sul nome di Lo Forte, mentre insieme con lui sono indagati anche altri colleghi, dall’ex procuratore Pietro Giammanco al suo fedelissimo Giuseppe Pignatone. Così quel mattino, mentre si apre il processo al braccio destro di Berlusconi, tutti parlano dell’inchiesta sul braccio destro di Caselli. I fatti si commentano da sé.”
E dunque vediamo, controlliamo, che cosa scrisse Repubblica il 5 novembre a seguito delle notizie fuggite in modo così ben pilotato verso la sua redazione:
“Oggi la storia di quei colloqui è agli atti della Procura di Caltanissetta. Con un passaggio destinato a provocare più di una polemica. Racconta pressappoco De Donno: "Siino mi spiegò che nei primi mesi del 1991 entrò in possesso della nostra informativa sugli appalti. Mi disse di averla ricevuta da alcuni magistrati della Procura di Palermo. E mi fece i nomi: l’ allora Procuratore Pietro Giammanco e due sostituti, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone". (ed ecco lì, come l’articolo di Repubblica è tutto incentrato su Lo Forte anziché anche sui suoi colleghi Giammanco e Pignatone. Ormai si va un tanto al chilo. – ndr) Giammanco, dall’ estate 1992, lavora in Cassazione. Lo Forte, sei anni fa semplice sostituto, oggi è il Procuratore aggiunto di Palermo, il titolare delle inchieste di mafia più delicate, il Pm in aula dei processi Andreotti e Dell’ Utri. Pignatone, invece, ha smesso di fare il pubblico ministero ed è attualmente alla Procura presso la Pretura. Siino confidò al capitano De Donno anche i dettagli di quel passaggio di documenti. De Donno li ha puntualmente riferiti. Fin qui i dettagli sui verbali di Caltanissetta. Ma perché il capitano ha deciso di parlare proprio oggi e in quella città anziché a Palermo? E soprattutto: che cosa ha riferito il pentito Siino sullo stesso episodio? Eccoci al retroscena. Ai Pm del capoluogo siciliano Siino ha raccontato un’ altra verità. Ha ammesso di essere riuscito a mettere le mani sul dossier del Ros. Ma ha fornito una versione diversa rispetto a quanto raccontò a De Donno nel 1993. Siino non ha parlato di fonti della Procura, bensì di "altri referenti" che gli passarono quelle mille pagine. Aggiungendo un dettaglio destinato a rendere ancora più incandescente il rapporto tra Pm e carabinieri. Ha detto Siino: "Anche il maresciallo Antonino Lombardo era disposto a offrirmi il rapporto. Mi fece vedere un malloppo di pagine. Ma io gli risposi che quei documenti già ce li avevo. Gli diedi comunque cinque milioni per il figlio malato".
Quindi la fuga di notizie ben pilotata che secondo Travaglio ha sollevato uno scandalo “ad orologeria” relativo ad un’iniziativa dei carabinieri volta a colpire Lo Forte, PM del processo Dell’Utri che proprio in quei giorni stava iniziando, Repubblica ce la riporta scrivendo che c’era un pentito che aveva appena riferito ai PM che il dossier “mafia e appalti” non era stato consegnato ai mafiosi da Lo forte, ma da altri referenti, e proposto tra l’altro anche da un maresciallo dei carabinieri.
Strano modo di colpire Lo Forte “ad orologeria”, hanno questi carabinieri. Anche perché, se a passare a Repubblica lo “scoop” segretissimo fossero stati i carabinieri o informatori ad essi vicini, anziché personale della procura, certamente Repubblica non ce lo avrebbe mai rivelato. E come no.
Specialmente il dettaglio sulle deposizioni segretissime rilasciate da Siino ai PM, arriva dai carabinieri di sicuro, anziché dalla procura. E ricome no.
E veniamo al gran finale.
Travaglio ad un certo punto apre un virgolettato, ed attribuisce a Sabella, a proposito della “dissociazione” da “Cosa nostra” richiesta da alcuni mafiosi nel 2000, queste parole: “.Decidemmo così di opporci alla dissociazione. Fassino sposò la nostra linea e la comunicò a Vigna”. Appena la notizia trapelò sui giornali, la Procura di Palermo entrò in subbuglio: il procuratore Grasso sapeva, ma non aveva detto niente ai suoi sostituti. Così fu costretto a dichiararsi pubblicamente contrario alla dissociazione dei boss.”
Da questo virgolettato, inserito da Travaglio nel suo articolo ed attribuito al suo paladino Sabella, nasce una querelle, che viene riassunta in una lettera-esposto del procuratore Grasso all’ordine dei giornalisti, che qui riportiamo per intero:
Lettera inviata dal procuratore nazionale antimafia all’Ordine nazionale dei giornalisti e le risposte di Marco Travaglio e del direttore del Fatto Quotidiano Antonio Padellaro
Al presidente dell’Ordine dei giornalisti
Gentile presidente,
come forse Lei saprà, non è mia abitudine mantenere un regime di conflittualità coi giornalisti, anche perché sono consapevole delle difficoltà insite nel mestiere di cronista.
Per questo motivo mi sono sempre astenuto dalle querele o da altre iniziative giudiziarie, nella presunzione che gli errori commessi dai cronisti fossero, come dire “assolvibili” per assenza di malafede.
Rimango sconcertato, però, nel verificare come talvolta questa “assenza di malafede” possa essere messa in dubbio dallo stesso evolversi dei fatti.
L’edizione del Fatto Quotidiano di martedì 10 novembre ha pubblicato, a firma di Marco Travaglio, un articolo, dal titolo “Un giudice stritolato dalla trattativa”, che riguardava, fra l’altro, i tentativi di far passare provvedimenti legislativi in favore di una presunta “dissociazione” dalla mafia di alcuni detenuti al 41 bis. La fonte di tale articolo, – una fonte dichiarata –, era l’ex pm Alfonso Sabella. Tra le tante notizie e interpretazioni di fatti accaduti in tempi non recentissimi, l’articolo riportava una frase secondo cui, pur conoscendo tali tentativi, non avrei mai informato né consultato i miei sostituti (allora ero procuratore a Palermo), e avrei – invece – pubblicamente manifestato la mia contrarietà solo perché costretto dai colleghi, che intanto avevano scoperto il tutto ed erano entrati in “subbuglio”. Il tenore della frase lasciava, quindi, chiaramente intendere al lettore che io sarei stato nascostamente favorevole a tale “dissociazione”.
Della mia pronta reazione, manifestatasi con due note Ansa delle 14:30 e delle 14:33 dello stesso giorno (Grasso, sempre contrario a qualsiasi ipotesi di dissociazione), il giornale, mercoledì 11 novembre, dava contezza ai suoi lettori, attribuendo, però, la responsabilità della frase al magistrato Alfonso Sa-bella (anche se contenuta in parti non in corsivo né virgolettate) e sminuendone il senso e la portata solo al fatto che io, al corrente della trattativa sulla dissociazione, non ne avessi informato i sostituti del mio ufficio.
Tale ricostruzione veniva smentita, non da me, ma dallo stesso Alfonso Sabella, che aveva invece chiaramente testimoniato la mia avversione alla “dissociazione sin dal primo momento”. Mi sarei aspettato dal Fatto Quotidiano una leale smentita con una evidenza proporzionata alle due pagine del giorno 10. Oggi, invece, leggo la seconda puntata dell’inchiesta senza nessun riferimento alle modifiche – sostanziali – dichiarate dallo stesso Alfonso Sabella. In fondo al giornale, tra le lettere, ho poi scorto una confusa smentita sotto il titolo “I nostri errori” che precisa: “Sono state attribuite al dott. Sabella parole ascrivibili invece all’autore dell’articolo”. Parole ascrivibili? Ma le parole dell’autore non erano forse notizie date per certe? E se è così, qual era stata la fonte dell’autore, visto che non si trattava di Sabella? Le poche righe pubblicate, inoltre, ancora una volta, limitano la smentita all’aspetto che riguarda la presunta mia conoscenza dei fatti e non già la assodata contrarietà alla “dissociazione”.
Insomma un pasticcio che non rende giustizia alla verità dei fatti.
Perché sottopongo tutto ciò al presidente dell’Ordine dei giornalisti? Perché non è la prima volta che vengo sottoposto ad attacchi personali – sempre dallo stesso giornalista – senza nessun intervento ragionevole, per esempio dei direttori che hanno pubblicato e pubblicano senza esercitare alcun controllo. Mi rivolgo a Lei che, nell’esercizio delle sue funzioni di garante e tutore della deontologia professionale dei suoi iscritti, certamente saprà trovare il modo di trasferire ai suoi colleghi i motivi del mio disagio.
La ringrazio per l’attenzione
Pietro Grasso
Per dirla quindi alla maniera di Travaglio, il fatto si commenta da sé.
La rettifica di redazione del “fatto quotidiano”, è spettacolare:
“Sono state attribuite al dott. Sabella parole ascrivibili invece all’autore dell’articolo”.
Traduzione: Non era una palla di Sabella, ma una palla di Travaglio inserita a valle di un virgolettato che starebbe ad indicare un fedele riporto del pensiero e delle parole del Dott. Sabella, e che invece non lo era affatto.
Pura sfrontatezza?
Mera mancanza di pudore?
Piena convinzione di avere per lettori degli imbecilli?
Mah, mistero. Uno dei tanti misteri d’Italia.
enrix
COMUNICATO DI ELIO VELTRI AD ANTONIO PADELLARO
Roma 01/12/09
Caro Padellaro,
apprendo con vivo stupore di essere uno degli autori del pezzo: “Imputato Berlusconi chi le ha dato quei soldi?…” pubblicato in data odierna a pg. 4 del giornale da te diretto: “Il Fatto Quotidiano”.
Con altrettanto vivo stupore apprendo, sempre dal tuo giornale (pg. 4 ultime cinque righe dell’articolo “Nascita di Fininvest”), che venerdì prossimo, 4 dicembre, nella sala della Stampa Estera, presenterò la nuova edizione de “L’Odore dei soldi” insieme all’altro autore, a Furio Colombo ed a Carlo Freccero.
Tanto premesso ti comunico:
1 non sono l’autore delle righe che hai pubblicato;
2 non ho alcuna notizia di una mia presentazione de “L’Odore dei soldi”;
3 la nuova edizione de ”L’Odore dei soldi” è avvenuta a mia insaputa con modifiche e capitoli aggiunti non concordati con me.
In proposito, ho già dato mandato ai miei legali di perseguire nelle opportune sedi giudiziarie questa pubblicazione non autorizzata.
Ti invito a pubblicare, con ogni urgenza, questa mia precisazione, fatta salva ogni azione di legge.
Cordialità
Elio Veltri
=========
Moritz
siamo alla frutta insomma: si virgolettano dichiarazioni liberamente interpretate o addirittura inventate pur di accreditare un proprio convincimento.
se questo è un giornalista…!?
comunque, Enrico, ancora una volta complimenti.
resto in attesa del prossimo pezzo del Segugio…
più che alla truffa, siamo alla frutta.
Travaglio, sei un odioso manipolatore, finiscila!
Ho letto con attenzione l’interessante articolo, ma schifavo talmente tanto Travaglio, che è difficile schifarlo di più!!! Grande come sempre Vittorio!
Ma il fatto che, secondo Brusca, le stragi del 93 siano state pilotate dai Carabinieri non è meno grave che se fosse vero come scritto da Travaglio… mi pare un semplice refuso che nulla aggiunge e nulla toglie…
Ciao Enrix,
ti segnalo che uscirà tra poco tempo la nuova edizione de "L’odore dei soldi".
Ti ho lasciato un commento su cronache dall’imbecillario, nell’ultimo tuo articolo sul rinvio a giudizio di Travaglio per la questione della bimba bielorussa.
ciao
Moritz
Anonimo del "refuso" (minchia, che faccia tosta, ma lo sai cos’è un refuso? Significa battere un tasto al posto di un altro in tipografia, per una svista. Quando si viaggiava col piombo, i refusi li facevano i tipografi, sui testi dei giornalisti. Con l’introduzione dei PC e dgli ipertesti, i refusi sono poi passati tutti alla mano dei giornalisti. Con l’arrivo di Travaglio, i refusi si sono allargati a frasi intere sostituiti da altre frasi che cambiano la realtà dei fatti. Diciamo che è l’entropia, è nella natura) e del "nulla aggiunge e nulla toglie", hai ragione.
Anche se un giornalista scrivesse che gli americani l’atomica di Hiroshima l’han buttata prima di Pearl Harbor, nulla aggiungerebbe e nulla toglierebbe, non trovi?
Si tratta comunque della stessa bomba che ha fatto un disastro dell’umanità. Quindi perchè non scriverlo? Son refusi.
Eh, si, hai proprio ragione.
La storia non cambia, anticipando un fatto di un anno.
A parte il cambiare il volto dei mandanti di una strage e cambiarne il movente.
Inoltre non hai capito un acca su cosa intendeva dire Brusca con "pilotati".
Rileggi e studia.
Il fatto è che Brusca ha detto che la mafia è stata pilotata dai carabinieri, poi può benissimo esserselo inventato, ma lo ha detto. Che sia stata pilotata nel 92 o nel 93 cambia poco, sempre stragi sono. Potrebbe benissimo essere un errore (se non ti piace refuso) che può commettere chiunque, o potrebbe essere fatto di proposito per dare maggiore risalto alla cosa, sempre un dettaglio rimane, non mi interessa avere un giudizio morale di Travaglio mi interessa capire volta per volta se quello che dice è vero e quasi sempre lo è, a parte i dettagli.
Luigi Cigarini
Per la parola "pilotati", io semplicemente non ci credo che i Carabinieri abbiano pilotato nulla qualunque cosa voglia dire. Io credo che chi "pilotava" o trattava stava più in alto, in politica.
Allora guarda Cigarini, se ti interessa davvero capire se ciò che dice Travaglio è vero, sappi che questa volta è tutt’altro che vero.
Travaglio si è trovato davanti ad una citazione ghiotta, ghiottissima da riportare in un articolo. Un virgolettato di Brusca, letto da lui come da me alcuni mesi fa nell’intervista a Spatola su Antimafia2000, troppo bello, irresistibile, perchè Brusca da buon semianalfabeta aveva detto "siamo stati pilotati dai carabinieri" non trovando termini più proprii per significare che l’occasione dei colloqui fra Ciancimino e i ROS aveva acceso nella mafia l’idea e la speranza che lo Stato, sottoposto ad attentati, potesse scendere a patti.
Così interpreta Spatola, e può avere anche ragione.
Naturalmente per Travaglio l’occasione è ghiotta a condizione di non spiegare questo, lasciando invece quella frase tale quale cosicchè chi legge prendendola alla lettera possa avere quella bella sporca sensazione di pilotaggio, di direzione attiva degli attentati per mano dei carabinieri. Tanto la sua è una classe di lettori che con lui si ferma in superficie e che a porsi qualche dubbio, anche solo per il fatto che pare davvero troppo grossa, non ci pensa nemmeno per la fava.
Ma c’è un problema.
Quella frase, così com’è, mentre nella sua seconda parte lorda per bene la nomea dei ROS e quindi è perfetta per gli scopi, nella sua prima parte è una tragedia. Già, perchè se Brusca ha detto che il condizionamento è avvenuto per "le stragi del 93", dalla logica (conosci?) discende che per quelle del 92 questo condizionamento, secondo Brusca, non c’è stato.
E quindi il movente o comunque l’acceleratore della strage di Palermo non è la trattativa, ma è per forza qualcos’altro, visto che nel 92 la trattativa, a detta dei mafiosi pentiti, non li ha condizionati.
Ora, caro Cigarini, non è che per caso ti sei reso conto che negli ultimi tre mesi saranno usciti un cinquecento articoli di stampa che poggiando sull’esistenza dei papelli e delle più recenti affermazioni di Ciancimino Jr, nonchè di presunte (presunte perchè ce ne viene riferito, ma in foma testuale io non le ho mai lette) dichiarazioni di GiovanniBrusca, ci vogliono far credere che la trattativa dei ROS ha determinato la mafia a far fuori Borsellino?
No, forse non te ne sei reso conto. Invece Travaglio se n’è reso conto, ma per lui non è un problema. E quindi per non scrivere qualcosa che possa sollevare qualche dubbio sulla bufala dell’anno, a lui non costa niente pensare bene di sostituire ex abrupto e senza farsi tanti scrupoli le parole "le stragi del 93" con "la strage di Via D’Amelio", così, grazie al cammuffo di un piccolo baffo d’inchiostro, tutto torna a posto, ed i ROS tornano ad essere il motorino d’avviamento della strage di Via D’Amelio, quando invece secondo Giovanni Brusca, non lo erano.
Ma lui può farlo, lui è Travaglio, l’unico che quando commette una simile porcheria anzichè offendere e fare dubitare i suoi lettori, se li ritrova tranquillo a difendere la bufala insieme a lui con ancor meno dignità dell’autore malandrino.
Quindi Cigarini, chiariamo subito una cosa. Siccome tu non sei cretino, ed io lo so benissimo, comunicami magari se hai capito sino a questo punto ciò che ho scritto e confermami i tuoi naturali dubbi conseguenti, perchè qualsiasi persona onesta e in buona fede in un caso come questo se li pone eccome.
Si tratta di un’oggettiva manipolazione cosciente, non è dimostrabile in alcuna forma il contrario, e se tu vuoi continuare a sostenere che è un refuso involontario, fammi la cortesia di andarlo a scrivere da un’altra parte perchè qui gli ipocriti non son graditi.
Ma sono certo che non sarà così
Ed ora veniamo alla "moralità" del comportamento del ROS, in relazione alle stragi del 93, che è il problema che hai posto tu, anche se non c’entra nulla con le manipolazioni giornalistiche.
Purtroppo anche qui, scrivere "Che sia stata pilotata nel 92 o nel 93 cambia poco, sempre stragi sono.", significa scrivere comunque una sciocchezza, e ti spiego perchè.
NE’ IO NE’ TRAVAGLIO STIAMO SCRIVENDO E DISCUTENDO DI GIUDIZI MORALI SU CIO’ CHE E’ PRESUNTO O PUO’ PRESUMERSI DALLE DICHIARAZIONI DI UN PENTITO, IN MERITO ALLE CONSEGUENZE ESECRANDE, PUR INVOLONTARIE, CHE SECONDO BRUSCA HANNO CAUSATO I CONTATTI CON I ROS SULLE STRAGI DEL 93.
NO CIGARINI. A TRAVAGLIO, COME AL SOTTOSCRITTO, INTERESSANO SOLO LE VICENDE E GLI ATTI GIUDIZIARI, CHE IN QUESTO MOMENTO REGISTRANO UN ALACRE LAVORIO PER DIMOSTRARE CHE I ROS HANNO LA RESPONSABILITA’ MORALE DELLA MORTE DI BORSELLINO E QUELLA PENALE DELLA LATITANZA ASSISITITA DI PROVENZANO, E SON QUELLE LE COSE CHE PER IL MOMENTO INTERESSANO A TRAVAGLIO E AI MAGISTRATI, PER CUI DELLE STRAGI DEL 93 SE NE PARLA ANCORA POCO O NULLA. E LO SAI PERCHE’?
PERCHE’ UNA MAFIA CON A CAPO UN PROVENZANO DIVENUTO CAPO PER SUDICI SEGRETI ACCORDI CON I ROS SULLA TESTA DI RIINA E QUINDI LIBERO PERCHE’ ASSISTITO NELLA LATITANZA DAGLI STESSI ROS, (CHE E’ IL QUADRO CHE STANNO CERCANDO DI DIMOSTRARE I PM, E QUINDI ANCHE TRAVAGLIO) NON PUO’ ESSERE UNA MAFIA CHE FA ATTENTATI PER CONDIZIONARE ROS E STATO A PATTI, NEL 93, PERCHE’ L’ACCORDO C’E’ GIA’ STATO, SULLA TESTA DI RIINA, E QUESTO ACCORDO PREVEDE UNA LATITANZA ASSISTITA DALLO STATO CHE E’ INCOMPATIBILE CON GLI ATTENTATI MOSSI CONTRO LO STESSO STATO.
SOSTENERE QUINDI ORA, IN GIUDIZIO, CHE IL CONDIZIONAMENTO E’ AVVENUTO ED E’ AVVENUTO NEL 93, POGGIANDO SULLA FRASE DI BRUSCA, SIGNIFICA AIUTARE MORI ED IL SUO COLLEGA AD ESSERE ASSOLTI NEL PROCESSO CHE OGGI LI VEDE IMPUTATI.
PERCHE’ SE I CONTATTI AVUTI CON LA MAFIA A NELL’AUTUNNO 92 SONO CONTATTI CHE HANNO CONDIZIONATO LA STESSA A FARE ATTENTATI E STRAGI DA META’ DEL 93 IN POI ALLA RICERCA DI UN ACCORDO SINO A QUEL MOMENTO MANCATO, ALLORA NON POSSONO ESSERE ALLO STESSO TEMPO CONTATTI CHE HANNO PORTATO AD UN ACCORDO CON LA MAFIA, STIPULATO NEL DICEMBRE DEL 92, PER STRAVOLGERNE LA DIRIGENZA FACENDO LARGO A PROVENZANO IN CAMBIO DELLA TESTA DI RIINA. O UNA COSA O L’ALTRA. ED IN QUESTO MOMENTO AI PM INTERESSA LA SECONDA.
CONTINUI A SEGUIRE LA LOGICA, CIGARINI? COMINCI A CAPIRE PERCHE’ TRAVAGLIO HA MANIPOLATO?
PERCHE’ NON SI PUO’ AVERE LA BOTTE PIENA E LA MOGLIE UBRIACA, MA LUI HA VOLUTO PROVARCI LO STESSO PRESENTANDOCI LA SUA SIGNORA UBRIACA, E LA BOTTE IN CANTINA COMUNQUE PIENA.
IO HO SOLO DIMOSTRATO CHE PERO’ ERA UN TRUCCO, PERCHE’ LUI L’AVEVA RIEMPITA D’ACQUA.
Innanzitutto ti ringrazio per la generosità delle tue risposte, e ti voglio dire che considero molto interessante la conversazione con te nonostante, anzi proprio in virtù, della differenza di vedute, che, ti assicuro, non ha nulla a che vedere con l’ipocrisia. Mi limito semplicemente ad esprimere sinceramente la mia opinione senza alcun intento provocatorio.
La differenza tra noi, a mio avviso, sta nell’impostazione mentale: tendente sempre e comunque al dubbio la mia, più predisposta alla sicurezza la tua. Il ché sicuramente deriva anche dal fatto che tu sei senza ombra di dubbio più informato di me, ma penso non sia soltanto questo.
Tu mi attribuisci sicurezze che non ho mai avuto e non posso avere: non sono affatto sicuro che T. fosse in buona fede, anzi, quando scrivi:
"Travaglio si è trovato davanti ad una citazione ghiotta, ghiottissima da riportare in un articolo. Un virgolettato di Brusca, letto da lui come da me alcuni mesi fa nell’intervista a Spatola su Antimafia2000, troppo bello, irresistibile, perchè Brusca da buon semianalfabeta aveva detto "siamo stati pilotati dai carabinieri" non trovando termini più proprii per significare che l’occasione dei colloqui fra Ciancimino e i ROS aveva acceso nella mafia l’idea e la speranza che lo Stato, sottoposto ad attentati, potesse scendere a patti.
Così interpreta Spatola, e può avere anche ragione.
Naturalmente per Travaglio l’occasione è ghiotta a condizione di non spiegare questo, lasciando invece quella frase tale quale cosicchè chi legge prendendola alla lettera possa avere quella bella sporca sensazione di pilotaggio, di direzione attiva degli attentati per mano dei carabinieri."
sono propenso a darti ragione. T. come quasi tutti i giornalisti (tutti quelli di una certa fama), compie un’opera di selezione delle informazioni da dare, che non risponde soltanto a criteri di massima informatività verso il lettore, ma, nel caso di T., a un artificioso ingigantimento della notizia volto a presentare se stesso come quello-che-dice-cose-che-altri-non-dicono. Ma un’operazione di questo tipo come ti ho detto mi pare la facciano pressoché tutti i giornalisti, da Feltri a D’Avanzo, chi per proteggere il proprio editore, chi per avvalorare le proprie opinioni, chi come T. e Santoro per vendere più libri e fare audience. Il tutto ovviamente non deve superare un certo limite in modo che il lettore avveduto non screditi il giornalista, soprattutto se condivide le sue idee di fondo, politiche o giudiziarie.
Nonostante questo preferisco giornalisti come T. che seminano dubbi e critiche anche in eccesso, non avendo interesse a proteggere nessuno, a giornalisti che per interesse o propensione personale tendono ad eccedere nel verso opposto. I primi sono utili, i secondi no.
Come ti ho già detto il fatto che poi qualcuno debba vedere pesare su se stesso sospetti non veritieri lo considero un prezzo alto, ma dovuto alla libertà.
Sulle parole di Brusca, ti segnalo un virgolettato di Brusca dal Corriere della Sera:
"Tra le stragi di Capaci, di via D’Amelio e quelle del ’93 c’e’ una strada unica". Ed arriva a questa conclusione affermando che Bellini, a suo avviso ispiratore degli attentati ai monumenti, "era in contatto con un maresciallo; questi era a sua volta in contatto col colonnello Mori. Percio’ dico che siamo stati pilotati dall’Arma".
Questo articolo è del ’98 ed è la cronaca, il giorno dopo che le parole sono state pronunciate.
Da queste parole la mia impressione è che Brusca si riferisse sia al 92 che al 93, che non faccia alcuna distinzione.
Tu nel tuo articolo dici che la tua fonte per le parole di Brusca è una intervista di Sabella di 10 anni dopo che le riporta così:
"Noi nel commettere le stragi del ’93 siamo stati pilotati dai carabinieri"
E’ pensabile che Sabella 10 anni dopo citando a memoria abbia semplificato quello che era il concetto espresso da Brusca, e che invece T. si riferisse alle testuali parole di Brusca, come riportate dal Corriere o da altra fonte, e non alla intervista che hai letto tu? Mi pare probabile.
E d’altronde lo stesso Sabella faceva la supposizione che B. si riferisse alle stragi di entrambi gli anni senza fare alcuna distinzione. Proprio nella stessa intervista che citavi tu, proprio poche righe sopra (ma io non ti accuso di nulla…):
"Ma laddove ci sono, come dite voi giornalisti, reati penali cioè fattispecie – i reati sono tutti penali – dove ci sono fattispecie di illecito penale. In questa vicenda è verosimile che ci possano essere responsabilità morali, non penalmente rilevanti nella strage di via D’Amelio, ma non responsabilità penali. Questa è la cosa, almeno credo che sia l’idea di fondo perchè probabilmente è difficile andare a ipotizzare che certe persone, il cui nome è apparso sui giornali in questi giorni, siano stati i mandanti della strage di via D’amelio. Probabilmente con il loro comportamento potrebbero aver determinato la mafia a commettere quella strage. E quindi capirà che la cosa è molto diversa. Sul piano della responsabilità penale significa zero, sul piano della responsabilità morale, politica e amministrativa a seconda dei casi, invece ha dei rilievi enormi e anche sul piano di ristabilire la verità storica. E le ripeto, quello che c’è sui giornali in questi giorni, e le posso dire una cosa, anche le stesse dichiarazioni di Riina non sono assolutamente nuove a quello che, almeno parlo per me, io già sapevo 12 anni fa. Anche le dichiarazioni di Riina, perchè le dichiarazioni di Riina non sono per niente, a mio giudizio, diverse da quelle che fece Giovanni Brusca deponendo al processo per le stragi nel ’93 nell’aula bunker di Firenze quando disse, gli scappò una frase che poi spiegò: "Noi nel commettere le stragi del ’93 siamo stati pilotati dai carabinieri". Brusca non voleva dire che sono stati i carabinieri a far fare le stragi ma è un messaggio assolutamente analogo a quello che Riina manda adesso."
Mi pare che metta sullo stesso piano le stragi del 92 e quelle del 93, Riina si riferiva alle stragi del 92; Brusca al 93, secondo le sue parole; ma il concetto è lo stesso – dice – per lui non ci sono novità, quindi per lui c’è continuità tra 92 e 93, quindi lui ha interpretato le parole di B. come riferite a entrambi gli anni, quindi è giustificata la sua semplificazione di citare un solo anno nel riportare le parole di B., B. non ha fatto distinzioni, evidentemente, perché dovrebbe farne Sabella? (ammesso non si ricordasse che B. faceva esplicitamente riferimento a entrambi gli anni, stando al Corriere, a meno che non sia indegno di credito anche l’articolo del Corriere)…
Poi può essere che T. comunque, avesse letto soltanto la parte di intervista che citavi tu e riportasse in malafede, ma non ne posso essere certo. Tu ne sei ancora certo? E poi comunque a questo punto mi sembra veramente un dettaglio infinitesimale…
Hai scritto:
"Ed ora veniamo alla "moralità" del comportamento del ROS, in relazione alle stragi del 93, che è il problema che hai posto tu, anche se non c’entra nulla con le manipolazioni giornalistiche."
Quando parlavo di giudizio morale, non mi riferivo al giudizio morale che T. da dei Ros, mi riferivo ad un mio giudizio morale sull’uomo Travaglio: non ce l’ho e non mi interessa costruirmelo. Valuto volta per volta la veridicità delle sue affermazioni, quando ne ho il tempo e l’interesse, altrimenti lo prendo per buono (forse sbagliando me ne rendo conto, a volte sono sua "vittima", ma non posso approfondire tutto), perché come ti ho già spiegato penso che le sue manipolazioni non vadano oltre un limite e non siano tali da screditarlo e comunque nel panorama dell’informazione penso sia comunque tra i più degni di credito.
Non ho mai sollevato neppure il problema di un giudizio morale sui Ros, anche nel caso fosse vera la trattativa, considero troppo complessa la questione morale, comprenderei anche moralmente la trattativa, pensa un po’…
Hai scritto:
"PER CUI DELLE STRAGI DEL 93 SE NE PARLA ANCORA POCO O NULLA. E LO SAI PERCHE’?
PERCHE’ UNA MAFIA CON A CAPO UN PROVENZANO DIVENUTO CAPO PER SUDICI SEGRETI ACCORDI CON I ROS SULLA TESTA DI RIINA E QUINDI LIBERO PERCHE’ ASSISTITO NELLA LATITANZA DAGLI STESSI ROS, (CHE E’ IL QUADRO CHE STANNO CERCANDO DI DIMOSTRARE I PM, E QUINDI ANCHE TRAVAGLIO) NON PUO’ ESSERE UNA MAFIA CHE FA ATTENTATI PER CONDIZIONARE ROS E STATO A PATTI, NEL 93, PERCHE’ L’ACCORDO C’E’ GIA’ STATO, SULLA TESTA DI RIINA, E QUESTO ACCORDO PREVEDE UNA LATITANZA ASSISTITA DALLO STATO CHE E’ INCOMPATIBILE CON GLI ATTENTATI MOSSI CONTRO LO STESSO STATO."
Qui non sono d’accordo. Io la vedo un po’ diversamente: non c’è bisogno che per arrestare Riina ci sia stato un accordo completo. Basta che Provenzano, che voleva liberarsi di Riina, lo tradisca in un qualsiasi modo e faccia sapere dove si nasconde. Per proteggere la latitanza di una persona ricercata, che nel …
Mi ha tagliato il commento, continuo qui.
Per proteggere la latitanza di una persona ricercata, che nel contempo deve comandare una organizzazione, serve un lavoro complesso intorno a lui e se qualcuno tradisce salta tutto.
Insomma, per me abbiamo pochissimi dati quando parliamo di mafia e avere la pretesa di tracciare un quadro preciso dei fatti e ricavare deduzioni con la tua sicurezza è azzardato.
Anche tenendo conto che a pensarla come me non sono solo io, ma magistrati di tutto rispetto, come tu stesso hai definito Ingroia e Sabella…
Secondo me, ti ripeto, la trattativa non l’hanno fatta direttamente i Ros, la trattativa è politica, la politica è impregnata di mafia in modo inimmaginabile, i governi sono in simbiosi da sempre con la mafia, ma in quel momento mancava l’equilibrio, si era rotto qualcosa, inoltre la politica si sentiva minacciata (probabilmente nel mirino della mafia c’erano dei ministri) e ha trattato. Come trattava da 50 anni a quella parte…
Riina voleva trattare in modo diverso da Provenzano, forse voleva imporre condizioni diverse, forse il motivo dei dissapori con Provenzano non c’entrava nulla con la trattativa, come possiamo pretendere di fare ipotesi? Fatto stà che P. tradisce R. e continua la trattativa al posto suo e per accelerarla piazza bombe in giro per l’Italia.
Al termine della trattativa, forse, incomincia l’esilio protetto che è sotto studio nel processo attuale a Mori. Ma soprattutto terminano gli attentati, e questo è certo.
Fino a ché qualcuno non tradisce Provenzano, oppure l’esilio protetto non è mai esistito e P. viene catturato senza tradimenti.
Non lo so, però a me sembra che possa quadrare così.
Ma io non ho certezze, solo dubbi, questa mi sembra la teoria più plausibile.
Posso, umilmente, farti alcune domande? Per la curiosità di conoscere la tua opinione, perché veramente non riesco a capire. Le prime che mi vengono in mente:
L’agenda rossa di Borsellino: perché è sparita e cosa conteneva? Se è sparita o è mai esistita.
Perché Ingroia, e tante persone competenti, sono così convinti che ci siano dei mandanti occulti per via D’Amelio?
Perché, secondo te, la mafia, che se ne era sempre stata buona in Sicilia, a un certo punto inizia improvvisamente a fare attentati terroristici in giro per l’Italia, in un momento di ricambio della classe politica, e poi altrettanto improvvisamente smette? Che spiegazione logica ti sei dato?
Cosa ne pensi di Andreotti? Sicuramente saprai della sentenza che lo vede colpevole di rapporti con la mafia fino al 1980, di Salvo Lima, ucciso poco prima che incominciassero gli attentati (ma guarda caso, cosa vorrà dire?). Sei proprio sicuro che nel Truman Show ci viviamo noi e non tu?
Luigi Cigarini
Caro Luigi Cigarini volevo solo farti notare una cosa FONDAMENTALE CHE LE E’ SFUGGITA.
Nell’articolo che ha postato sulle dichiarazioni di Brusca LA COSA RILEVANTE NON E’ IL TITOLO MA LE AFFERMAZIONI DEL SUO AVVOCATO e precisamente:
Per poi precisare – di fronte alle domande del suo avvocato Luigi Li Gotti – di essere arrivato a questa conclusione sulla base della sua esperienza in Cosa nostra e della lettura dei giornali.
La traduzione è semplice. Brusca sostiene che la tesi del dialogo con i carabinieri è per lui chiara visto cosa i giornali scrivevano e le sue conoscenze dell’ambiente mafioso.
A quali news potrà riferirsi secondo lei Brusca? Sicuramente quelle attinenti all’argomento di cui si parla, quindi Brusca LEGGE NEWS FALSE, NEWS CHE CIRCOLANO DA ANNI news che incredibilmente girano ancora ed in questi ultimi mesi ce le stanno propinando quasi settimanalmente, TUTTE NEWS SMENTITE DAI FATTI, SMENTITE DA SENTENZE DEL TRIBUNALE. E su queste si fa un idea. Che idea si può fare colui che legge info errate? Idee errate.
Riesce a capire? Si sta discutendo del nulla.
Riguardo Travaglio anche io come lei sono contento delle molte inchieste dello stesso, ma nel tempo ho notato spesso gravi strafalcioni e vorrei solo capire se è in buona fede o in cattiva fede. Compro quotidianamente il FATTO e quando lo leggo per forza di cosa sto sempre con le antenne diritte.
Ora le chiedo, secondo lei non è pericoloso un giornalista del genere che nell’immaginario collettivo E’ IL BENE CONTRO IL MALE? Nell’immaginario colettivo è il giornalismo senza poteri che lo condizionano? E’ PERICOLOSO caro Cigarini, molto pericoloso ed aiuta sicuramente ad allontanare la gente alla vita politica Italiana.
Giustamente dico io. Come si potrebbe sentire persona che segue sempre i ragionamenti di Travaglio dando per scontate tutte le sue inchieste FACENDOSI IDEE ED OPINIONI e poi un giorno improvvisamente si accorgerebbe che le sue idee sono errate? Si accorgerebbe che le inchieste sono piene di crepe?
Glielo dico io come si sentirebbe, gli cadrebbero le braccia come è successo a me quando mi sono accorto che tutto qeul che mi bevevo spesso era stato manipolato, spero in buona fede o per un ritorno commerciale, SE CI FOSSE ALTRO DIETRO SAREBBE GRAVISSIMO.
Gianluca
Caro Gianluca, non mi è assolutamente sfuggito quello che mi ha fatto notare lei. Non ho postato quel link per avvalorare le parole di Brusca, che per quanto mi riguarda possono essere benissimo destituite di ogni fondamento; lo ho postato semplicemente per citare un virgolettato con le esatte parole (fino a prova contraria) di Brusca. Se rilegge meglio se ne può rendere conto.
Lei dice che Travaglio è pericoloso, di che pericolo parla? Io penso che i lettori che si fidano ciecamente di Travaglio, che leggono solo lui senza approfondire e ascoltare opinioni contrarie, siano una piccola percentuale, e comunque non pericolosi, pensa che un magistrato si faccia condizionare da Travaglio?
I giornalisti pericolosi sono altri, sono quelli mossi da interessi personali, quelli che cercano di insabbiare, di proteggere i potenti.
Che altro ci potrebbe essere dietro Travaglio se non il suo ritorno commerciale?
Caro Luigi, ti risponderò più con calma nei prossimi giorni, perchè in questo momento sto lavorando molto sia all’attività che mi da un pezzo di pane sia ai nuovi articoli.
Approfondirò volentieri gli argomenti con te. Questa sera dirò solo poche semplici cose.
Sappi in ogni caso che come hai potuto notare, io amo far riferimento ai documenti e non ai riporti.
Di per sè anche il virgolettato attribuito a Sabella (la frase di Brusca) va preso con le pinze, perchè bisognerebbe avere davanti agli occhi i verbali integrali, cosa che sto ottenendo e quindi nell’arco di poco sapremo.
Per il momento però, il virgolettato di sabella rappresenta una frase completa riportata da un signor addetto ai lavori, ed è quanto di meglio abbiamo.
L’articolo del Corriere che hai citato lo conosco (se mi dai un indirizzo email ti mando un file word con un casino di articoli messi insieme, fra cui questo, così è più facile fare ricerche con l’ipertesto), ma purtroppo riporta fra virgolette solo frasi tronche di Brusca, attribuendo i giornalisti un senso alle stesse, così come ha fatto anche Travaglio che ha presentato un virgolettato tronco ed un suo inciso a completarlo (quello su Via D’Amelio) Di fatto nell’articolo del Corriere si configura la stessa cosa (Bonini non è da meno di travaglio, ti assicuro). Io preferisco darmelo da me il senso, e non farmelo dire dai giornalisti. Quindi aspetto di avere i verbali completi. Ma sono più che certo, per mia esperienza, che Brusca ha detto ciò che ha riportato sabella, e non ciò che ha riportatoi il Corriere, che è roba tronca.
Quindi, partendo dall’esame dei documenti disponibili, io ho questo: non c’è stata nessuna trattativa così come ce la vogliono dipingere.
la "trattativa" per il momento è e resta un abboccamento fra i carabinieri e Ciancimino per farlo collaborare come si sono fatti e si fanno collaborare moltissimi mafiosi.
E, come leggerai nel nuovo articolo che sto pubblicando, Ciancimino su quella trattativa nel 93 ha dichiarato a Caselli una cosa molto semplice, che riassunta è così: i ROS mi hanno incontrato alla fine di agosto 92 (a stragi già eseguite), volevano latitanti, io ho deciso di collaborare con loro a questo scopo. Ho deciso quindi di fare il doppio gioco a favore dello stato e per fare questo ho espresso ai ROS l’inenzione di avvicinare un certo ambiente "di imprese" che conoscevo, da dove avrei attinto informazioni.
Per operare in quell’ambiente con libero spazio di manovra, avevo bisogno del passaporto, e pertanto ne ho fatto richiesta dicendo ai ROS di aiutarmi ad avere un celere rilascio dello stesso.
Per tutta risposta fui arrestato dal magistrati della Corte di Appello con la motivazione che avevo richiesto il passaporto, e quindi c’era il pericolo di fuga.
Ciancimino quindi insinua nel suo verbale che il suo arresto sia servito a qualcuno per tarpare la sua collaborazione con i ROS, in quanto è stato arrestato precipitosamente, e senza ragione, proprio quando aveva deciso di collaborare. (se una persona chiede il passaporto pur avendo processi in corso, di solito, se si teme il pericolo di fuga, non si arresta, semplicemente gli si nega il passaporto. Ciancimino ha ragione. Pensa che gli han dato il passaporto lasciandolo liberamente espatriare, con 13 procedimenti in corso per calunnia aggravata, persino a Igor Marini).
Tutto questo racconto di Ciancimino, trova riscontro negli atti, nei fatti, nelle testimonianze dei pentiti sino a quando Brusca viene interrogato da Sabella. Lì avvengono due cose: Brusca inizia a ritrattare le precedenti dichiarazioni, che erano supportate da riscontri logici e temporali, ed inizia a parlare della trattativa facendo un gran casino, cercando di tirare dentro in qualche modo confuso i carabinieri, di anticipare le date fornite negli anni precedenti, di demolire gli assunti logici precedentemente esposti sostituendoli con frammenti di fatti che correlati da loro risultano del tutto illogici. per finire a quest’autunno dove al processo Mori, alla domanda dell’Avv. Milio "quali sono le sue fonti di informazioni sul papello", Brusca risponde: "l’ho letto su Repubblica." La second acosa che accade, è questa: non appena Brusca inizia a fornire, pur confusamente, quella versione sulla trattativa, subito i magistrati chiedono il programma di protezione, e quindi la sua liberazione. prima lo dicevano infido, e gliela negavano. Il che, nel mondo della logica, ha un significato ben preciso: si chiama compravendita.
Ma torniamo seri:
la trattativa così come ci vuole venire dipinta, non è supportata da uno straccio di riscontro testimoniale logico nè da prove documentali nè da papelli. Da nulla.
I papelli sono falsi. I nastri con le registrazioni di V.C. con i ros in realtà contengono tutt’altro, come mi aspettavo (come vedi prevedo giusto).
"L’agenda rossa". Io non so se fosse così importante quest’agenda e che fine abbia fatto, dal momento che pare comunque certo che esistesse.
Però una cosa la so: e cioè che in uno stato serio a quell’Arcangioli gli avrebbero fatto un culo così. Se le foto e i video non sono falsi, quello se ne scorazzava avanti-indietro con la borsa del magistrato (non poteva essere di nessun altro). Negli USA l’avrebbero arrestato immediatamente foss’anche stata vuota.
Quindi io contesto la sentenza di Caltanissetta che assolve Arcangioli, per quelli che sono i documenti.
E penso, mia opinione, che da quella borsa sia stato rimosso qualcosa che si voleva occultare, l’agenda rossa, forse, o altro.
Documenti, comunque. Perchè non si porta a passeggio materiale così delicato e probabilmente probatorio dopo un attentato. Quindi la logica ci dice che qualcosa di losco c’è di sicuro.
Ma vedi Luigi, una volta ipotizzato che un uomo corrotto abbia asportato con dolo dei documenti, di lì ad ipotizzare con altrettanta certezza perchè l’abbia fatto, per conto di chi, e soprattutto che cosa si volesse occultare, ce ne corre. Direi che in questo contesto l’ipotesi che si sia trattato di un occultamento di prove relative alla trattativa, è francamente risibile. La trattativa per come poteva esistere nel luglio 92, non poteva rappresentare neppure un reato penale, e comunque in quella borsa non avrebbe potuto esserci nulla di così scottante su quell’argomento, alla sola idea mi vien da ridere. No, in quella borsa c’erano i documenti relativi alle questioni veramente sporche su cui Borsellino aveva puntato il naso, decretando la sua condanna a morte. Reati grossi, importanti, crimini, che coinvolgono persone molto importanti e operazioni finanziarie di elevato interesse. Ecco le cose per cui si uccide con 100 kg di polvere cecoslovacca e per cui si fanno sparire i documenti.
Non per improbabili trattative. Non siamo ridicoli.
Un’ultimo post-scriptum sulla logica, un sasso nello stagno (ma sono tutti sassi nello stagno, sarà interessante discuterne con più tempo).
Tra il castello di Utveggio e via cilea, in linea d’aria, ci son 3 km. Ho verificato su google map e ne farò pure un articolo.
A 3 km, per riconoscere il volto di una persona, ccome minimo, ci vuole un telescopio da 60-80 infrandimenti.
Ora, pare che agnese Borsellino abbia recentemente dichiarato che il marito in vita temeva che dall’utveggio gli controllassero la camera da letto.
Anche qui, francamente, pensare che Borsellino abbia potuto fare una simile affermazione, è dura. Perchè è dura, ma proprio dura, che il magistrato potesse ipotizzare che qualcuno stesse perdendo il suo tempo, dall’utveggio, a tenere l’occhio incollato all’oculare di un telescopio, per sorvegliare il suo talamo nuziale.
Ti ho fatto questo esempio, eprchè è uno dei tanti che dimostrano una recrudescenza giudiziaria fondata su tanti piccoli fatti che però se approfonditi si rivelano bufale o quanto meno improbabili.
No stai tranquillo, non sono io, Mr Truman. Io son quello che esamina i papelli e li svopre apocrifi. Io, non tu.
Sticazzi, che ci provino.
Ancora una cosa, perchè mi pare che tu mi abbia chiesto una mia opinione sul movente delle stragi del 93.
La mia opinione è tanto logica quanto banale, e parte da alcuni presupposti.
Secondo me la mafia non è diretta dai Bassotti e da Spennacchiotto, e la sceneggiatura di queste vicende non la scrive Walt Disney. Ergo, c’è una porbabilità su un milione che chi ha ordinato e realizzato quelle stragi, lo abbia fatto nell’ipotesi di piegare lo stato a qualche cosa. Tu pensi che sia una cosa che sta in piedi, che un mafioso per quanto stupido possa pensare di obbligare uno stato ad elimjnare le tasse dalla benzina con il ricatto degli attentati?
In breve, io mi son fatto quest’idea, e sono pronto a rimangiarmela al primo documento che la metta in dubbio. Ma per ora ci sono solo dei falsi.
Io penso che Falcone e Borsellino siano stati uccisi perchè stavano ficcando il naso in questioni delicatissime, già da due anni prima. Di conseguenza, per questioni delicatissime, si sono mosse "menti raffinatissime", parole di Falcone.
Queste menti raffinatissime hanno fatto fuori i magistrati con un metodo (già usato per Chinnici, ne riparleremo), che sa più di guerra alle istituzioni che combattono contro la mafia come simbolo, più che di chirurgica eliminazione di due persone scomode a causa del loro futuro carnet di appuntamenti, elaborato sulla base di certe convinzioni che si stavano facendo. Una forma di depistaggio blando, diciamo così. I magistrati andavano ammazzati, per fermare le loro inchieste e la loro curiosità, e quindi per ammazzare, in qualche modo bisogna pur farlo. Non si è scelta però la pistolettata di un cecchino, che pure era possibile, ma un metodo che potesse fare pensare a qualcosa di diverso. Poi è comiciata, difatti, la bagarre dei giornali: l’attacco allo stato della mafia, la guerra ai magistrati, e vai col generico. La trattativa stessa come ipotesi di movente entra bene in questo quadro di genericità, che serve ad occultare la specificità, e cioè il culo ed il denaro di persone ben precise.
Visto che funzionava, si son fatti altri attentati nel 93, per continuare ad infondere quell’idea e a depistare dal vero movente delle stragi precedenti. Così, come è evidente, per marcare quel colore, si è passato guarda caso dai magistrati ai monumenti di stato, e persino a Maurizio Costanzo.
Mancava solo Raffaella Carrà.
Pensaci bene, è un depistaggio.
E’ semplice, banale, e logico.
Questo è quello che penso io.
La mia mail è NOSPAMluigi2509@interfree.it (togli NOSPAM all’inizio), se vuoi mandarmi quel file di cui parlavi ti ringrazio, potrebbe servirmi.
Dici che Borsellino non poteva sospettare che lo spiassero dall’utveggio, io non ne sono sicuro, sapeva di essere nel mirino della mafia (o di qualcun’altro), perché non poteva sospettare che lo spiassero per conoscere le sue abitudini?
La teoria del depistaggio per il 93 potrebbe anche essere vera, la mafia ha voluto creare clamore anche per distogliere l’attenzione dalle indagini dei magistrati, allora però chi ci garantisce che dietro non ci fosse qualcun’altro, coinvolto nelle indagini di Falcone e Borsellino, mandanti esterni che dovevano rimanere nell’ombra e allora serviva un depistaggio. C’è comunque qualcosa di poco chiaro.
Luigi C.
Luigi, Borsellino poteva benissimo sospettare di essere sorvegliato e controllato da tutte le parti, soprattutto da chi volesse tenere d’occhio i suoi movimenti e le sue inchieste.
Ma una persona con un cannochiale piantato sulla finestra della sua camera da letto, a tre km di distanza… a che scopo? Servizi guardoni?
Caro Luigi l’oggetto del confronto possiamo dividerlo in due.
1- LA CATTIVA INFORMAZIONE DEI GIORNALI
2- I FATTI ACCADUTI
Sul primo punto Enrix mette in evidenza tutte le innumerevoli incongruenze e tutti i depistagi in atto da quasi 20 anni. Questi sono fatti acclarati. Se un papello è falso e FALSO, stiamo verificando un fatto.
Il fatto è che il papello è falso e l’informazione sembra non accorgersene, il fatto è che Ultimo e Mori in questa storia (arresto di Riina e mancata osservanza del covo dopo l’arresto) SONO USCITI ILLIBATI, INNOCENTI. Ifatti vengono dimenticati e giornalmente dobbiamo leggere il contario, è normale questo Luigi?
Passiamo al secondo punto. Tu Luigi (spero non ti offendi se ti do del tu) scrivi che comunque dobbiamo appurare se la trattativa c’è stata ed anche non fosse stata quela di dei ROS capire chi l’ha fatta, e fai delle interpretazioni sul memoriale di Cianciminio.
Tutto leggittimo ma interpretare con i dati in ns posso è complicatissimo, quindi evitiamo di dare per certe delle cose che sono solo interpretazioni. Sui perchè e sui per come sempre a livello di esclusive interpretazioni le due indagine archiviate su mafia ed appalti e del riciclaggio dei soldi russi sarebbero sicuramente interessanti MA QUESTE NON VANNO DI MODA.
Penso che la trattativa ha tutto questo clamore ed interesse perchè s’intravede la possibilità di un coinvolgimento Berlusconiano ma mi chiedo visto che si parla d’ipotesi COME MAI LE DUE ARCHIVIAZIONI DI PROCESSI SCOTTANTISSIMI SONO CADUTE NEL DIMETICATOIO?
Pensi davvero che si stiano scoprendo davvero tutte le schifezze della collusione politica mafia scavando su questo tema, cosa che si sta fecendo da 20 anni e LASCIANDO DA APRTE L’ALTRO FILONE?
Ti dico quel che penso io Luigi. Sono convinto che i depistamenti sono all’ordine del giorno e si ha tutto l’interesse di concentrarci sulla trattativa sperando che semmai la giustizia niente appurerà RIMANGA NELLA MEMORIA TUTTO QUESTO FANGO con la gente sempre più sicura che ingiustizia sia stata fatta.
Come è accaduto per Ustica, per la Mitrokin e per le tante stragi di stato, depistamenti, depistamenti e depistamenti e le verità ben custodite con noi persone normali assoluytamente lontani dal capire cosa è successo. Un plauso ad Enrix che aiuta le crepe a diventare voraggini.
Gianluca
Quel caldo mese di luglio.
La famosa intervista, quella che Paolo Borsellino il 21 maggio ’92 rilasciò ai giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, è stata definita più volte “l’ultima intervista di Paolo Borsellino”. Erroneamente, perché, come è noto, successivamente a quella e poco prima di morire il magistrato rilasciò un’intervista alle TV di Mediaset.
Quindi quella dei francesi è stata ridefinita come “la penultima intervista”.
In realtà non è neppure così, perché Paolo Borsellino rilasciò anche un’altra intervista (quindi quella dei francesi è “la terzultima”) piuttosto interessante, al brigadiere Giuseppe D’Avanzo per le pagine di Repubblica, che la pubblicò il 27 maggio.
Interessante, quell’intervista, soprattutto per un passaggio:
PAOLO BORSELLINO: Per indagare sulla morte di Giovanni ho sollecitato la mia ‘ applicazione’ a Caltanissetta, ma mi hanno ricordato che in quella città non c’ è la funzione di procuratore aggiunto. In ogni caso andrò a Caltanissetta.
D’AVANZO: Con quale scopo?
BORSELLINO: Ci andrò come testimone. Per raccontare piccole cose che possono aiutare l’ inchiesta.
D’AVANZO: A proporre un ragionamento?
BORSELLINO: No. I ragionamenti non fanno parte di una testimonianza. Possono essere il retroterra di una testimonianza, possono essere materiale per un’ intervista. Al procuratore Celesti riferirò fatti, episodi e circostanze. Gli racconterò gli ultimi colloqui avuti con Giovanni.
Che cos’avrà avuto da dire Borsellino ai magistrati nisseni? Cosa si dicevano lui e Falcone?
Sempre Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica del 23 giugno, nell’articolo “COSI’ SCRISSE FALCONE NEL DIARIO DEI MISTERI”, ci parla di un colloquio per il momento informale tenuto da Borsellino a Caltanissetta dove il magistrato avrebbe parlato ai colleghi del “diario”, i famosi appunti scritti da Falcone sul suo PC nell’ultimo periodo della sua vita.
Poi, spiega D’Avanzo: “Celesti interrogherà presto Ayala, Borsellino e Guarnotta. Al di là dell’ interrogatorio, comunque, i "capitoli" del diario sono per gran parte noti, anche grazie alle rivelazioni di una puntuale cronaca dell’ Espresso. Sono trentanove, come trentanove furono le occasioni di conflitto e di dissidio con il procuratore capo Pietro Giammanco che mise Giovanni Falcone nella condizione di non lavorare come avrebbe potuto e saputo, che lo costrinse, di fatto, a dover abbandonare la Procura e Palermo. Si va dalla decisione di togliere al giudice assassinato la delega per le inchieste di mafia, alla comunicazione che la riunione settimanale del pool non si sarebbe più tenuta nell’ ufficio di Falcone al pianterreno del Palazzo, ma al primo piano nello studio del procuratore capo. Dalla circostanza che in qualche occasione Falcone fu costretto anche ad attendere a lungo in piedi dinanzi alla porta di Giammanco prima di essere ricevuto (circostanza pregna di significati in una città, come Palermo, attentissima ai segnali di prestigio e in un Palazzo, come quello di Giustizia, occhiutissimo nello scorgere le mosse che legittimano e quelle che delegittimano) alla controversia che Falcone ingaggiò con Giammanco dopo che il nucleo speciale dei carabinieri consegnò in Procura il rapporto sulla mafia degli appalti, un lavoro certosino durato anni che raccontava come tutti gli appalti di Palermo passano attraverso la mediazione di Angelo Siino, titolare di una concessionaria d’ auto, uomo fidato dei Corleonesi. Falcone valutò il rapporto con grande attenzione. Giammanco e i suoi sostituti più fidati con scetticismo. Anzi, con scherno. "Tanta carta per nulla, in questo rapporto non c’ è scritto niente che merita di diventare inchiesta giudiziaria", disse uno dei fedelissimi di Giammanco.”
Ma a quanto mi risulta, Borsellino non fece a tempo per testimoniare a Caltanissetta, perché 25 giorni dopo, fu ucciso.
Di quell’inchiesta, cd “mafia e appalti”, si erano incaricati il capitano De Donno e i suoi carabinieri del ROS. Lasciamo che, questa volta, sia Peter Gomez ad illustrarci della rilevanza di quel filone:
“…È un fatto che le indagini dell’Arma facessero paura a molti. Il giovane capitano Giuseppe De Donno ci aveva lavorato per più di un anno. Così, il 16 febbraio del 1991, consegna nelle mani di Giovanni Falcone un rapporto di 900 pagine che, senza pentiti, sembra anticipare di più di un anno l’inchiesta milanese di Mani Pulite. Falcone però non lo può esaminare. Sta partendo per Roma, dove diventerà direttore degli affari penali al ministero, perché ormai a Palermo lui non può più lavorare. A metterlo in un angolo non sono stati i mafiosi. Sono stati alcuni suoi colleghi e soprattutto l’allora procuratore Pietro Giammanco.)
Il rapporto di De Donno è una bomba. Per la prima volta viene svelato il ruolo di Angelo Siino, l’uomo che per conto di Cosa Nostra curava la spartizione di lavori e mazzette. E viene anche spiegato quello del gruppo Ferruzzi di Ravenna, in affari con la mafia. Nella relazione sono citati i nomi di aziende come la Grassetto di Salvatore Ligresti, la Tordivalle di Roma (degli eredi di De Gasperi), la Rizzani De Eccher di Udine, le imprese dei cavalieri del lavoro di Catania, la SII poi rilevata dall’ex direttore generale della Edilnord di Berlusconi, Antonio D’Adamo, una serie di cooperative rosse, la Impresem del costruttore agrigentino Filippo Salamone e poi tutte le società che fanno capo a Bernardo Provenzano. Nonostante questo Mani Pulite alla siciliana non parte. (e perché? Come, lo vedremo fra poco – ndr) Perché la questione degli appalti e del pizzo diviso tra mafiosi e politici arrivi realmente alla ribalta bisogna attendere che a Palermo giunga il procuratore Giancarlo Caselli.
Ma c’è di peggio. Il rapporto di De Donno finisce presto in mano ai mafiosi. Chi lo abbia consegnato, le indagini, tutte archiviate, non lo hanno mai stabilito. (ma è facile immaginarlo, se è vero, come ha detto Mori, che fu consegnato nelle mani degli avvocati difensori degli indagati in allegato agli atti pubblicati – ndr) Restano sul tavolo le accuse: quelle del Ros ai magistrati e quelle dei magistrati ai carabinieri. L’ex braccio destro di Provenzano, il capomafia oggi pentito Nino Giuffrè, è però certo che il contenuto di quel rapporto impresse un’accelerazione alla decisione, secondo lui già presa, di uccidere sia Falcone che Borsellino. In ballo c’erano infatti più di mille miliardi di lire da spartire tra mafia e politica.
È indiscutibile, poi, che anche Borsellino, subito dopo la morte dell’amico, si sia messo a battere pure il fronte dei lavori pubblici. Proprio per questo ebbe allora un incontro con Antonio Di Pietro, all’epoca uomo simbolo di Mani Pulite, e, secondo Mori, il 25 giugno discusse la questione appalti anche con lui e De Donno: un’inchiesta senz’altro rallentata, se non insabbiata, nei mesi successivi. (Ma da chi, caro dolce fresco Gomez? Lo vedremo fra poco – ndr) Un’indagine che oltretutto sarà poi falcidiata da prescrizioni e sentenze contraddittorie nei confronti di imprese e politici. Sulla morte di Borsellino, insomma, il rapporto mafia-appalti pesa. E da solo spiega molto. Ma non tutto.” (Dall’articolo: Dietro la strage di via D’Amelio, l’ombra degli appalti. Da Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2009 – Autore: Gomez, Peter
Può darsi che non sia tutto, come dice Gomez, ma noi ci prendiamo la licenza di ritenere che il rapporto fra il peso della presunta conoscenza da parte di Borsellino delle presunte (e dico presunta e presunte perché che queste siano avvenute prima della sua morte ed in che modo è ancora tutto da dimostrare) “trattative” fra i carabinieri e Vito Ciancimino e l’accertata conoscenza da parte del magistrato dei contorni e dei dettagli della delicatissima inchiesta sulla mafia e sugli appalti (quanto delicata ce lo dice perisno Gomez), sia francamente risibile.
E inoltre non era l’unica questione delicata di cui si stava occupando Falcone.
C’erano i traffici internazionali di enormi somme di denaro, con protagonisti russi ed italiani, che stavano interessando il magistrato (e quindi anche il suo amico Borsellino perché come risulta chiaro i due si aggiornavano continuamente come se fossero una cosa sola), nei modi di cui ho scritto negli articoli dei giorni scorsi. E vale a dire l’inchiesta di Roma in mano ad Ugo Giudiceandrea e Franco Ionta, sulle cui orme anche Giovanni falcone si stava muovendo con la prenotazione di un volo per Mosca, sfumato a causa del tritolo.
Ma dunque che fine hanno fatto effettivamente queste due inchieste?
Per quanto concerne la vicenda dei flussi miliardari Russia-Italia e Italia-Russia, si dice che Ionta abbia depositato la richiesta di archiviazione di quell’inchiesta (forse trascurando un po’ alcuni aspetti, ma questo è già approfondimento, e ne parleremo in altra data), il 7-8 di luglio e che l’archiviazione sia stata ordinata dal Gip Siotto il 27 luglio. Nel bel mezzo delle due date c’è il 19, la triste domenica.
E dico “si dice” perché nonostante paresse un’autentica pentola in ebollizione, con decine di articoli di giornale ad essa dedicati nel mese di maggio e nel mese di giugno, ed innumerevoli annunci di sviluppi clamorosi, su quell’inchiesta dal primo di luglio calò il più totale silenzio stampa. Della richiesta di archiviazione della Procura, presentata piuttosto repentinamente, va detto, l’8 di luglio, nessuno fornì la notizia, nemmeno “L’Unità”, che invero avrebbe dovuto salutarla con un certo clamore, in quanto organo del partito direttamente interessato e colpito. Sapremo direttamente della sua archiviazione disposta dal GIP di Roma Siotto, solo una settimana dopo la morte di Borsellino, con poche e sintetiche righe sui giornali il 28 di luglio.
Anche dell’inchiesta “mafia e appalti”, nello stesso periodo, i PM chiedono l’archiviazione.
E volete sapere? Pare che due di loro, Lo Forte e Scarpinato, l’abbiano firmata il sabato 18 luglio. Giammanco la firma invece la mattina del lunedì 20. Ha trovato tempo e coraggio nonostante il corpo del collega che a quest’inchiesta teneva tanto fosse ancora caldo. E credo che Borsellino di questa istanza di archiviazione non ne sapesse nulla, così come dell’altra. L’ordinanza di archiviazione fu firmata dal GIP il 14 di agosto (la vigilia di ferragosto, evidentemente in un tribunale completamente deserto, roba tipo "L’ultimo uomo che visse sulla terra").
E a questo punto il Segugio vorrebbe fare uno dei suoi giochi preferiti. Non so se avete presente quei libri-gioco dove variando un evento della trama, ci si diverte ad esplorare i nuovi possibili percorsi narrativi.
Analizziamo dunque, SENZA VOLERE ASSOLUTAMENTE INSINUARE NULLA, ma per puro passatempo, che cosa sarebbe potuto accadere con tempistiche differenti.
Se le istanze di archiviazione, esperìte con una certa fretta e velocità, fossero state depositate DOPO la morte di Borsellino, qualcuno avrebbe potuto insinuare che si era approfittato della sua scomparsa per poterlo fare, e che lui non sarebbe stato d’accordo. Si sarebbero forse sollevate delle polverose e fastidiose polemiche, su quelle richieste di archiviazione disposte DOPO la scomparsa dei due magistrati che se n’erano occupati.
Fortunatamente, e naturalmente per coincidenza, la richiesta di archiviazione di Roma è stata avanzata una decina di giorni PRIMA della morte di Borsellino. (l’indagine è durata pochissimo, appena qualche giorno); anche per l’altra inchiesta, l’archiviazione fu predisposta PRIMA, ma…
Se la richiesta di archiviazione di "mafia e appalti" fosse stata però depositata con troppo anticipo rispetto alla data dell’omicidio, siccome si era nel tribunale di Palermo dove Borsellino lavorava, il magistrato sarebbe venuto a saperlo, e molto probabilmente sarebbe in qualche modo intervenuto.
Se fosse peraltro stata depositata e firmata per intero solo poche ore prima dell’omicidio, qualche dietrologo avrebbe potuto sollevare sospetti ed insinuazioni, su quella cronologia dei fatti.
Fortunatamente, e naturalmente per coincidenza, la richiesta di archiviazione dell’inchiesta di Palermo è stata firmata IL GIORNO PRIMA della morte del Giudice da due PM (LO FORTE E SCARPINATO, neh, Gomez?), e firmata IL GIORNO DOPO la morte del giudice da Giammanco. (Il giorno in mezzo, quello dell’omicidio, era domenica, giorno in cui non si può firmare e depositare nulla in tribunale, però si può uccidere e si può morire).
Così nessuno può fare sgradevoli insinuazioni.
Se le ordinanze di archiviazione fossero state emesse PRIMA della morte di Borsellino, il magistrato l’avrebbe saputo in tempo reale (ordinanze del genere non si possono tenere segrete) e quindi avrebbe probabilmente sollevato un bel casino, protestando ed accendendo un’aspra polemica. Se fosse quindi morto a quel punto, le polemiche da lui suscitate sull’archiviazione avrebbero potuto rappresentare un movente.
Fortunatamente, e naturalmente per coincidenza, le ordinanze di archiviazione sono state emesse DOPO la morte di Borsellino.
Così Borsellino non ha visto, pace all’anima sua.
Se le istanze di archiviazione fossero state rese note dalla stampa, e Borsellino ne avesse letto, avrebbe forse acceso delle polemiche ed avrebbe contestato l’atto.
Se la stampa avesse taciuto, fatto scena muta, su entrambe le istanze di archiviazione, la cosa avrebbe potuto sembrare strana, e destare sospetti.
Fortunatamente, e naturalmente per coincidenza, sulla richiesta di archiviazione dell’inchiesta di Roma (fondi PCUS), presentata al 7-8 di luglio, NESSUNO HA SCRITTO UNA RIGA E NESSUNO HA SAPUTO NULLA. Si è saputo che era stata presentata da Ionta il 7/8 di luglio solo il 28 luglio, quando fu data la notizia dell’archiviazione disposta dal GIP. (fatto piuttosto incredibile, francamente). Sulla richiesta di archiviazione di Palermo, la stampa non ha fatto tempo a dare alcuna informazione prima che morisse il giudice, nonostante sia stata firmata da Scarpinato il giorno prima, perché è stata depositata con tutte le firme e resa nota il giorno dopo la morte del giudice.
Così Borsellino non ha saputo, per fortuna. Pace all’anima sua.
Se le ordinanze di archiviazione fossero state emesse entrambe subito dopo la morte di Borsellino, soprattutto quella su "mafia e appalti" molto attenzionata dalla stampa, si sarebbe potuta ritenere una strana coincidenza, ed un’iniziativa inopportuna dopo l’eliminazione del giudice, che avrebbe potuto accendere sospetti e polemiche anche soltanto per la sensazione che appena uscito il gatto due topi si siano precipitati immediatamente sul formaggio. Se non si fosse infine disposta l’archiviazione di un’inchiesta particolarmente incandescente in un giorno in cui si pensa ad altro e la maggioranza dei cittadini, giornalisti compresi è fuori e si riposa, e quando rientra pensa a tutt’altro, farlo in un altro momento avrebbe magari suscitato maggiori polemiche “a caldo” e dubbi sull’iniziativa.
Fortunatamente, e naturalmente per coincidenza, l’inchiesta sui fondi PCUS e KGB fu archiviata il 27 luglio, mentre l’ ordinanza di archiviazione dell’inchiesta "mafia e appalti" è stata depositata e firmata il 14 di agosto, vigilia del ferragosto.
Così l’evento ha perso d’importanza e nessun giornalista, per fortuna, ha pensato, neppure per voglia di protagonismo, a collegarlo con la morte di Paolo Borsellino.
Come emerge quindi da questa analisi di una serie di tempistiche particolarmente fortunate, il fato e la sorte propizi hanno fatto si che tutto quanto è avvenuto nei palazzi di Giustizia di Roma e Palermo, tra il 7 di luglio ed il 14 di agosto,su quelle due inchieste, non ha interagito con la vita e con la morte (19 luglio) di paolo Borsellino, neppure per sfioramento.
Sorte propizia con chi detesta i veleni e le polemiche sulla Giustizia, ma crudele con il magistrato, perché Borsellino ci teneva tanto a quelle inchieste, e bastava che una sola di quelle condizioni che si sono verificate (ed erano tante), non si verificasse, che il destino di quelle inchieste e di quella riguardante la morte di Borsellino, sarebbe probabilmente cambiato.
Alla prossima.
Enrix
Enrix, lei e’ un mito.
Luigi
Enrico,che Gomez sia peggio di Travaglio?
Ciao grande!
Maury
Buongiorno,
vorrei entrare subito nel merito di alcuni passaggi. Partiamo dall’articolo di Gomez:
È indiscutibile, poi, che anche Borsellino, subito dopo la morte dell’amico, si sia messo a battere pure il fronte dei lavori pubblici. Proprio per questo ebbe allora un incontro con Antonio Di Pietro, all’epoca uomo simbolo di Mani Pulite, e, secondo Mori, il 25 giugno discusse la questione appalti anche con lui e De Donno: un’inchiesta senz’altro rallentata, se non insabbiata, nei mesi successivi.
Ciò che ritiene Gomez indiscutibile io lo discuto e chiedo a tutti:
- quale è la fonte principale alla base della tesi che Borsellino fosse interessato a riprendere il filone mafia e appalti?
sono Mario Mori e Giuseppe De Donno riguardo il loro incontro con Borsellino, che non può né smentire né confermare perché è morto. Altra domanda quindi:
- che riscontro abbiamo per verificare la veridicità della testimonianza di Mario Mori e De Donno circa i colloqui con Borsellino il 25 giugno 1992?
Risposta: nessun riscontro. Noi dovremmo fidarci di quello che loro dicono.
Questo per me è sufficiente per dire che non possa essere affermato con certezza che Borsellino ritenesse quella pista fondamentale per capire le ragioni della morte del suo amico.
Enrix, tu parli di: …accertata conoscenza da parte del magistrato dei contorni e dei dettagli della delicatissima inchiesta sulla mafia e sugli appalti…
Borsellino conosce talmente bene i dettagli di quella inchiesta e la considera così importante che solo il 25 giugno, stando sempre a Mori e De Donno, si incontra con i due carabinieri per dare un nuovo impulso a quella indagine.
Due parole sulle “presunte” trattative tra Ciancimino e i carabinieri. Non sono presunte ma dovrebbero essere considerate certe se si ritenessero attendibili le testimoninze di Mori e de Donno negli anni 90. Mori nega che quella con Ciancimino sia stata una trattativa ma è solo una questione semantica: quello di cui lui ha parlato è una trattativa che non si è conclusa con un accordo (sempre stando alle sue parole). Il problema è un altro: capire se quella trattativa coincida con quella del papello.
A mio avviso, non si sono elementi per poterlo affermare.
In generale, per quanto riguarda la pista mafia e appalti, io non credo a quello che Mori e De Donno dicono sul 25 giugno. Non credo, infine, che quella pista sia il movente principale per l’uccisione di Paolo Borsellino.
Andrea G.
Andrea, naturalmente io rispetto le tue convinzioni.
D’altro canto, come dici tu, alle affermazioni prive di riscontri solidi bisogna sempre guardare con la giusta diffidenza ed attenzione.
Così ad esempio neppure io, almeno per il momento, credo a Massimo Ciancimino ed alle tempistiche da lui indicate in merito alla "trattativa", anche perchè a dirci di credergli è stato Riina in prima persona, non so se mi spiego.
Comunque ho documenti in merito alle questioni da te sollevate che ho in programma di pubblicazione più avanti,e non vorrei per ora fare anticipazioni.
Però, poichè era mia intenzione varare oggi una rubrica periodica (ma saltuaria, non giornaliera) dal titolo "appunti" (brevi note da tenere presente, passaggi, dichiarazioni, stralcetti di giornale, insomma, appunti), approfitto per pubblicare nell’appunto n°1 un virgolettato che, almeno parzialmente, potrebbe servire a chiarire una tua perplessità.
Post n°1273 pubblicato il 13 Novembre 2009 da vocedimegaride
Tag: Bruno Contrada, Gioacchino Basile, Giustizia, Ida Contrada, mafia, Pentiti
di Marina Salvadore
Con abbondante anticipo sulla data prevista del 20 novembre, registriamo in appena un mese la terza imbarazzante sentenza negativa alle legittime istanze dello spauracchio di Stato, Bruno Contrada. Da troppo tempo seguiamo le sue contraddittorie vicende giudiziarie, la stanchezza ci ha spossati, vinti ma mai convinti o piegati; ha – tutt’altro! – avvalorato le nostre tesi, confermati i nostri sospetti, certificate le nostre investigazioni mediamente intelligenti! Gli sconfitti, pertanto – in questa trucida odissea – sono LORO, i giustizieri cazzimmisti dalla copertina troppo corta, ormai, per coprire le lordure putrescenti dei loro ventennali fasti, in qualità di Traditori del Popolo Sovrano, della LEGGE, della Democrazia. Dello Stato! Abbiamo più volte fatto osservare ai mafiosi dell’antimafia che l’accanimento terapeutico sul capro espiatorio Contrada finiva col mettere in luce le loro più recondite e segrete masturbazioni mentali, pacchianamente acclaratesi proprio per via dell’atteggiamento negazionista e punitivo oltre ogni decenza su di un uomo già morto! Avevamo, più volte, sollecitato un confronto civile; in silenzio abbiamo stoicamente subito i loro attacchi informatici ed alla nostra sfera privata. Abbiamo sempre mostrato il volto e offerto il fianco, nella speranza che qualcuno tra loro recuperasse ragionevolezza e dignità.Siamo un esercito, noi sostenitori di Bruno Contrada, che ingrossa le sue fila quotidianamente, dinanzi a tanta bieca arroganza dei nuovi Robespierre… siamo un esercito sulla immaginaria “linea Maginot” tracciata dai nuovi illuministi, dal nemico, sui labili confini tra la Legge e la Giustizia, in questo “paese” che vantava d’essere la culla del Diritto! Come cita l’ennesimo laconico comunicato-stampa “La settima sezione della Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai legali di Bruno Contrada avverso alla decisione con la quale il Gip di Caltanissetta, Ottavio Sferlazza, nel marzo scorso ha archiviato l’esposto su “presunte condotte diffamatorie e calunniose tenute ai suoi danni al fine di screditarlo” e che, secondo l’ex funzionario del Sisde, sarebbero state tenute anche da “alcuni collaboratori di giustizia e alcuni appartenenti alle forze dell’ordine”. A questo punto, riproponiamo il medesimo quesito: Chi ha paura di Bruno Contrada?… di un uomo che nel suo esposto chiedeva fossero cercate prove autentiche a suo carico, facendo lucidamente nomi e cognomi dei suoi calunniatori, precisando date e luoghi che l’avevano visto operativo laddove, invece – benchè privo, egli, del dono dell’ubiquità – altri l’avevano invece intravisto altrove, sulla sola base di immondi inciuci tra compagni di merende, depravati menzogneri carriera-dipendenti. Eppure, oggi, allo “STATO” DEI FATTI, Bruno Contrada è forse l’unico sopravvissuto che può raccontarci dell’eldorado giacobino, l’unico testimone attendibile di quell’epopea che gettò la sue radici italiote sin dal 1948; rigogliosamente fiorita, poi, al crollo della Prima Repubblica ed attestatasi rapace, bugiarda, assassina e perfida nell’annus horribilis 1992… e non si capisce come mai anche quei politici liberali e cattolici della nuova era, tuttora al Governo e nel pieno Potere, alcuni indagati ed in procinto di arresti per il medesimo “reato che non esiste” per cui è stato bollato a vita Contrada, non vadano a cercarsi la VERITA’ ove questa è depositata, non usino questa VERITA’ neppure per difendere se stessi, non liberino Contrada dal fango nel quale l’hanno calato insieme ad una Repubblica, all’Italia intera! Non siamo in grado di produrci in cervellotiche minzioni; ci poniamo elementari domande… Perché i radicali che hanno difeso così strenuamente il povero Enzo Tortora, non hanno espresso tale foga nel sostenere le ragioni di Contrada? Perché Cossiga, dichiaratosi spontaneamente teste a favore del generale Contrada, nel suo ultimo libro “La Versione di k” che tratta degli inestricabili misteri italiani – da Abaco a Zuzzurellone – glissa su Contrada che non è neppure menzionato nell’indice corposo dei nomi? Perché le Procure e la Cassazione continuano ad ignorare che dal ’90 al ’94 a Castello Utveggio c’era Antonio Ruggeri, amico di Caselli e NON Bruno Contrada? Perché e come hanno fatto carriera gli ufficiali dei carabinieri Raffaele Del Sole e Umberto Sinico ed altri calunniatori in divisa, citati con alcuni “pentiti” nell’esposto legittimo di Contrada, divenuto un “tabù”, uno spauracchio ancora più terrificante del suo stesso autore? In questa Cloaca Massima ch’è la degenerazione del far POLITICA, in Italia, sprofondata nel letame delle vie fognarie dell’analogo Grande Fratello televisivo, all’accattonaggio di prouderie, volgarità, camere da letto e fumerie, sarebbe davvero auspicabile ed interessante che fosse proprio Bruno Contrada a sparare il suo dossier di memorie, con nomi, fatti, situazioni, memorie… piuttostochè affidarle alla pietà dei posteri che comunque sarebbero poi accusati anch’essi delle divulgazioni postume di un morto; esattamente come denunciammo noi sostenitori a proposito del suo processo dove le parole infilate nelle bocche aperte dei morti, furono profferite dai pendagli da forca! E’ stanco ed ormai rinunciatario, Contrada. Ha accettato cristianamente il suo Golgota e la sua Passione ma il suo esercito non può dichiarare la disfatta, perché è la disfatta di un Popolo, di una Civiltà che, vigliaccamente, abbandonerebbe i suoi figli e nipoti nelle grinfie della dittatura; occorrono ancora forza e coraggio o, forse, un impulso di vandea con l’uso delle medesime armi del nemico. Speriamo che Bruno Contrada raccolga questo disperato appello, ora che anche la sua coraggiosissima sorella Ida, non vedente, si è appena affacciata sul socialnetwork Facebook, dal quale scaglia le sue piccole ma regali offensive. Ha già raccolto attorno a se’, in due giorni, un centianaio di estimatori. Il suo messaggio di benvenuto ai nuovi amici così recita: “ Ci vuole coraggio ad essere amico di "un" Contrada! Ringrazio tutti i coraggiosi italiani VERI che non mi hanno negato la loro amicizia, temendo di finire in una lista di proscrizione! GRAZIE! OBBLIGATA!"… la sua scheda di presentazione, è la seguente: “SONO LA SORELLA DELL’UNICO CONDANNATO A MORTE DELL’ITALIA DEL DOPOGUERRA, BRUNO CONTRADA. SONO NON VEDENTE MA FINO A QUANDO AVRO’ VOCE LOTTERO’ COME UNA TIGRE PER LA DIGNITA’ E L’ONORE DI MIO FRATELLO!”… ed ha già anche partecipato ad un’iniziativa “politica” di protesta, sottoscrivendo e diffondendo la petizione pubblica per l’audizione del sindacalista Gioacchino Basile alla commissione Antimafia (n.d.r. Basile fu candidato quale teste a carico di Contrada)) con queste parole: “Vi invito a firmare coraggiosamente questa petizione. Nonostante Gioacchino Basile debba chiarirsi molte idee sul conto dell’operato "specialistico" di mio fratello Bruno (benchè nella sua lettera a Salvatore Borsellino l’abbia dichiarato INNOCENTE) aderisco al suo invito a fare chiarezza e PRETENDO che sia ascoltato dalla Commissione Antimafia! Poi, verrà il giorno in cui si ricrederà su mio fratello e potremo anche stringerci la mano! In fondo, dalle nostre diverse sponde combattiamo …
anonimo 13:55 on 11 June 2010 Permalink |
Ma allora sei vivo!Temevo che la mafia ti avesse eliminato.Moritz
aspis 21:38 on 11 June 2010 Permalink |
certo che cercare nuove nuove sul blog, più volte al giorno, vanamente, per tanti giorni è stressante… poi bastano due righe e si riapre lo spirito… grazie Enrix.renzo
enrix007 00:16 on 12 June 2010 Permalink |
Ragazzi, la vostra pazienza sarà premiata.La prossima settimana esce il mio libro."Le lettere della mafia a Silvio Berlusconi nella mitopoiesi di Massimo Ciancimino" – 145 pag – edizioni Segugio.Da leggere sotto l'ombrellone quest'estate.
anonimo 13:20 on 13 June 2010 Permalink |
Gaudio magno!Edizioni segugio?Ma lo trovero' in libreria?Luigi
anonimo 23:58 on 13 June 2010 Permalink |
Dai, Enrix dicci dove si trova!cesare
anonimo 00:00 on 14 June 2010 Permalink |
P.S.sono contento che tu non abbia scritto "mitopoietica" ma mitopoiesi, non so se ti sei accorto del mio commento tempo fa…cesare
anonimo 13:56 on 16 June 2010 Permalink |
Finalmente!Maury
anonimo 12:39 on 20 June 2010 Permalink |
Ho trascritto l'ultima parte perchè ci dà una idea di quello che è realmente successo.Noi ci inseriamo inconsapevolmente in un terreno estremamente minato, sconoscendo chiaramente che verosimilmente qualcuno stava discutendo realmente con cosa nostra, e non per gli stessi obiettivi che noi perseguivamo.Se trattativa esisteva probabilmente era condotta da qualche parte sicuramente politica o rappresentativa di alcuni interessi economici, di lobby, che però era realmente in grado di mantenere eventuali promesse.Poi in questa intervista De Donno non dice che quando Ciancimino si appresta a fare il grande passo e ad iniziare a collaborare, proprio in quel momento viene arrestato.Era un pericolo.E viene arrestato.bart_simpson