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    enrix 16:14 on 2 March 2010 Permalink | Rispondi
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    NUOVO CINEMA CIANCIMINO 

    Nuovo cinema Ciancimino

    Non solo la fantomatica trattativa tra Stato e mafia, il figlio di don Vito dice la sua anche su Ustica, Gladio e caso Moro. Ecco il diario del nuovo vate d’Italia

    di Chiara Rizzo

    Il titolo è prosopopeico: Nel nome del padre. Il sottotitolo non da meno: “Sono ventitrè gli interrogatori di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. E una valanga i pizzini che riscrivono la storia dei misteri d’Italia, da Gladio alle stragi del ’92, sino ai politici di oggi. Citati con nome e cognome. Eccoli”. Massimo Ciancimino detto Junior, il figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito, il testimone chiave al processo di Palermo contro il generale Mario Mori per la mancata cattura del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, oggi è diventato il vate dei misteri d’Italia. Non bastavano la riduzione della condanna per riciclaggio e la ribalta televisiva.
    Nel nome del padre è già alla seconda edizione. La prima, tremila copie, è andata esaurita in una sola settimana. Il libro è pubblicato dall’editrice siciliana Novantacento, che edita anche un mensile di cronaca che ha tra i suoi collaboratori fissi il sostituto procuratore Antonio Ingroia, titolare dell’accusa al processo Mori. Il coordinatore editoriale della rivista Claudio Reale spiega a Tempi che la pubblicazione dei verbali di Ciancimino è stata possibile perché gli atti non sono stati segretati. Purtroppo per Junior, verrebbe da aggiungere. Più che una raccolta di verbali, è un divertissement da spiaggia, non fosse che le deposizioni di Junior infiammano da mesi la pletora di cronisti giustizieri e infangano il lavoro di due ufficiali che hanno combattuto la mafia rischiando la vita.
    Secondo Massimo Ciancimino, infatti, il padre don Vito fu contattato nel 1992 da Mori e dall’allora capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno per intavolare una trattativa con Totò Riina e indurlo alla resa. Ma papà Ciancimino sarebbe stato protagonista anche di una seconda trattativa, con i carabinieri da una parte e Provenzano dall’altra, finalizzata alla cattura di Riina, in cambio dell’immunità a Provenzano. Le parole di Massimo smentiscono lo stesso don Vito, che ha sempre raccontato di aver tentato una collaborazione con Mori e De Donno per arrivare alla cattura di Riina, sì, ma di non esservi riuscito. Non vi fu, secondo don Vito, alcuna trattativa: si era tentato di far arrendere Riina, ma le richieste presentate da questi non vennero mai prese in considerazione da Mori che voleva la resa immediata o la cattura; inoltre successivi tentativi di don Vito di collaborare alla cattura di Riina si bloccarono col suo arresto. Poi arriva Massimo e riscrive la storia con i fuochi d’artificio. Il 6 giugno 2008, Massimo rivela ai pubblici ministeri Ingroia, Di Matteo e Gozzo il vero motivo per cui sarebbe finita la latitanza record (43 anni) di Bernardo Provenzano. Racconta che il boss, ricercato dalle polizie di mezzo mondo, visitava regolarmente don Vito, mentre questi era agli arresti domiciliari nella sua casa romana nei pressi di piazza di Spagna a Roma. I pm palermitani per poco non cadono dalle sedie: «Ah, lei lo ha visto… lei disse a suo padre “ma come questo super latitante viene a casa di uno agli arresti domiciliari”?». Risponde Massimo: «Secondo mio padre doveva essere un accordo a monte che garantiva il tutto, perché mio padre mi disse: “Non ti scordare che nel momento in cui vorrà, si consegnerà lui”». Junior si sente incoraggiato e prosegue: «Mio padre mi disse poi una frase che era importante: “Perché un uomo quando non riesce ad andare al bagno… non ha più senso niente”. Era quello che capitava a mio padre, perché non era autonomo. Mio padre, come Provenzano, aveva avuto problemi di prostata e avevano parlato di queste cose, che la vita quando non hai questo tipo di autonomia…». Dunque Binnu, la primula rossa di Cosa Nostra, non finì in galera per la bravura delle forze dell’ordine. No, fu solo questione di pipì.
    La scena madre di Junior, invece, ha al centro il fantomatico papello. Ai pm Massimo lo indica come la prova regina della trattativa Stato-mafia, ma per mesi rinvia la consegna, sostenendo che si trova in un caveau all’estero. Stremati dal tira e molla durato più di un anno, il 23 gennaio 2009 i pm Di Matteo e Ingroia, alla presenza del procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, mettono Junior alle strette. Ingroia: «Noi riteniamo che lei oggi debba indicarci quanto meno il paese, la banca, dove si trova questa cassetta di sicurezza, noi attiveremo tutte le rogatorie…». Nell’austero ufficio della procura accade l’imprevedibile: “Ciancimino singhiozza” riporta il brogliaccio dell’interrogatorio. L’avvocato di Junior, stralunato, interviene: «Perché piangi?». Ingroia incalza: «Se c’è necessità di fare una selezione di documenti privati che non hanno rilievo investigativo, avrà la possibilità di non consegnare queste cose però noi la preghiamo, la invitiamo caldamente, oggi di concludere l’interrogatorio dandoci queste indicazioni…». L’avvocato di Ciancimino: «Scusa ma perché piangi?». E Junior, tra le lacrime: «No, non ve lo indico». Ingroia: «Non ce lo indica…». Junior riprende: «Vi avevo chiesto un minimo di segnali da dire: ne vale la pena…». Passerano altri nove mesi prima che in procura vedano il famoso papello. Veniamo infine alla benedetta trattativa, cuore pulsante delle dichiarazioni di Junior. Massimo ne parla fin dal 7 aprile 2008. Però le versioni che riporta, con il tempo, si arricchiscono di nuovi particolari. All’inizio si limita ad anticipare le date degli incontri tra il padre e i carabinieri al giugno del 1992. Assicura che don Vito si fida di loro. Sostiene che il padre tenta di collaborare con i carabinieri per fare catturare Riina e contatta Provenzano per scoprire dove si nasconda. «Sembra fantapolitica» dice Junior ai pm il 7 aprile 2008. Parole sante. Nelle puntate successive degli interrogatori la vicenda si complica.

    «Un nome l’aveva, mi creda»
    Nel racconto appare anche un misterioso agente dei servizi segreti, che per anni sarebbe stato in contatto con don Vito e che nella trattativa avrebbe detto al sindaco che dietro i carabinieri c’erano due politici, gli allora ministri Nicola Mancino e Virginio Rognoni: «Non lo so se si chiamava Carlo, Franco… un nome l’aveva, mi creda» dice Junior. Davanti al racconto i dubbi non mancano. Ad esempio: dal negoziato Provenzano avrebbe guadagnato l’incolumità, ma cosa ci guadagnava don Vito? Arrestato, rimasto in carcere fino al 1999 e ai domiciliari fino alla morte, Ciancimino senior ha sempre sostenuto la versione di Mori. «Era una versione di comodo» dice Junior, e cerca di tappare le falle della ricostruzione con suggestioni di peso: «Mio padre pensava di essere stato scavalcato nella trattativa. Da Dell’Utri». Insomma. Alla fine nella ricostruzione di Massimo ci sono almeno tre trattative. Una tra i carabinieri, don Vito e Riina. Un’altra tra i carabinieri, il signor Franco, Rognoni e Mancino, don Vito e Provenzano. Un’ultima tra Dell’Utri e Provenzano e non si sa più chi altro. Dopo tutto questo, la domanda sorge spontanea anche nei pm. Chiede Ingroia il 12 dicembre 2008: «Ma allora, se c’era bisogno delle garanzie del signor Franco, che bisogno c’era di fare la trattativa tramite Mori e De Donno, perché suo padre non la faceva direttamente col signor Franco?». Junior ci pensa su: «Perché il signor Franco non l’aveva mai proposto a mio padre… non si è mai fatto portatore dell’arresto di Provenzano e Riina… Lui per mio padre era un trait d’union…». Ma con chi e perché ancora non si è capito. Arrivederci alla prossima puntata di questa tragicommedia.

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     
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    enrix 09:47 on 15 February 2010 Permalink | Rispondi
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    La trattativa Stato-mafia ha le gambe corte

    Ecco tutte le contraddizioni di Ciancimino jr, il teste superstar che ha dato lustro al processo di Palermo. E i motivi del rancore che spinge i pm antimafia a inseguire un teorema «indimostrabile» pur di «incastrare i carabinieri». Parlano Jannuzzi e Macaluso

    di Chiara Rizzo

    È durato tre giorni lo show di Massimo Ciancimino dall’aula bunker dell’Ucciardone l’1, il 2 e l’8 febbraio. Junior (come ormai lo chiamano) ha parlato al processo contro il generale Mario Mori, accusato di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Il cuore della deposizione sta nella presunta trattativa che i carabinieri (Mori e l’allora capitano Giuseppe De Donno) avrebbero intavolato con lo stesso Provenzano e Vito Ciancimino, il sindaco di Palermo condannato per mafia, per la cattura di superlatitanti (in cambio dell’impunità per il boss Binnu ’u Tratturi). La deposizione fiume di Junior, però, è andata oltre: inforcati gli occhiali nuovi modello Grillini, Ciancimino ha parlato di servizi deviati e grandi architetti, del sequestro Moro, di Ustica. E soprattutto ha descritto Marcello Dell’Utri come referente politico della mafia. Risultato? Telecamere, flash, perfino un libro.
    E fin qui, il circo mediatico. Ma i fatti? Massimo Ciancimino ha raccontato che il padre chiese ai carabinieri le mappe catastali di Palermo e le utenze di luce, acqua e gas. Poi le consegnò a Provenzano, il quale gliele restituì dopo aver cerchiato con un pennarello la zona di Palermo dove si trovava la casa di Riina e annotando alcune utenze. Peccato che nel 1993, davanti a Ingroia e Caselli, papà Ciancimino spiegava di aver chiesto le mappe «perché esaminando questi documenti e facendo riferimento a due lavori sospetti, in quanto suggeritimi a suo tempo da persona vicina ad un boss, fornissi elementi utili per l’individuazione di detto boss».
    Al processo Mori, Junior ha giurato di aver visto coi suoi occhi il padre incontrare Bernardo Provenzano, e che quella del ’93 era una versione di comodo. Eppure lo stesso Junior il 7 aprile 2008 aveva detto ai pm Ingroia e Nino Di Matteo: «Io dentro di me penso che (la trattativa) sia stata fatta col Provenzano», ma «queste sono deduzioni mie». Quanto alle mappe di Palermo consegnate a Provenzano affinché questi indicasse l’abitazione di Riina, Ciancimino oggi dice di essere stato egli stesso il “postino”. Ma nel 2008 raccontava a Ingroia e Di Matteo: «Le mappe (a Palermo) non sono scese sicuro, glielo assicuro, perché mio padre, quando De Donno mi consegnò le mappe, mi disse di nasconderle… Credo che ci fu un incontro dove mio padre nelle mappe indicò al capitano De Donno una zona». E solo dopo le domande dei pm quel 7 aprile Ciancimino spiegava che il padre aveva indicato la zona sulla base di informazioni acquisite da Provenzano: «Mi sembra che lo ha incontrato».
    Cosa è accaduto tra il 2008 e il 2010? C’entra qualcosa il fatto che Massimo, condannato nel marzo 2007 per riciclaggio e tentata estorsione, il 30 dicembre 2009 si sia guadagnato una riduzione della pena in appello (due anni e quattro mesi di reclusione in meno)? E il fatto che da quando ha iniziato a parlare Junior abbia guadagnato una certa visibilità mediatica (oltre che la scorta)?
    Quello delle mappe è un punto debole della deposizione di Junior anche per Lino Jannuzzi, giornalista ed ex senatore di Forza Italia. Jannuzzi ebbe cinque incontri con Vito Ciancimino. E a Tempi assicura: «A me raccontò i fatti per come li sostiene da sempre il generale Mori». E la teoria della trattativa? «Solo fango che non si può provare. Che bisogno c’era di mappe catastali e delle utenze di luce e gas se i carabinieri potevano chiedere direttamente al “collaborante occulto” Provenzano dove si trovava Riina? La verità è che Ciancimino conosceva i proprietari della casa di Riina, ecco perché trafficava con le mappe, cercando di localizzare la zona attraverso le intestazioni di luce e acqua».
    Jannuzzi scava nella memoria: «Nella sua casa romana di via San Sebastianello, Vito Ciancimino mi raccontò che aveva tentato di aiutare i carabinieri ad arrestare Riina, ma non ci riuscì, perché lui stesso fu arrestato. Alluse anche a Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, a cui chiese più volte un incontro. Secondo lui Violante voleva impedire che Andreotti diventasse presidente della Repubblica, e voleva processarlo. Ecco perché, sempre a suo dire, Violante non lo aveva incontrato». Di queste cose, ribadisce Jannuzzi, «la procura di Palermo è a conoscenza da anni. Ma da anni cerca disperatamente di andare contro i carabinieri. Il motivo di questo rancore? I teoremi della procura. Il generale Mori ha difeso Bruno Contrada dicendo chiaramente che era impossibile fosse colluso con la mafia. E furono i carabinieri a tentare di riportare in Italia dagli Usa Tano Badalamenti, che poteva sbugiardare Tommaso Buscetta al processo Andreotti». E poi fu il capitano dei carabinieri De Donno ad accusare la procura palermitana di aver insabbiato, dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, l’inchiesta “Mafia e appalti”, ritenuta decisiva dai due giudici.

    Il capro espiatorio
    «Non si può processare Mori per le lunghe latitanze dei boss: come Provenzano, anche Riina è stato latitante a lungo, e questo perché c’era un sistema politico. Mori è un capro espiatorio per processare un sistema», argomenta Emanuele Macaluso, ex senatore Pds e direttore di Le ragioni del socialismo. Per Macaluso bisogna distinguere: «Sulla questione della trattativa, ritengo ci sia stata una fase del contrasto alla mafia in cui si usavano le fonti per arrivare agli arresti. Erano i metodi usati da carabinieri e polizia per colpire la mafia. Secondo me fu un errore. Ma detto ciò, io non vedo collusione, e neanche trattative. Che razza di trattativa ci poteva essere se poi si è arrivati all’arresto di Riina e dello stesso Ciancimino?». Macaluso chiarisce: «Se parliamo della lunga latitanza di Provenzano dobbiamo pensare anche a cos’era la Sicilia della Prima Repubblica. Giuseppe Alessi, in un’intervista sul Corriere della Sera, prima della morte ha ammesso: dovevamo scegliere se tollerare la mafia o rassegnarci al comunismo. E lo stesso Andreotti ha parlato più volte di “convivenza” fino a quando la mafia non ha attaccato lo Stato, alla fine degli anni Settanta. Penso sia stata una precisa scelta politica».
    E sulle accuse di Junior «occorre che i giudici valutino a mente fredda. Sui morti si può dire di tutto, ma fa fede ciò che Vito Ciancimino disse in vita. Purtroppo i magistrati ritengono di non poter sbagliare, perciò si accaniscono contro Mori, già assolto per la mancata perquisizione del covo di Riina». Ma il teorema della trattativa continua.

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     
    • anonimo 10:34 on 15 February 2010 Permalink | Rispondi

      A proposito della volontà dei carabinieri di far deporre Badalamenti, ho sentito Jannuzzi ad un convegno dire che tra quei carabinieri c’era anche Mauro Obinu, il quale, mi pare, avrebbe addirittura redatto un verbale o comunque un documento nel quale menzionava la risposta datagli da un magistrato, che gli avrebbe detto di lasciar stare Badalamenti perchè se no rovinava il processo ad Andreotti. Il nome del magistrato dovrebbe essere fatto nel libro "Lo sbirro e lo stato". Però, non so fino a che punto è credibile che un magistrato confessi così apertamente ed in via confidenziale ad un carabiniere il suo terrore che Badalamenti smentisca Buscetta.

      Moritz

    • anonimo 10:45 on 15 February 2010 Permalink | Rispondi

      Comunque, sarebbe interessante sapere quali furono le esatte indicazioni che Vito Ciancimino diede ai carabinieri. Ricordo infatti che fino a pochi giorni prima della cattura di Riina, essi non sapevano nemmeno chi erano i Sansone, individuati poi con l’aiuto di Balduccio di Maggio. Quindi, quali proprietari di casa conosceva Ciancimino?

      Moritz

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    enrix 11:19 on 28 December 2009 Permalink | Rispondi
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    I comodi dei pentiti 


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    Mafia, sparate e bugie sotto protezione

    L’inattendibile Spatuzza è solo l’ultimo di una lunga serie di pentiti che hanno fatto i propri comodi a spese dello Stato. Ecco il bestiario


    di Chiara Rizzo

     

    «Spatuzza sostanzialmente ha riferito di aver tratto dei convincimenti sulla base di informazioni giornalistiche». È il 4 dicembre e così il presidente della corte d’Appello di Palermo, Claudio Dall’Acqua, che sta processando Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, chiosa sulle dichiarazioni del teste star, il pentito Gaspare Spatuzza, per settimane indicato da giornali e tv come latore delle verità nascoste della Seconda Repubblica. Stragi, trattative, mandanti occulti. Spatuzza avrebbe rivelato tutto. Poi, quel 4 dicembre, arriva in aula. E il caso si sgonfia. Perché Gaspare “u tignusu”, ex killer di Cosa Nostra, racconta con dovizia di particolari l’organizzazione delle stragi del ’93 nel continente. E anche il fallito attentato all’Olimpico del gennaio ’94. Poi, però, gli chiedono il motivo per cui è lì in aula. Cosa sa dei collegamenti tra la mafia e Dell’Utri (e il premier Silvio Berlusconi). E qui Spatuzza tentenna. Del resto un semplice killer non dovrebbe essere informato sui rapporti tra i boss e la politica. «Io e quei quattro pazzi che mi portavo dietro eravamo utili solo per fare omicidi», ammette il pentito parlando del breve periodo in cui è stato reggente del mandamento Brancaccio. In aula, infatti, Gasparino spiega di aver collegato i nomi di Dell’Utri e dei fratelli Graviano (i suoi boss) per la prima volta nel ’90, dopo l’apertura di una filiale Standa nel quartiere palermitano. Perché? «La Standa era di proprietà di Berlusconi». Poi, ancora, racconta di aver fatto collegamenti tra Vittorio Mangano (lo stalliere di Arcore), Dell’Utri e Berlusconi «acquisendo queste cose delle cronache giornalistiche». La voce del pentito si fa molliccia, da curato di campagna. Spatuzza si sofferma sui tormenti della conversione, meno sui dati di fatto. Racconta che Filippo Graviano (che lo ha smentito) nel 2004 gli confidò: «Se non arriva niente da dove deve arrivare, parleremo ai magistrati». Racconta che anche Giuseppe Graviano gli fece una confidenza nel ’94: «Grazie a Berlusconi e Dell’Utri ci siamo messi il paese nelle mani». Perciò, sostiene Spatuzza, «ho fatto il collegamento». E il presidente Dall’Acqua, in aula, commenta: «Non è un fatto accaduto nel tempo e nello spazio, questo collegamento è un fatto accaduto nella mente di Spatuzza».

     Ma Spatuzza non è il primo pentito balzato alle prime pagine a rivelare di aver fatto deduzioni sulla base di quanto letto negli stessi giornali. Un corto circuito dagli effetti devastanti, genere in cui maestro riconosciuto resta Giovanni Brusca, l’uomo che azionò la bomba di Capaci. Brusca ci prova due volte. La prima il 21 gennaio1998, al processo a Firenze per la strage di via dei Georgofili, lanciando accuse pesantissime: «Siamo stati strumentalizzati, pilotati, dall’Arma». Salvo poi ammettere candidamente: «L’ho dedotto dai giornali». La seconda volta il 22 maggio 2009, a Palermo: Brusca, durante il processo contro il generale Mario Mori, ritorna ad accusare i carabinieri di aver trattato con Cosa Nostra, e parla di un papello che proverebbe la trattativa. «Come conosce il contenuto del papello?», gli chiede uno dei difensori di Mori. E Brusca, pacifico come un angioletto: «L’ho letto su Repubblica».

    Le cronache raccontano anche di pentiti pronti a dichiarare la qualsiasi pur di farsi ammettere al programma di protezione, salvo poi rivelarsi per quel che sono. Mendaci. È il caso di Carlo Vavalà, ex pastore di Vibo Valentia, affiliato alla ’ndrangheta, condannato per il sequestro e l’omicidio del dentista Gian Carlo Connocchiella. Dopo l’arresto, nel ’97, Vavalà fa il nome del presunto killer di Connocchiella ed entra nel programma di protezione. Nel 2000 la corte d’Assise di Catanzaro assolve la persona accusata da Vavalà. Evidenziando la «pervicace e recidiva menzogna» del pentito Vavalà, «per di più mentitore confesso». Il programma di protezione viene revocato.

     Poi ci sono i pentiti che accusano altri per sgravarsi dalle proprie responsabilità. Michele Iannello, affiliato alla ’ndrina dei Mancuso di Limbadi (Vv), è arrestato per l’omicidio di Nicholas Green, il bimbo americano ucciso nel ’94 durante una vacanza con la famiglia in Calabria. Iannello entra nel programma di protezione nel ’95, perché fa arrestare numerosi membri della cosca. O almeno così fa credere lui: nel 2001 i giudici di Catanzaro, che raccolgono le sue deposizioni, denunciano alla direzione nazionale antimafia che la collaborazione di Iannello in realtà non è mai stata «originale e determinante» per gli arresti. Anche le altre accuse mosse dal pentito, quelle per l’omicidio Green, si rivelano false: Iannello, prosciolto in primo grado, è condannato all’ergastolo in Appello e in Cassazione proprio perché riconosciuto killer del piccolo Green. Nella sentenza la corte d’Assise d’Appello denuncia «il comportamento processuale connotato dal mendacio e da qualche apparente ammissione, distorta e chiaramente volta a deresponsabilizzare la propria posizione». Il programma di protezione sarà definitivamente revocato a Iannello quando quest’ultimo tenterà, nel 2002, di accusare dell’omicidio suo fratello.

     

    Criminali impenitenti

    Diversi pentiti hanno approfittato della protezione dello Stato per continuare a delinquere. Il maître à penser di questa corrente è certamente Balduccio Di Maggio, il boss che mentre racconta ai pubblici ministeri del bacio tra Totò Riina e Giulio Andreotti, ordina omicidi. Arrestato nel ’97, Di Maggio ottiene i domiciliari nel 2000, fingendosi gravemente malato. E torna ai suoi “affari”. Sarà riarrestato a Pisa, nel 2001, mentre organizza un traffico di droga con l’Albania. Alfio Garrozzo collabora con la giustizia facendo arrestare membri del clan Santapaola di Catania. Intanto costruisce una fortuna grazie alla cessione di stupefacenti: programma revocato nel 2003. Maurizio Avola, “il killer dagli occhi ghiaccio” del clan Santapaola, è uno dei pentiti storici della mafia catanese, nonché uno degli accusatori di Dell’Utri. Protezione revocata nel ’97: il pentito è arrestato perché rapina banche insieme ad altri due collaboratori di giustizia. Nel 2008 Avola ci riprova. Racconta ai giudici di aver riconosciuto, sempre su un giornale, il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo come l’uomo che – quindici anni prima – era in contatto con il boss Nitto Santapaola: «All’epoca, però, non sapevo chi fosse Lombardo», spiega. Ma la ciambella non riesce col buco: «Nonostante gli accurati accertamenti svolti nessun riscontro è stato mai trovato alle dichiarazioni del collaboratore Avola» valuta la procura di Catania lo scorso ottobre.

     I pentiti possono essere decisivi nella lotta alle mafie, ma vanno “maneggiati” con cura. Soprattutto quelli con i ricordi a orologeria, l’ultimo grido in fatto di cronaca giudiziaria. Basta ricordare come, il 30 gennaio 2003, durante il processo d’appello a Bruno Contrada, il pentito Antonino Giuffré apre le sue dichiarazioni in aula: «Ho avuto sei mesi per dire quello che sapevo. I sei mesi sono stati pochi e magari non ho avuto il tempo materiale di dire tutto e, se ricordo bene, sul dottor Contrada non ho detto niente. Ragion per cui, non ho detto niente perché non mi sono ricordato. Se il signor procuratore farà delle domande, e io ricorderò, io sono a disposizione».

     
    «Mai sentiti nomi di politici»

    Esemplare il caso di Massimo Ciancimino, anche se tecnicamente non si tratta di un collaboratore di giustizia. Il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo custodirebbe a suo dire le prove della trattativa mafia-Stato, ma se ne ricorda dopo sedici anni, davanti ai pm del capoluogo siciliano. Ai giornali Ciancimino spiega di non aver parlato prima «perché nessuno ha avuto la bontà di interrogarmi». L’ultima autorettifica la fa in studio ad Annozero, il 10 dicembre: «Nel 2006 mi chiesero di non parlare della trattativa» rivela, ma senza specificare chi glielo abbia chiesto. Si attendono nuove versioni da qui al prossimo febbraio, quando Ciancimino jr. deporrà al processo Mori.

    Infine, a proposito di memoria a orologeria, va citato di nuovo Spatuzza, un caso che sembra sintetizzare in sé tante “anomalie”, per usare una parola molto amata dal pentito. Il 9 luglio 2008, davanti ai magistrati di Firenze che lo interrogano sulle stragi del ’93, rivela particolari importanti sugli attentati di Roma e Milano. Ricorda perfino un sopralluogo nella capitale che si trasforma in una sorta di gita mafiosa, tra il Colosseo, l’Eur e le chiese poi scelte come obiettivo. Poi i pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi gli chiedono se il suo boss Giuseppe Graviano abbia mai fatto nomi di politici. Lui risponde: «Né nel corso del colloquio a Campo Felice di Roccella (dove la cosca stava organizzando un attentato, ndr), né in altre circostanze Graviano Giuseppe mi ha mai precisato chi o quali fossero i suoi eventuali contatti. A Campo Felice di Roccella ci parlò genericamente di politica». Il 17 luglio 2008 i pm tornano sull’argomento. Spatuzza dichiara: «Escludo che Graviano possa essersi messo in questa impresa, per fare quella che ho definito una guerra allo Stato, sulla base di un discorso generico. Trassi la convinzione che c’era un vero e proprio accordo. Come ho già detto, Graviano non esternò su chi fosse il politico con il quale aveva questo accordo». E lo ribadisce: «Non ebbi particolare indicazioni da Graviano su chi potesse essere l’interlocutore politico, anche perché i Graviano furono arrestati e quindi tutto finì». E, ai pm che glielo richiedono, lo ripete pure una terza volta. Infine, il 16 giugno 2009, Spatuzza è di nuovo interrogato. Durante il colloquio il suo avvocato gli comunica che le procure di Caltanissetta e Palermo hanno espresso pareri favorevoli alla sua ammissione al programma di protezione. A questo punto Spatuzza inizia a parlare: «Circa i nomi delle persone con le quali l’accordo si era chiuso egli (Graviano) fece esplicitamente il nome di Berlusconi». L’iter per garantire a Spatuzza lo status di pentito è stato formalizzato solo dopo queste parole.

    24 Dicembre 2009

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     
    • anonimo 13:32 on 22 April 2010 Permalink | Rispondi

      Ciao Enrix,volevo sapere cosa ne pensavi del processo Andreotti. Tu credi alla prescrizione, cioè che abbia commesso il reato fino al 1980?Una delle incolpazioni più gravi è stata quella di aver parlato con Bontate dell'omicidio Mattarella, prima che avesse luogo. Bontate gli disse che Mattarella rompeva i coglioni, e che se lui non faceva qualcosa lo ammazzava. E così avrebbe fatto.Se ti può interessare: lo sapevi che, secondo Falcone e Borsellino, Bontate non c'entrava con l'omicidio Mattarella? Lo dicono nella ordinanza di rinvio a giudizio credo del maxiprocesso (del 1986). Ecco il testo:"Nel 1978, veniva ucciso il segretario provinciale di Palermo della D.C., Michele Reina; nel 1979, venivano assassinati il dirigente della Squadra Mobile di Palermo, Boris Giuliano, e l'on.[sic] Cesare Terranova. Di questi fatti di sangue, nè Bontate nè il gruppo a lui vicino (Inzerillo, Riccobono, Pizzuto) venivano informati. Era chiaro che i Corleonesi avevano ormai saldamente in pugno la situazione.L'anno successivo venivano uccisi il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, ed il Cap. CC. Emanuele Basile. Anche a tali omicidi Bontate e i suoi amici erano estranei."(citato in "Rapporto sulla mafia degli anni ' 80", di Saverio Lodato, Francesco La Licata, Lucio Galluzzo, pag. 203.)Moritz

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    enrix 18:50 on 2 November 2009 Permalink | Rispondi
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    INTERVISTA A GIUSEPPE DEL VECCHIO 

    Antimafia fiction: Intervista a Giuseppe Del Vecchio

    Un sacco di buone ragioni per dubitare delle verità del superteste Riccio

    di Chiara Rizzo

    Il processo palermitano al generale Mario Mori nasce dalle dichiarazioni del colonnello dei carabineri Michele Riccio, che nel ’95 lavorò alla cattura di Bernardo Provenzano nell’operazione “Scacco al re”. Già allora Riccio, grazie alle indicazioni fornite dal mafioso Luigi Ilardo, sarebbe stato sul punto di catturare Provenzano, ma Mori avrebbe bloccato tutto. Michele Riccio è un teste rilevante per la procura palermitana: nella catena di accordi tra mafia e Stato, le sue dichiarazioni servono a provare l’anello più importante, l’accordo tra malavitosi e Berlusconi. Riccio riporta infatti le confessioni che gli avrebbe fatto Ilardo, di un elenco di politici in trattativa con la mafia, tra cui Marcello Dell’Utri. Cosa c’è di vero nelle accuse di Riccio? Chi è davvero il grande accusatore di Mori? Il colonnello Riccio è stato alla guida del Ros e della direzione investigativa antimafia (Dia) di Genova fino al 1995, mettendo a segno operazioni contro il narcotraffico, tanto clamorose da far meritare alla sua squadra l’apellativo di “mitica”. Nel 1997, però, Riccio è stato arrestato per la gestione disinvolta dei suoi uomini, delle fonti criminali e dei reperti di indagine. Condannato in primo grado nel 2003 per falso ideologico (per la falsificazione di relazioni di servizio) e traffico di stupefacenti (usava i reperti per ricompensare le fonti), il 14 luglio 2009, in appello, Riccio ha visto la sua pena dimezzata. La prima stranezza sta qui. Perché ad oggi, per i reati di cui sono accusati il colonnello e “La mitica squadra” di Genova, di fatto paga una sola persona: il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Del Vecchio, uno dei più stretti collaboratori di Riccio, agli ordini del quale ha lavorato come agente infiltrato in molte operazioni. Per i tribunali sarebbe stato proprio Del Vecchio il responsabile principale dei reati commessi dagli investigatori genovesi. Mentre Riccio, il vertice di un reparto militare dell’Arma con una forte organizzazione gerarchica, avrebbe visto, saputo e, misteriosamente, lasciato fare. Una strana conclusione, quella dei giudici genovesi. Anche perché Riccio stimava il suo sottufficiale tanto da affidargli incarichi anche nell’operazione più delicata, “Scacco al re”. Secondo il procuratore generale di Genova, Pio Macchiavello, che ha sostenuto in appello l’accusa contro Del Vecchio e Riccio, «a Genova si è preferito credere al “maresciallo” Riccio che non al maresciallo Del Vecchio: nel senso che hanno preferito far passare il colonnello come vittima dei suoi sottoposti».
    Oggi, dal carcere di Chiavari dove sta scontando la sua pena, Del Vecchio accetta di raccontare a Tempi la verità sul metodo Riccio. Non vuole passare come una vittima: «Mi assumo le mie responsabilità, ma voglio equità, che si faccia davvero luce sui fatti accaduti a Genova, senza fermarsi alla superficie», dice. La sua testimonianza, riscontrata in aula anche da altre fonti, compreso il maresciallo coimputato Vincenzo Parrella, è ritenuta veritiera dal procuratore Macchiavello, per il quale «quando vi è contrasto tra le dichiarazioni del colonnello e quelle dei marescialli, il colonnello non è credibile e sono decisamente attendibili e provate le dichiarazioni dei marescialli. Nei reparti genovesi il comandante era Riccio, credo che nulla si svolgesse senza che lui decidesse. La verità è che ci sono casi in cui il colonnello ha reso confessione, poi ha ritrattato, e il tribunale ha creduto solo alla ritrattazione. Il colonnello è stato assolto anche per episodi sui quali aveva reso confessione».
    Ma non finisce qui. Riccio è stato coinvolto anche in un altro processo a Torino, dove è stato giudicato per il reato di calunnia ai danni di alcuni magistrati liguri che indagavano sul suo conto. Non ha riportato condanne, ma, ancora una volta, l’immagine di Riccio emersa dall’aula di giustizia piemontese è tutt’altro che luminosa. «È dato storico accertabile che i sottufficiali condannati non rappresentavano delle “mele marce”, proprio in virtù del ruolo che lo stesso Riccio ha svolto, non solo non impedendo ma, anzi, gestendo in prima persona attività illecite» hanno sostenuto nella requisitoria il pm Andrea Padalino e il magistrato onorario Cosimo Maggiore: «Il colonnello Riccio è persona carismatica, dotata di un non comune, e purtroppo criminale, spirito d’iniziativa».
    Altri riscontri dei fatti raccontati da Del Vecchio in questa intervista arrivano da Palermo. Agli atti del processo Mori c’è un documento della Dia centrale di Roma, la struttura in cui Riccio lavorava all’epoca della caccia a Provenzano. Nel documento, datato 13 settembre 1995, sono espresse forti perplessità sugli arresti condotti da Riccio grazie alle indicazioni della fonte Ilardo nel corso della caccia a Provenzano. Dubbi basati sulla considerazione «che la fonte potesse avere un interesse strumentale, in senso strategico criminale, ad eliminare individui scomodi per se stessa». Il colonnello potrebbe anche aver favorito coscientemente la “scalata” a Cosa nostra di Ilardo, sperando di arrivare a Provenzano. Ma c’erano possibilità che un simile piano andasse in porto? «Escludo categoricamente che il colonnello Riccio mi abbia mai parlato di una possibilità concreta e immediata di catturare Provenzano, per la cui cattura si rimase invero sempre in attesa che il latitante fissasse con l’Ilardo un appuntamento», ha raccontato ai giudici palermitani l’attuale procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, che nel ’95 era il pm referente di Riccio per l’indagine. Insomma, ci sono buone ragioni per dubitare delle verità di Riccio. Ma perché allora il tribunale di Genova ha ammorbidito il suo giudizio sul “metodo Riccio” tanto da “ripulire” di fatto l’immagine del colonnello superstar della procura di Palermo?

    Maresciallo Del Vecchio, come ha conosciuto il colonnello Michele Riccio?
    Nel 1989, quando avevo 24 anni, lavoravo nel reparto operativo dei carabinieri di Genova. Riuscii a individuare e catturare Valentino Gionta, boss della camorra, all’epoca uno dei principali ricercati del paese. Durante la caccia a Gionta erano successe diverse cose strane. Un dirigente dell’Alto commissariato per la lotta contro la mafia venne a Genova e mi propose il trasferimento a Roma, con stipendi da favola e prospettive strepitose, se avessi fatto catturare loro Gionta. Rifiutai, ma le pressioni proseguirono. Mi offrirono anche trecento milioni in contanti. Non accettai per rispetto al mio superiore dell’epoca. Alla fine, riuscimmo a catturare il boss. Fu questo l’episodio che mi ha posto all’attenzione di Riccio. Io lo vedevo come una sorta di eroe.

    Ne aveva già sentito parlare prima di allora?
    Sì, in accademia si studiavano le sue operazioni, era considerato un precursore nella lotta ai narcotrafficanti, si parlava di lui e dei suoi uomini come miti. Avrei fatto tutto quello che mi chiedeva. Appena arrivato, gli dissi che avevo un contatto con uno spacciatore che mi aveva parlato di un traffico a Modena. Chiesi di essere messo in condizioni di infiltrarmi: lui mi fornì subito una Porsche, una Bmw, un mucchio di soldi, in modo che potessi fingermi un pezzo grosso del narcotraffico. Erano mezzi forniti al reparto da un faccendiere. Riccio trasferiva per conto suo capitali all’estero, in cambio lui metteva quanti più mezzi a disposizione dei carabinieri. La mia prima indagine andò a buon fine e Riccio mi affidò subito incarichi delicati. Mi legai sempre di più a lui, e questo significò seguirlo in tutte le iniziative, anche le più scellerate.

    Come si lavorava all’interno del reparto?
    Riccio è un’accentratore di prim’ordine. Non delegava a nessuno, assolutamente. Voleva essere informato in tempo reale di tutto quello che avveniva nelle operazioni e nessuno si sognava di fare diversamente, dagli operativi sul campo come me agli addetti alle intercettazioni. Anche le “fonti” nella criminalità diventavano sue: non si poteva fare un’indagine senza presentarle a Riccio. Anche perché gli stessi confidenti ne avevano l’interesse, visto che c’era un rapporto di “do ut des”.

    I magistrati che coordinavano le operazioni cosa sapevano di quello che accadeva?
    Era Riccio che gestiva i rapporti con loro, e per anni ci ha sempre detto che sapevano tutto e approvavano i nostri metodi. Quando fui arrestato, nel ’95, Riccio mi disse che era un complotto dei giudici, per colpire lui arrestavano i suoi uomini. È stato questo l’oggetto della sua frode finale: i magistrati non sapevano come in realtà venivano condotte le indagini. Ma nei reparti di Riccio non c’erano altri referenti, ecco perché potevano accadere cose anomale.

    Per esempio?
    La gestione dei reperti sequestrati, droga, armi o denaro. Il corpo di reato andava depositato subito all’autorità giudiziaria, mi avevano insegnato. Al mio arrivo al Ros nel ’90, invece, trovai questi armadi blidati che contenevano armi sequestrate addirittura alle Brigate Rosse. La caserma di corso Europa, dove in seguito ci trasferimmo, aveva un piano in disuso dove vennero sistemati i residui dei sequestri. Ci trovai anche droga a chili: reperti che risalivano ad anni prima. In seguito, fu lì che Riccio permise a una sua fonte, Angelo Veronese, di raffinare cocaina per mandare avanti un’operazione sotto copertura. È stato condannato per questo.

    Lei è accusato di detenzione illecita di stupefacenti e di cessione di droga ad alcune fonti, anche se non avrebbe ricevuto nulla in cambio. Cosa succedeva?
    Il metodo per procurarci delle informazioni era dare qualcosa alle fonti e ai collaboratori, per mandare avanti le operazioni. Riccio stesso ci ordinava di mettere da parte i reperti, e di consegnarli via via come ricompense.

    In un caso è accusato di aver ricevuto 50 milioni in cambio di tre chili di cocaina, che valevano 210 milioni. In quel caso che successe?
    Non ho mai preso quel denaro. Al processo è stato provato che i 50 milioni in realtà li ho restituiti: successe dopo il furto della cassaforte alla Dia.

    Come un furto? Negli uffici della Dia?
    Esattamente: nell’agosto del 1994. Nella cassaforte erano custoditi da qualche mese 90 mila dollari, sequestrati a due corrieri di droga durante un’operazione. Al processo, Riccio ha ammesso di aver usato parte dei dollari per mandare avanti l’operazione, mentre gli altri sparirono nell’estate. Eppure la cassaforte si apriva solo con una combinazione, che conoscevano due persone dell’ufficio, Riccio e un altro maresciallo. Sarebbe stato impossibile prendere quei soldi senza che ne fossero informati il collega e il colonnello, eppure al processo si è arrivati a sostenere che io sia andato a chiedere la chiave al collega. Ma se la cassaforte era a combinazione, che c’entrava la chiave? In realtà Riccio ci convocò chiedendoci di appianare l’ammanco e raccomandandosi di non denunciare il furto: nell’ufficio c’erano delle lotte intestine, se si fosse saputo della sparizione dei soldi ci avrebbe rimesso lui. «Voi dovete assolutamente mettere a posto questa situazione», disse. Chiedemmo in prestito 50 milioni a due informatori della sezione, per fare delle speculazioni con cui ripianare l’ammanco: soldi che restituii, come hanno testimoniato i due informatori. Anzi, non riuscendo a ripianare del tutto il furto, io, Riccio e altri due marescialli alla fine mettemmo dodici milioni di tasca nostra: anche quest’ultimo fatto è stato accertato. Perché, quando al processo contro Riccio e me si è parlato della cassaforte, non si è mai indagato oltre? Che fine fecero quei soldi? All’epoca dell’ammanco Riccio faceva la spola tra Genova e la Sicilia, dove prendeva contatti con Ilardo: è possibile che abbia preso Riccio quei soldi? Che li abbia consegnati a Ilardo? Sono domande a cui non trovo risposta.

    Perché avrebbe dovuto consegnarli a Ilardo?
    Perché Ilardo era in difficoltà economiche, ma aveva bisogno di crescere in seno a Cosa nostra, per ottenere informazioni e portare Riccio alla cattura di Provenzano. Nel 1995, fui incaricato dal mio superiore di consegnare a Ilardo alcune decine di milioni di lire. Non solo, in quello stesso periodo, un giorno Riccio mi portò ad Alessandria, dove ci incontrammo proprio con Ilardo. Aveva bisogno di soldi e doveva fare da prestanome per l’acquisto di un’immobile a Nizza; in cambio gli avrebbero dato circa 40 milioni di lire. Ma non voleva esporsi, così Riccio mi chiese di prendere il suo posto. Obbedii anche quella volta, ingenuamente. Dopo il mio arresto, Riccio mi raccomandò di tacere su questo episodio. Con i giudici mi limitai a parlare di una speculazione, senza difendermi. Ilardo era solo un disperato a caccia di soldi quando incontrò Riccio. Questo del denaro non è l’unico episodio strano che riguarda i rapporti con Ilardo. C’è anche tutto il capitolo dei diari.

    Si riferisce alle agendine su cui Riccio annotava il suo lavoro, e che oggi usa come prove contro Mori?
    Sì, esattamente. C’è stata una perizia, di un professore, Agosti, che ha stabilito che in quelle agende sono state fatte delle aggiunte “postume”. Non solo. A Genova Riccio è stato condannato per falso ideologico: nei documenti che poi sarebbero diventati parte di processi penali, o informative per i magistrati e i superiori gerarchici, era solito mescolare insieme fatti o persone che non avevano alcun legame nella realtà. Obbligava chi partecipava all’indagine a scrivere una cosa per un’altra. Ho assistito alla costruzione di favole. Questa sua capacità di mischiare, misconoscere certi fatti la dice lunga sulle verità che lui potrebbe raccontare.

    28 ottobre 2009

    Estratto dalla rivista "Tempi"  -  LINK

     

     
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