INTERVISTA A GIUSEPPE DEL VECCHIO
Antimafia fiction: Intervista a Giuseppe Del Vecchio
Un sacco di buone ragioni per dubitare delle verità del superteste Riccio
Maresciallo Del Vecchio, come ha conosciuto il colonnello Michele Riccio?
Nel 1989, quando avevo 24 anni, lavoravo nel reparto operativo dei carabinieri di Genova. Riuscii a individuare e catturare Valentino Gionta, boss della camorra, all’epoca uno dei principali ricercati del paese. Durante la caccia a Gionta erano successe diverse cose strane. Un dirigente dell’Alto commissariato per la lotta contro la mafia venne a Genova e mi propose il trasferimento a Roma, con stipendi da favola e prospettive strepitose, se avessi fatto catturare loro Gionta. Rifiutai, ma le pressioni proseguirono. Mi offrirono anche trecento milioni in contanti. Non accettai per rispetto al mio superiore dell’epoca. Alla fine, riuscimmo a catturare il boss. Fu questo l’episodio che mi ha posto all’attenzione di Riccio. Io lo vedevo come una sorta di eroe.
Ne aveva già sentito parlare prima di allora?
Sì, in accademia si studiavano le sue operazioni, era considerato un precursore nella lotta ai narcotrafficanti, si parlava di lui e dei suoi uomini come miti. Avrei fatto tutto quello che mi chiedeva. Appena arrivato, gli dissi che avevo un contatto con uno spacciatore che mi aveva parlato di un traffico a Modena. Chiesi di essere messo in condizioni di infiltrarmi: lui mi fornì subito una Porsche, una Bmw, un mucchio di soldi, in modo che potessi fingermi un pezzo grosso del narcotraffico. Erano mezzi forniti al reparto da un faccendiere. Riccio trasferiva per conto suo capitali all’estero, in cambio lui metteva quanti più mezzi a disposizione dei carabinieri. La mia prima indagine andò a buon fine e Riccio mi affidò subito incarichi delicati. Mi legai sempre di più a lui, e questo significò seguirlo in tutte le iniziative, anche le più scellerate.
Come si lavorava all’interno del reparto?
Riccio è un’accentratore di prim’ordine. Non delegava a nessuno, assolutamente. Voleva essere informato in tempo reale di tutto quello che avveniva nelle operazioni e nessuno si sognava di fare diversamente, dagli operativi sul campo come me agli addetti alle intercettazioni. Anche le “fonti” nella criminalità diventavano sue: non si poteva fare un’indagine senza presentarle a Riccio. Anche perché gli stessi confidenti ne avevano l’interesse, visto che c’era un rapporto di “do ut des”.
I magistrati che coordinavano le operazioni cosa sapevano di quello che accadeva?
Era Riccio che gestiva i rapporti con loro, e per anni ci ha sempre detto che sapevano tutto e approvavano i nostri metodi. Quando fui arrestato, nel ’95, Riccio mi disse che era un complotto dei giudici, per colpire lui arrestavano i suoi uomini. È stato questo l’oggetto della sua frode finale: i magistrati non sapevano come in realtà venivano condotte le indagini. Ma nei reparti di Riccio non c’erano altri referenti, ecco perché potevano accadere cose anomale.
Per esempio?
La gestione dei reperti sequestrati, droga, armi o denaro. Il corpo di reato andava depositato subito all’autorità giudiziaria, mi avevano insegnato. Al mio arrivo al Ros nel ’90, invece, trovai questi armadi blidati che contenevano armi sequestrate addirittura alle Brigate Rosse. La caserma di corso Europa, dove in seguito ci trasferimmo, aveva un piano in disuso dove vennero sistemati i residui dei sequestri. Ci trovai anche droga a chili: reperti che risalivano ad anni prima. In seguito, fu lì che Riccio permise a una sua fonte, Angelo Veronese, di raffinare cocaina per mandare avanti un’operazione sotto copertura. È stato condannato per questo.
Lei è accusato di detenzione illecita di stupefacenti e di cessione di droga ad alcune fonti, anche se non avrebbe ricevuto nulla in cambio. Cosa succedeva?
Il metodo per procurarci delle informazioni era dare qualcosa alle fonti e ai collaboratori, per mandare avanti le operazioni. Riccio stesso ci ordinava di mettere da parte i reperti, e di consegnarli via via come ricompense.
In un caso è accusato di aver ricevuto 50 milioni in cambio di tre chili di cocaina, che valevano 210 milioni. In quel caso che successe?
Non ho mai preso quel denaro. Al processo è stato provato che i 50 milioni in realtà li ho restituiti: successe dopo il furto della cassaforte alla Dia.
Come un furto? Negli uffici della Dia?
Esattamente: nell’agosto del 1994. Nella cassaforte erano custoditi da qualche mese 90 mila dollari, sequestrati a due corrieri di droga durante un’operazione. Al processo, Riccio ha ammesso di aver usato parte dei dollari per mandare avanti l’operazione, mentre gli altri sparirono nell’estate. Eppure la cassaforte si apriva solo con una combinazione, che conoscevano due persone dell’ufficio, Riccio e un altro maresciallo. Sarebbe stato impossibile prendere quei soldi senza che ne fossero informati il collega e il colonnello, eppure al processo si è arrivati a sostenere che io sia andato a chiedere la chiave al collega. Ma se la cassaforte era a combinazione, che c’entrava la chiave? In realtà Riccio ci convocò chiedendoci di appianare l’ammanco e raccomandandosi di non denunciare il furto: nell’ufficio c’erano delle lotte intestine, se si fosse saputo della sparizione dei soldi ci avrebbe rimesso lui. «Voi dovete assolutamente mettere a posto questa situazione», disse. Chiedemmo in prestito 50 milioni a due informatori della sezione, per fare delle speculazioni con cui ripianare l’ammanco: soldi che restituii, come hanno testimoniato i due informatori. Anzi, non riuscendo a ripianare del tutto il furto, io, Riccio e altri due marescialli alla fine mettemmo dodici milioni di tasca nostra: anche quest’ultimo fatto è stato accertato. Perché, quando al processo contro Riccio e me si è parlato della cassaforte, non si è mai indagato oltre? Che fine fecero quei soldi? All’epoca dell’ammanco Riccio faceva la spola tra Genova e la Sicilia, dove prendeva contatti con Ilardo: è possibile che abbia preso Riccio quei soldi? Che li abbia consegnati a Ilardo? Sono domande a cui non trovo risposta.
Perché avrebbe dovuto consegnarli a Ilardo?
Perché Ilardo era in difficoltà economiche, ma aveva bisogno di crescere in seno a Cosa nostra, per ottenere informazioni e portare Riccio alla cattura di Provenzano. Nel 1995, fui incaricato dal mio superiore di consegnare a Ilardo alcune decine di milioni di lire. Non solo, in quello stesso periodo, un giorno Riccio mi portò ad Alessandria, dove ci incontrammo proprio con Ilardo. Aveva bisogno di soldi e doveva fare da prestanome per l’acquisto di un’immobile a Nizza; in cambio gli avrebbero dato circa 40 milioni di lire. Ma non voleva esporsi, così Riccio mi chiese di prendere il suo posto. Obbedii anche quella volta, ingenuamente. Dopo il mio arresto, Riccio mi raccomandò di tacere su questo episodio. Con i giudici mi limitai a parlare di una speculazione, senza difendermi. Ilardo era solo un disperato a caccia di soldi quando incontrò Riccio. Questo del denaro non è l’unico episodio strano che riguarda i rapporti con Ilardo. C’è anche tutto il capitolo dei diari.
Si riferisce alle agendine su cui Riccio annotava il suo lavoro, e che oggi usa come prove contro Mori?
Sì, esattamente. C’è stata una perizia, di un professore, Agosti, che ha stabilito che in quelle agende sono state fatte delle aggiunte “postume”. Non solo. A Genova Riccio è stato condannato per falso ideologico: nei documenti che poi sarebbero diventati parte di processi penali, o informative per i magistrati e i superiori gerarchici, era solito mescolare insieme fatti o persone che non avevano alcun legame nella realtà. Obbligava chi partecipava all’indagine a scrivere una cosa per un’altra. Ho assistito alla costruzione di favole. Questa sua capacità di mischiare, misconoscere certi fatti la dice lunga sulle verità che lui potrebbe raccontare.
28 ottobre 2009
Estratto dalla rivista "Tempi" - LINK